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Le tre logiche del dono

di Daniele Zappalà - 20/12/2006

La distinzione del filosofo francese Marcel Hénaff:«C’è il regalo cerimoniale fondato sulla reciprocità, quello di aiuto, che esprime la mutualità, e quello gratuito,unilaterale, offerto a Natale»

 

«L'inferno non sono gli altri, come pensava Sartre. Ma è quando qualsiasi relazione con gli altri diventa unicamente una relazione d'interesse». A difendere questa tesi nel corso di un affascinante percorso esplicativo che attinge linfa dalle profondità più remote del pensiero occidentale è il filosofo francese Marcel Hénaff. In Il prezzo della verità, da poco pubblicato in Italia da Città Aperta (pagine 584, euro 28,00), le idee storiche e contemporanee di dono, denaro e verità si urtano e risuonano assieme come monete fra loro ben diverse ma capaci di generare un'originale armonia.
Professore, il dono è al centro delle società tradizionali. In che misura, si tratta di un elemento culturale universale?
«È vero che il dono è al centro delle società tradizionali. Ma, sotto forme diverse, ciò è vero anche per le nostre. Soltanto, non parliamo sempre dello stesso dono: tutto il problema mi pare qui. Il dono delle società tradizionali è quello cerimoniale che i capi dei clan o dei lignaggi si scambiano in nome del proprio gruppo. In questo caso, è essenziale che i doni siano reciproci. Queste cerimonie sono pubbliche e riguardano tutta la comunità. Come mostro nel mio libro, si tratta di procedure di riconoscimento reciproco fra gruppi».
E nelle nostre società?
«Tutto ciò sembra molto lontano rispetto ai regali che i genitori fanno oggi ai propri figli per il compleanno o per Natale: i donatori non attendono nulla in cambio. A loro volta, questi doni sembrano senza alcun rapporto con quelli fatti a delle popolazioni che patiscono la fame o un cataclisma naturale. Ma in tutti questi tre casi, diciamo "donare", anche se non si tratta dello stesso tipo di dono. Il dono cerimoniale tradizionale è fondato sulla reciprocità, il dono unilaterale sulla gratuità, quello di aiuto esprime la mutualità. Valutare l'uno secondo i criteri dell'altro mi pare una fonte di costanti confusioni che dovremmo imparare a evitare».
Dono significa anche uscire dagli schemi dell'economia m onetaria. E quest'ultima, fin da Socrate, ha suscitato una lunga tradizione di sospetti. Perché?
«Come problema filosofico esplicito, questa riflessione risale in effetti a Socrate, ma diversi pensatori precedenti - Sofocle, ad esempio - avevano presentito la potenza pericolosa del denaro. Socrate, così come ce lo presenta Platone, non si stanca di chiamare in causa quei filosofi remunerati che sono i sofisti, soprattutto quando alcuni di essi, come Ippia, lasciano intendere che il livello dei propri emolumenti è la prova della propria qualità di pensatore».
Oggi, in un certo senso, l'impressione è che siano stati i sofisti ad aver "vinto". Almeno rispetto alla gratuità rivendicata da Socrate...
«In effetti, troviamo normale che un professore, persino di filosofia, sia retribuito, poiché sappiamo che ciò che viene pagato non è ciò che dice, ma il lavoro d'insegnamento. Nel frattempo, la nostra cultura ha appreso a valorizzare il lavoro e a non confondere i livelli. Ma ciò avviene anche perché la figura del mercante ha cambiato molte cose nelle nostre società. Nelle società tradizionali, non ci sono mercanti. I produttori vendono i loro prodotti. L'apparizione del mercante è tardiva».
È una figura che talvolta suscita ancora, nella nostra cultura, un certo fondo di diffidenza…
«Lo si può definire come qualcuno che compra e vende per altri, cioè che compra e vende non per consumare ma per ricavare un profitto nella transazione. Incontestabilmente, offre un servizio trasportando dappertutto dei beni prodotti altrove e lontano. Ma il fatto di non produrre e di non consumare i beni acquisiti è sembrato strano, quasi perverso. È proprio ciò che pensa Platone e in misura minore Aristotele. Il mercante è anche spesso uno straniero non sottomesso alle leggi della città e per questo lo si sospetta ancora di essere deviante rispetto alla società. Ma, ancor più, è colui che santifica il regno del denaro. Per questo, Platone lo condanna e Aristotele si mostra sospettoso».
Lei ricorda che Aristotele era quasi terrorizzato dalla misteriosa proprietà del denaro di non raggiungere mai un punto di saturazione, a differenza degli altri beni. Parrebbe una riflessione ancora attuale…
«In effetti, questa capacità del denaro di poter essere accumulato senza limite preoccupava fortemente Aristotele. Non è molto difficile da comprendere e credo sia molto istruttivo oggi. Per Aristotele, produrre un bene significa produrlo in vista del suo uso e del suo consumo (da qui, i sospetti riguardo ai mercanti). Aristotele ragiona così: per ogni bene, vi è un punto di saturazione noto; non si può bere né mangiare aldilà di una certa quantità; non si possono portare più vestiti di quelli che occorrono ecc... Dunque, vi è un limite al consumo. Ma il denaro con cui si può acquistare ogni sorta di beni ha questa strana proprietà di poter essere accumulato senza raggiungere un limite di saturazione e anche se alcun bisogno legittima il suo accumulo».
E qual è la conclusione?
«Aristotele fa quest'ipotesi interessante: vi è in noi una forma di desiderio che non conosce limiti - lo chiama pleonexia -, questo desiderio insaziabile è il "cattivo infinito". Non appena appagato, si rigenera. Aristotele lo considera come un tratto negativo della nostra natura. E il denaro ha la capacità di innestarsi su questo desiderio».
In che modo?
«Perché è esso stesso un bene atipico: può essere scambiato come ogni altro bene, ma non può essere consumato. Può essere accumulato al di là di qualsivoglia bisogno e attraverso ciò diventa il vettore del desiderio illimitato. Ciò vale perfettamente per il consumatore moderno. Al punto che il denaro, dato che può acquistare ogni altro bene, diventa la base di sicurezza per coloro che non hanno alcuna fiducia in null'altro, sia in termini di fede religiosa, di fiducia negli amici o di sostegno di una comunità tradizionale. Da questo punto di vista, il denaro è diffidente, "ateo", egoista»".
L'economia mondiale di oggi, fondata su un modello utilitario di scambio, sembra davvero molto lontana dall'idea tradizionale di dono pubblico. Esistono continuità sotterranee?
«Lo scambio utilitario ha la sua ragion d'essere, così come l'economia monetaria. Già Aristotele lo dice e poi la teologia medievale, a cominciare da san Tommaso d'Aquino. San Paolo affermava già che colui che fa un lavoro riceve il suo salario non come una grazia ma come cosa dovuta. L'ordine mercantile e contrattuale è perfettamente legittimo. Non lo è, invece, la sua pretesa di assorbire in sé ogni valutazione dei beni o delle attività, di definire ogni relazione sociale e professionale. Esso tende a volersi sostituire alle tre forme di dono che propongo di distinguere: sostituire, cioè, il riconoscimento pubblico con lo status che assicura la ricchezza, la gratuità con la venalità e l'aiuto reciproco con dei servizi a pagamento. Non è il denaro in quanto tale che è pericoloso, ma la tendenza che si sviluppa nelle nostre società di calcare ogni relazione sociale sulla relazione mercantile».