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Capitalismo e democrazia

di Carlo Gambescia - 08/01/2007

 

Il capitalismo attuale

P erché meravigliarsi se oggi capitalisti, imprenditori, manager, finanzieri non sono più quelli di una volta? In realtà, Tanzi, Cragnotti, Fiorani, Consorte, Ricucci, sono il frutto di una logica sistemica. Rappresentano un capitalismo in declino, entrato nella sua Terza Età. E non che all’estero vada meglio, come insegna lo scandalo Enron. Insomma, anche i padroni non sono più quelli di una volta. Ma diamo la parola alla storia.
Il capitalismo viene da lontano. La fase eroica va dal XVI al XIX secolo, e vede al comando pirati come Drake, inventori-imprenditori come Wyatt. Arkwright, banchieri del calibro di Rotschild e Morgan e capitani d’industria come Carnegie, Rockfeller. Figure che interpretano la natura creativa e sanguigna del capitalismo. Ma nel 1914, si apre un periodo crisi e transizione. Magari, emergono uomini ancora capaci come Ford, ma la tendenza generale è verso un capitalismo manageriale e speculativo. Due guerre mondiali, l’abbraccio dello stato, la paura di nuovi crolli (come nel 1929) faranno il resto: il capitalista da sanguigno e attivo diverrà parassita.
Ricapitolando: fase 1 o eroica (che tocca il culmine nel XIX secolo), dove si affermano i capitani d’industria, le cui attività portano alla formazione di grandi imprese, come le corporations americane; fase 2 o dei diadochi (che si generalizza nella prima metà del secolo XX), dove gli eredi dei grandi imprenditori, passano la mano a manager e proprietari azionisti; la fase 3 o speculativa (che dopo un primo sviluppo negli anni Sessanta giunge solo oggi a completa maturazione), dove i principale azionisti, non confidando nei manager, iniziano, come si dice in gergo, a non mettere tutte le uova nello stesso paniere, diversificando gli investimenti per distribuire i rischi. Nascono così i manager di portafoglio, la cui funzione è assolta da venditori istituzionali e intermediari finanziari (fondi di investimenti, società finanziarie ecc.). Ma anche da finanzieri e imprenditori privi di scrupoli… Il “gioco” finisce così per riguardare solo chi decide di offrire capitale e chi decide come investirlo. E quel che conta per entrambi, non è più la bandiera o il carisma imprenditoriale, ma la redditività di un capitale investito, che a causa della crescente instabilità dei cambi e del progresso tecnologico, diventa sempre più speculativo.
E’ perciò ovvio che in tale situazione proliferino avventurieri di ogni genere. Il capitalismo sembra tornato alle sue origine piratesche. Ma personaggi come Drake erano intrepidi spadaccini e furbissimi pirati , mentre figure come Tanzi, Cragnotti e Ricucci, sono a dir poco patetiche: da capitalismo in disarmo.
Come finirà? Schumpeter riteneva che il capitalismo generasse una forma mentis ipercritica, giovevole al progresso economico (la cosiddetta distruzione creatrice…), ma non a quello sociale. Perché l’ “ipercriticismo”, dopo aver distrutto l’autorità morale delle altre istituzioni, si sarebbe rivolto contro le proprie. Il sistema gli appariva proiettato, già negli anni Quaranta del secolo scorso, verso “l’esaurimento delle risorse morali”. E i continui scandali di oggi, come gli appelli retorici al rispetto delle “regole” , indicano che Schumpeter aveva ragione. Del resto, come tutte le istituzioni sociali, anche il capitalismo è “mortale”, anche se a coloro che vi sono nati e vissuti, può apparire eterno. Non si capisce allora perché anche il capitalismo, come sistema politico, economico e sociale, non possa subire la stessa sorte di altre grandi istituzioni come l’Impero Romano, giudicato, altrettanto eterno dai suoi contemporanei.
Ecco, allora, che figure, in fondo patetiche, come quelle di Tanzi, Cragnotti e Ricucci, possono ricordare quelle degli ultimi imperatori romani d’Occidente, ad esempio Giulio Nepote e Romolo, detto Augustolo, dediti in modo infantile alle proprie questioni private e ignari che il mondo politico e sociale circostante era sul punto di svanire per sempre.

Capitalismo, democrazia e cittadinanza oggi

Questa forma di capitalismo “malato” nutre e si nutre di un sistema politico bloccato. Dove destra e sinistra si confrontano stancamente solo su tasse e spesa sociale…
Infatti, se c’è un fantasma che si aggira oggi per l’Europa, per parafrasare Marx, è sicuramente quello della democrazia. Uno spettro che non spaventa nessuno, anzi annoia, e soprattutto viene sistematicamente rimosso.
Facciamo subito un esempio. Se la democrazia è la “macchina che fabbrica cittadini”, nel senso che il voto rappresenta l’esercizio di una libera scelta attraverso cui l’elettore può “cambiare le cose”, allora la democrazia italiana non “fabbrica” più cittadini dal 1948. Anno in cui gli italiani votarono, facendo una precisa scelta di campo (che può piacere o meno, ma questa è un’altra storia). Dopo di che il sistema dei partiti, diviso in due blocchi, sprofondò in una specie di limbo, durato fino alla caduta dell’Unione Sovietica. Negli anni Novanta l’apparizione di Berlusconi, ha agitato le acque, ma dopo le ultime politiche, l’ Italia con Prodi sembra decisamente tornata alla “normalità”.
Persiste il sentimento diffuso che recarsi alle urne non abbia ormai alcun valore. In Italia votano 3 cittadini su 4 , in Europa 2 su 4, negli Stati Uniti 1 su 4. Tutto sommato, l’ Italia, non è messa così male. Ma se si intervista il cittadino che vota, si scopre che 1 su 2 non crede più nell’importanza del suo voto, e soprattutto non ha alcuna fiducia nella classe politica, che spesso giudica corrotta e inefficiente
Ma se la democrazia non “fabbrica” più cittadini, attraverso l’esercizio del voto, come li “fabbrica”? Il circuito della legittimazione e del consenso segue oggi altre strade.
In primo luogo, va ricordata la “cittadinanza mediatica”. Gli studi sui contenuti dei programmi e delle notizie veicolate dai media, provano che viene costantemente ripetuto un solo messaggio: il nostro sistema di vita, quello italiano, europeo, occidentale, è il migliore in assoluto. E le disfunzioni, che tra l’altro non sono poche (ambientali, sociali, economiche), sono sempre presentate come fisiologiche: come un prezzo, fin troppo lieve, da pagare al giusto progresso.
In secondo luogo, non può essere ignorata la “cittadinanza economica”. Il sistema produttivo, tutto sommato, finora ha retto. Il che ha permesso una redistribuzione regolare del prodotto sociale e garantito tutele sindacali, previdenziali e assistenziali. Di qui proviene il consenso delle classi lavoratrici, ma anche la trasformazione del dibattito politico in economico: la “politica” ormai ruota esclusivamente intorno ai criteri fiscali di divisione del prodotto sociale. Il terzo luogo, va segnalata la “cittadinanza consumistica”. Assicurare a tutti (o quasi) la possibilità di acquisire beni e servizi, rappresenta la carta vincente. La “riprova” che il sistema funziona. L’iperconsumo viene giudicato dalla gente comune, che subisce l’ipnotico effetto della cittadinanza mediatica, come il sognato traguardo della cittadinanza economica.
E così il cerchio si chiude. Se si vive in una specie di Paese dei Balocchi, che senso può avere per la gente la cittadinanza politica? Perché dovrebbe votare per cambiare? Se, nonostante i casi di corruzione, tutto sembra “marciare” per il meglio, perché l’elettore dovrebbe punire i corrotti ? Perché dovrebbe votare forze politiche “antisistemiche”? E per giunta animate da “ideali retrivi”? Forze che se vincessero potrebbero distruggere questo meraviglioso Paese di Bengodi?
Un’ultima osservazione: le cittadinanze mediatica, economica e consumistica sono inversamente proporzionali alla cittadinanza politica. Se si consolidano le prime tre, si indebolisce la seconda. Come ormai regolarmente avviene da mezzo secolo. L’Italia, ma più probabilmente l’intera Europa, non è divisa in blocchi politici opposti, come spesso si pontifica in modo interessato. Ma assomiglia sempre a un unico blocco politico e sociale cementato dall’egoismo di un consumismo esasperato.

Ritorno alla democrazia diretta?

Pertanto, quando si parla di democrazia si deve sempre distinguere tra retorica politica e concreto coinvolgimento collettivo. Nelle democrazie un buon barometro dello stato di salute è costituito dal tasso di partecipazione elettorale. Ora, potrà anche sembrare esagerato, ma la bassa partecipazione degli elettori, oggi così diffusa, indica tre fatti: Primo: la salute “elettorale” della nostra democrazia è pessima, dal momento che un sistema che perde elettori rischia di perdere anche legittimità. Secondo: la depoliticizzazione è ormai un fenomeno di massa. E non c’è da gioire, perché una democrazia composta solo di individui dediti al “particulare” rischia di trasformarsi in fiera degli egoismi sociali. Terzo: per i due quarti degli elettori l’esercizio della libertà di voto è divenuto un peso. E purtroppo una democrazia in cui la libertà politica è disprezzata rischia, prima o poi, di aprire le porte al “buon tiranno“.
Quindi, riassumendo, il problema è più vasto e ha radici profonde. In primo luogo, le nostre sono democrazie “consumistiche: l’elettore è interessato a difendere solo il suo livello di consumi. Tutto ciò che esula dal mantenimento di un certo tenore di vita, come i grandi problemi costituzionali, morali e religiosi, non è tenuto in alcuna considerazione.
In secondo luogo, dietro l’ “assenteismo” elettorale c’è la cultura del disimpegno politico, così massicciamente diffusa a scopo preventivo dai cultori mediatici del divertentismo capitalistico. E con buoni risultati, purtroppo. Recenti ricerche mostrano che solo un giovane su cinque crede nella funzione democratica del voto. Che quattro giovani su cinque credono solamente nell’amicizia nell’amore e nel lavoro: valori nobili e importanti, ma “privati” per eccellenza. Quanto agli adulti è noto che tre su cinque ritengono i politici e i partiti poco affidabili.
La vera risposta è far crescere la democrazia diretta, anche dal punto di vista propositivo. Certo, è innegabile che questa forma di democrazia sia più adatta alle piccole comunità (dalla città-stato greca al comune medievale, come mostra la storia). Inoltre, col moderno Stato-Nazione la democrazia diretta ha subito involuzioni plebiscitarie, basti pensare alla Germania hitleriana e alle “democrazie popolari” dell’Est europeo. Il caso svizzero, frutto di antiche tradizioni comunitarie, rare a riprodursi altrove, costituisce invece la classica eccezione che conferma la regola. Pertanto ci sono difficoltà e rischi. Ma varrebbe la pena di tentare, soprattutto per sottrarsi alla nostra attuale condizione di figli di una democrazia minore. Come? Ripartendo dal basso. Ad esempio dai “municipi” circoscrizionali, puntando sui bilanci partecipativi. In che modo? Facendo scegliere ai cittadini come e dove destinare le risorse che li riguardano localmente. E di lì, partendo dalla discussione dei piccoli problemi (asili, scuole, spazi ricreativi…), giovani e adulti potrebbero sottrarsi alla cultura dei consumi e del disimpegno, creando zone liberate. E così, per gradi, riacquistare fiducia nella politica, fondendo insieme partecipazione e amicizia, pubblico e privato…
Si dirà: utopie. Ma non è altrettanto utopico, continuare a ritenere che una democrazia consumistica e priva di popolo sia il migliore dei mondi possibili?