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Ecologia ed economia: cosa è lo "stato stazionario"

di Mario Spinetti - 24/01/2007

 

La nascita dello Stato sociale, tipica costruzione politica del XX° secolo, è collegata a tre eventi: la seconda rivoluzione industriale, la crisi del ‘29 e i cambiamenti sociali conseguenti al secondo conflitto mondiale. Lo Stato lasciatoci in eredità dal XIX° secolo, quello che si suole definire Stato gendarme, trovava la propria motivazione in una società estremamente semplificata nelle sue componenti, mentre la società contemporanea, è invece fortemente articolata, complessa, contraddittoria, in cui le spinte, le sollecitazioni, i conflitti, si incontrano e si scontrano in una incessante dialettica. Una siffatta articolazione, ancor più accentuata dall’eccezionale sviluppo del terziario avanzato, fa emergere problemi ancor più complessi e urgenti.

Di fronte ad una simile mutazione del tessuto sociale, lo Stato moderno è costretto a rivedere le proprie scelte per qualità e ampiezza. A tal proposito occorre ricordare che il New-Deal roosveltiano è la prima rilevante testimonianza di una politica economica che sposta la propria attenzione dalla micro-economia alla macro-economia e, non v’è dubbio che le teorie del Keynes e del suo famoso moltiplicatore furono determinanti per il superamento della recessione del ‘29.

I gravi problemi che affliggono attualmente le economie mondiali (salvo momentanee eccezioni) emergono con particolare evidenza dal progressivo aumento del tasso di disoccupazione della forza lavoro. Non v’è dubbio che il problema si segnala con accentuata urgenza anche perché l’incidenza della componente giovanile assume, al suo interno, significati di particolare valore sociale.

E’ opinione generale che le cause da cui discende la crisi occupazionale siano di tipo strutturale e congiunturale e, tra quelle strutturali, si annovera - in primo luogo - l’effetto derivante dall’avvento della terza rivoluzione industriale che, portando in fabbrica l’automazione e la robottizzazione, elimina una notevole aliquota di mano d’opera. E’ pur vero, d’altra parte, che il terziario, specie quello avanzato, assorbe nuove forze di lavoro ma, com’é noto, il settore abbisogna di personale altamente specializzato, mentre le unità lavorative liberate dall’industria non sempre sono in grado di soddisfare le specifiche richieste del mercato.

Per quanto attiene ai rimedi che da più parti si invocano per portare a soluzione la questione occupazionale è da sottolineare che essi sono spesso contraddittori perché riflettono angolazioni di opposti interessi. Tra le teorie economiche suggerite si citano le seguenti:

a) “legge” di Pigou, detta “legge” del pieno impiego, che - ipotizzando una generalizzata riduzione del salario reale - tende a conseguire la piena occupazione, fermo restando il fondo salari;

b) riduzione dell’orario di lavoro (“lavorare meno, e lavorare tutti”);

c) maggiore mobilità e incentivazione del “part-time”;

d) manovra di Bilancio tendente a ridurre la spesa corrente a beneficio di quella destinata agli investimenti, onde conseguire l’effetto derivante dal moltiplicatore del Keynes.

Quelle di cui si è fatto appena cenno sono le tesi più dibattute ma, è ovvio, che nessuna di esse si pone come variabile indipendente perché qualsiasi intervento di politica economica genera, quasi sempre, reazioni a catena dovute alla interdipendenza dei complessi problemi economici.

Il problema occupazione presenta grandi difficoltà di analisi e di soluzioni e, a giudizio dei più, non potrà essere risolto mediante politiche frammentarie e occasionali, ma necessita invece di interventi che, tramite un’attenta programmazione, ne affrontino globalmente le cause onde rimuovere un quadro economico incerto e carico di gravi tensioni.

Ma l’errore di fondo di tutte le politiche economiche capitalistiche è la pretesa di programmare l’economia sempre in chiave di sviluppo ascendente continuo, con l’illusione che il sistema possa perdurare nel tempo. Occorre invece riferirsi ad una economia in stato stazionario così definita dal Daly (1981 in Gamba & Martignitti, 1995):” ...stock costanti di popolazioni e di manufatti, mantenuti al livello ritenuto sufficiente con tassi di prelievo di materia ed energia a bassa entropia e di rigetto di rifiuti ed emissioni il più possibile bassi”. In sostanza acquisire una visione economica che tenga conto con preminenza delle leggi dell’ecologia e della termodinamica. La produttività deve tendere alla stabilità con un andamento sinusoidale e deve far decrescere la produzione dei beni inutili sino a farli scomparire (occorreranno decenni), in concomitanza ad una rigida riduzione della popolazione mondiale. La mano d’opera che viene a liberarsi, verrà assorbita dai lavori socialmente ed ecologicamente utili. La società del XXI° secolo deve obbligatoriamente contemplare anche questa categoria di lavoratori. Le politiche economiche degli Stati, uniformate e universalizzate, si dovranno dunque assestare su parametri di produttività stazionaria ed essenziale, rinunciando alla logica del profitto, del consumo e dello spreco. Una società essenziale oltre a garantirsi una reale esistenza nel tempo, sarà “ricca” di qualità e di armonia. D’altronde la necessità di una economia ecologica bioregionale (ciò il mutuo rapporto con l’ambiente circostante alla propria comunità) sarà un obbligo delle società del del’’immediato futuro a meno che l’uomo, prigioniero e schiavo della propria opulenza, non voglia precipitare nel baratro che egli stesso si è scavato. Scrive saggiamente A. Solgenitsin “Il progresso non deve essere più considerato la caratteristica auspicabile della società, la perpetuità del progresso è un mito assurdo. Occorre realizzare non una economia di sviluppo continuo, ma una economia di livello costante, stabile. La crescita economica non solo non è necessaria ma è perniciosa”.

Annota Naess (1994): “Recentemente, indipendentemente dal movimento ecologista, gli stessi economisti hanno iniziato a criticare in maniera vigorosa la crescita economica e il modo in cui vengono fissati gli ‘obiettivi nazionali’ come indicatori della crescita del benessere nei paesi industriali. Ma la parola chiave ‘crescita economica’ continua ad avere in politica un’importanza fondamentale, nonostante sia sempre più evidente che influisce in modo negativo sulla qualità della vita delle nazioni industriali ricche. Inoltre mette seriamente in pericolo le possibilità di sopravvivenza per le generazioni future.

Sarebbe in grave errore per il movimento ecologista non utilizzare le critiche mosse dagli stessi economisti alla propaganda per la crescita economica. Ogni giorno, ogni settimana, i giornali e la televisione citano continuamente la crescita economica misurata in termini di PNL (Prodotto Nazionale Lordo) come se fosse un elemento decisivo del successo della politica economica. E’ raro che gli ecologisti mettano in dubbio questo legame.......”.

Tuttavia, per aggiungere una ennesima ma reale nota di pessimismo, occorre ricordare Passmore (1974 in Hargrove, 1990) quando asserisce che ci saranno sempre condizioni economiche che prevarranno sulla preservazione di qualsiasi cosa. La miope visione dell’immediato accompagnerà sempre le scelte dell’uomo contemporaneo!

Ci si preoccupa dell’economia più di qualsiasi altro interesse umano (il Prodotto Nazionale Lordo è considerato l’unico indicatore di sviluppo), e non si pratica una politica ambientale responsabile, capillare, efficace, fondamentalmente bioregionale, ignorando o fingendo di ignorare che senza il mantenimento degli equilibri naturali anche l’economia cessa di esistere per l’irresponsabile prosciugamento della fonte del suo nutrimento. “Solo riducendo al minimo l’impiego di risorse non rinnovabili e utilizzando risorse rinnovabili con lo stesso ritmo con cui possono essere ripristinate, senza provocare danni gravi al ciclo ecologico, è possibile ridurre al minimo il disavanzo tra consumo della società e produzione in natura” (Rifkin, 1982).

Ci è capitato di sfogliare un depliants pubblicitario a tematica economica che rispecchia purtroppo il pensiero della società capitalistica contemporanea e che racchiude in se il germe della distruzione. Ne riportiamo un breve quanto eloquente stralcio.

“Le principali tendenze di sviluppo e i cambiamenti dei prossimi anni provocheranno un aumento e una crescita della domanda in molti settori a livello mondiale:

Trend: Aumento della popolazione mondiale

Effetti: Crescita della domanda dei beni di consumo

Trend: Diffusione della comunicazione e dell’informazione

Effetti: Aumento esponenziale della domanda di tecnologia informatica

Trend: Globalizzazione dei mercati

Effetti: Crescita della domanda dei prodotti di marca

Trend: Progressiva industrializzazione mondiale

Effetti: Crescita della domanda di risorse energetiche

Noi aggiungiamo:

Trend: invasione totale del pianeta terra (sia in senso fisico che nel senso degli agenti inquinanti)

Effetti: fine del pianeta Terra!

Forse a quel punto la nostra economia di “sviluppo” non sarà più utile!

Scrive Hosle (1992): “Ma non sappiamo se la ragione farà a tempo a introdursi nel locomotore del treno che sfreccia verso l’abisso e nel quale noi tutti viaggiamo, né se riuscirà a fermarlo in tempo (tanto più che lo spazio di frenatura non è minimo). Ma qual è il locomotore del mondo moderno? E’ certamente l’economia. Il suo principio propulsivo, la sua molla sono però i valori e le categorie, ormai popolarizzati, della filosofia moderna: il mito della fattibilità, l’aspirazione a superare ogni limite quantitativo, la mancanza di scrupoli nei confronti della natura. E quindi una filosofia per la quale la responsabilità non sia un concetto vuoto dovrà cercare in primo luogo di creare valori nuovi e in secondo luogo di trasmetterli alla società e agli esponenti di punta del mondo economico, e dovrà cercarlo di farlo il più rapidamente possibile. Perché il tempo stringe”.

Kirkpatrik Sale, un profondo cultore del bioregionalismo, ci indica bene la via da seguire (in AA. VV., 1994 pagg. 31-32): “L’economia di una bioregione deriva le sue caratteristiche dalle condizioni e dalle leggi della natura.

La nostra ignoranza è certo immensa, ma dopo tanti secoli di vita ‘sul’ suolo, possiamo rifarci a quello che Goldsmith ha definito il complesso delle leggi dell’ecodinamica, distinto dal complesso delle leggi della termodinamica.

La prima di queste leggi è che conservazione/preservazione/mantenimento sono l’obiettivo principe del mondo naturale: da qui la sua intrinseca resistenza a cambiamenti strutturali su larga scala.

La seconda legge dice che, ben lungi dall’essere entropica, la natura è invece intrinsecamente stabile e tende sempre e comunque verso quello stato che l’ecologia definisce climax, ossia un bilanciato, armonico ed integrato stato di maturità che, una volta raggiunto, si mantiene per lunghi periodi.

Per questo motivo un’economia bioregionale cerca di mantenere, piuttosto che sfruttare, il mondo naturale e di adattarsi all’ambiente piuttosto che resistergli.

Tenterà di creare le condizioni climax, in un equilibrio che alcuni economisti definiscono oggi come stato stazionario, invece di una condizione di perpetuo cambiamento e continua ‘crescita’, al servizio del ‘progresso’, divinità illusoria e falsa.

L’economia bioregionalista, in termini pratici, riduce al minimo l’uso delle risorse, enfatizza la conservazione e il riciclaggio, evita l’inquinamento e lo spreco; adatta i suoi sistemi produttivi alle risorse locali, utilizzando ad esempio l’energia del vento, se è possibile, o il legno, dove ciò sia appropriato, o, per quel che riguarda il cibo, si rivolge a ciò che la regione stessa, particolarmente nel suo stato preagricolo, è in grado di produrre. Questo a partire dal più elegante ed elementare fra i principi della natura: quello dell’autosufficienza.

La natura, che non prevede il ‘commercio’, non crea elaborate reti di interdipendenza su scala continentale; perciò la bioregione deve trovare tutte le risorse di cui necessita per energia, cibo, abitazioni, vestiario, utensili, manufatti e via dicendo, entro i propri confini.

Ben lungi da rappresentare un impoverimento, questo significherebbe un guadagno, per la salute economica della bioregione, sotto ogni aspetto.

Sarebbe un’economia più stabile, libera dai cicli di boom e recessione, lontana dall’influenza delle crisi politiche. In essa sarebbe possibile pianificare e redistribuire le risorse, per ottenere lo sviluppo dei settori deficitari, al ritmo più appropriato e nella maniera più ecologica.......

Una delle intuizioni più valide di Schumacher è questa: l’economia di mercato del capitalismo del XX secolo è fondamentalmente sbagliata perché prescinde continuamente dalla natura.

Schumacher avverte anche che ‘è insito nella metodologia della scienza economica ignorare la dipendenza dell’uomo dal mondo naturale. Il mercato però rappresenta solo la superficie della società, ed il suo significato è relativo alla situazione momentanea, per come esiste qui ed ora’.

La sienza economica moderna ‘non studia in profondità le cose, i fatti naturali e sociali che si trovano dietro di esse’.

Ecco perchè, come egli sottolinea, si è persa la distinzione fra beni primari ‘che l’uomo deve conquistare in natura’ e beni secondari, fabbricati dall’uomo stesso; o tra risorse rinnovabili e risorse esauribili.

Inoltre, normalmente, l’economista non considera i costi sociali dello sviluppo competitivo.

Un’economia bioregionale si basa invece proprio su queste distinzioni vitali”.