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La tradizione è una innovazione ben riuscita

di Carlo Petrini - 24/01/2007

Modernizzazione, identità. L’originalità dell’accostamento di questo binomio sta nell’idea che i modelli di sviluppo debbano essere fortemente legati all’identità. E questa è una cosa straordinaria, proprio per l’elemento di contraddizione che c’è nel termine "identità". In effetti, non c’è dubbio che l’elemento "tradizione" abbia una valenza identitaria, ma al tempo stesso va ricordato che non esiste identità senza scambio. Un aspetto secondo me importantissimo e che costituisce la ricchezza dell’identità: questa si arricchisce nella tradizione e nello scambio, sembra una contraddizione, ma è così.

Io non sono né un economista, né uno storico; sono un gastronomo. Quando vado in giro per il mondo spesso mi domandano: "Qual è il piatto identitario di voi italiani"? 90 volte su 100 si risponde pasta al pomodoro. Eppure né la pasta, né il pomodoro sono italiani. Io vengo dalle lande piemontesi e il nostro piatto identitario è la bagnacauda, fatta di acciughe e di olio, ma né le acciughe né l’olio sono piemontesi. Lo scambio ha permeato la nostra identità, non esiste identità senza scambio e non esiste identità senza tradizione. L’errore principale della sinistra è aver sottovalutato il valore innovativo della tradizione: io amo dire che la tradizione è un’innovazione ben riuscita.

Sull’altro versante io non darei tanta carica al termine "modernizzazione": modernizzazione deriva da "modo" e modo è il momento attuale; tra 10 anni ci sarà un modo diverso. Quindi niente è più precario della modernizzazione, mentre niente può essere più forte dell’identità. L’identità continua, evolve nello scambio ed è benefica da questo punto di vista. Personalmente dentro questo concetto mi ci trovo perfettamente.

Mi conforta l’idea che siamo giunti alla fine dell’era del mercatismo. Senza dubbio la politica oggi paga sotto molti punti di vista la prevaricazione subita in questi anni dalle ragioni delle economia. Se il mondo fosse ancora provvisto di un po’ di buon senso, ci ricorderemmo che la parola economia deriva da oikos, che in greco antico significa dimora, casa. Nella tradizione popolare italiana quando si dice che una donna governa bene una casa, si dice che "fa economia". Ora a me pare che il mercatismo, l’economia di mercato, l’economia globalizzata, non abbia governato bene la nostra casa comune, la terra.

La santissima trinità, Competizione Innovazione e Sviluppo, su cui sono state fondate le politiche economiche per molto tempo hanno portato ad intendere il governo della cosa pubblica solo in una logica produttivistica: produrre di più, sempre di più, quasi come se la terra avesse risorse illimitate. Ciò si sta dimostrando non sostenibile, al punto che la formula "sviluppo sostenibile" tra pochi anni si rileverà essere un ossimoro. Occorre fermarsi, ma non fermarsi per arretrare, fermarsi per cercare vie nuove.

Ecco allora che la casa comune comunque va governata, morto il mercatismo dovrà esserci qualcos’altro. E allora dire andiamo alla ricerca della nostra identità per sviluppare una nuova economia, mi sembra una buona via d’uscita. Una via d’uscita che può aprire speranze e che già ha prodotto alcune certezze.

La riprova è la collaborazione di questi anni di Slow Food con Alemanno in difesa del patrimonio identitario agro-alimentare italiano. Fino a qualche tempo fa ci dicevano che eravamo degli utopisti: "Ma che fate, vi mettete a salvare questo o quel prodotto tradizionale? Il futuro va verso una alimentazione industrializzata, siete fuori dal mondo! Cosa difendete questo o quel prodotto particolare del territorio?!" Osservazioni simili erano ricorrenti.

Oggi invece in Ialia la situazione è molto cambiata grazie ad una serie di scelte politiche che sono state fatte in difesa del nostro patrimonio rurale e della nostra identità.

Questo non è un conservatorismo, questa è modernità. Difendere i contadini oggi è di una modernità straordinaria. Fino a quando i contadini erano il 50% della popolazione attiva e votavano essi erano oggetto di un’estrema attenzione da parte della politica. Da quando invece sono diventati il 4% si è perso interesse nei confronti delle loro problematiche. Ora dobbiamo considerare che il 60% di coloro che lavorano nel settore primario ha un’età superiore ai 60 anni. In virtù di questa situazione è indispensabile far scattare un meccanismo che sovverta questa situazione perché, se ne abbia consapevolezza o meno, domani noi non mangeremo computer, ma continueremo a mangiare melanzane. Bisogna veicolare un messaggio che dica che tornare alla terra può essere un valore.

Acquisire questa convinzione e renderla un grande momento ideale politico ha una valenza strategica enorme. La filiera agro-alimentare ha un peso notevole nell’economia del nostro paese e questa considerazione non è la fisima di qualche nostalgico. Basta pensare alle politiche protezioniste in questo settore degli Stati Uniti dove stanno nascendo farmer market ovunque, nelle grandi città come nei piccoli centri. In verità inventano l’acqua calda. Noi i mercati li avevamo già nel Medio Evo, quando dal contado affluivano i contadini in città per vendere i loro prodotti.

In opposizione all’economia di mercato occorre rafforzare l’economia locale. Se in Italia ciò significa riscoprire alcune forme pregiate di produzione agricola o artigianale, in altri paesi del mondo questo comporta maggiore rispetto per l’economia di sussistenza. L’economia di sussistenza del sud del mondo va riconsiderata perché molto spesso introdurre forme di capitalismo avanzato in certe realtà determina soltanto l’aumento dei livelli di povertà e di disperazione per quelle popolazioni. Io sono convinto che riformulare il concetto di sviluppo, valorizzando l’elemento identitario, potrebbe determinare con la rifioritura di prassi economiche apparentemente meno sviluppate rispetto ai nostri standard, anche la diminuzione del numero dei tanti disperati che sono costretti a lasciare il loro paese in cerca di fortuna nei ricchi paesi europei.

Io sono di sinistra, per la precisione appartengono a quella parte che comunemente viene definita "sinistra antagonista", eppure mi trovo perfettamente a mio agio a parlare in questo contesto di identità e tradizione, pur rimanendo sulle mie posizioni.

Il punto è che questo nostro paese ha bisogno di dialogo, di un confronto basato sui contenuti e sulle cose reali.

Io ho lavorato per 5 anni con Alemanno, quando era Ministro dell’Agricoltura e per questa ragione me ne hanno dette di cotte e di crude. Certamente a lui è capitata la stessa cosa. Sono tuttavia convinto che avevamo ragione noi.

Grazie alle iniziative che abbiamo intrapreso in questi anni, l’Italia è oggi il paese all’avanguardia in Europa nella difesa dei prodotti tipici.

Ma è necessario fare ancora molto. I piccoli devono essere in grado di fare lobby a Bruxelles, in quanto lì esistono e fanno sentire potente la loro voce lobbies ben più organizzate, che propongono invece le ricette tipiche del pensiero unico dominante.

Secondo costoro un po’ di OGM nel "biologico" sarebbe tollerabile: un po’ di grasso vegetale per la cioccolata va bene, anche se non c’è più il cacao! Il buon senso contadino inorridisce di fronte a simili posizione, ma a Bruxelles lo tollerano, anzi lo sanciscono per legge.

E’ evidente che per porre un freno a simili scelte, tutti coloro che la pensano diversamente, che sanno cogliere l’importanza dell’identità e la pericolosità di alcune tecniche moderne debbano allearsi al di là degli schieramenti politici di partenza.

La scommessa, infatti, oggi è troppo grande. Mi piacerebbe poter dire che l’epoca del mercatismo volge al termine, ma non ne sono così convinto. Nonostante tutto è ancora difficile far accettare certe idee, criticare il modello di sviluppo imperante.

Non dobbiamo desistere, però, perchè con la costanza i risultati prima o poi, come abbiamo visto, arrivano.