Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La lezione dei disastri naturali

La lezione dei disastri naturali

di Sandro Marano - 24/01/2007

Katrina, il terribile uragano che ha devastato e messo sott’acqua New Orleans e messo fuori uso le raffinerie della Louisiana non è da imputarsi soltanto alla natura matrigna. Le polemiche di questi giorni riguardano soprattutto la mancata prevenzione e i ritardi e le inefficienze nei soccorsi. Poche le voci che tirano in ballo la questione ambientale e la deficitaria politica ambientale della Casa bianca. “Ci sono sempre stati disastri naturali nella storia del mondo”: così parlano coloro che non vedono al di là del proprio naso, coloro che Giovanni Sartori definisce i “lietopensanti”, che "ci raccontano che tutto va bene”, benché le loro voci siano “sempre più contraddette da valanghe di dati, da valanghe di smentite" (Crichton, Kyoto e i lietopensanti, da Corriere della Sera del 17 agosto 2005).

E’ vero. Ci sono sempre stati disastri naturali, ma è anche vero che gli uomini con la loro imprevidenza, con il saccheggio delle risorse e l’uso indiscriminato dei beni naturali, li rendono più frequenti, più distruttivi, più devastanti. La storia dell’Isola di Pasqua, un tempo coperta da rigogliosa vegetazione, sta lì a dimostrarlo. Avendo abbattuto sconsideratamente gli alberi che la ricoprivano e rotto l’equilibrio ecologico, gli uomini che la abitavano si ridussero a pochi gruppi di disperati che per sopravvivere furono costretti al cannibalismo. Gli scienziati da almeno trent’anni hanno lanciato l’allarme sulle conseguenze del mutamento climatico. Tuttavia, nessun governo ha dato loro retta. Gli USA, in particolare, preferiscono spendere e sperperare quattrini e vite umane per assicurarsi il controllo dei pozzi petroliferi con la guerra in Iraq piuttosto che far decollare le fonti di energia pulita e rinnovabile.

Ma che cosa c’è dietro questa miopia politica, dietro questo non fare? E’ presto detto: sua maestà il mercato. Il punto è, come scrive Giovanni Sartori, che il mercato “non calcola e non sa calcolare il danno ecologico Se abbatto alberi, il mercato contabilizza soltanto il costo di tagliarli, non il danno prodotto dall’abbattimento delle foreste” (Il mercato non ci salverà, da Corriere della sera del 3 settembre 2005).

Il mercato e il capitalismo industriale che lo sostiene è un dogma, un pregiudizio radicato, l’ultima fede di un Occidente decadente. Ma, come denunciano gli ambientalisti, il mercato ci sta dando ora informazioni sbagliate. Non ci dice la verità riguardo i prezzi e i costi. Per esempio, quando compriamo un gallone di carburante, paghiamo il costo del pompaggio del carburante fuori dal terreno, la raffinazione e la consegna del carburante alle stazioni locali di servizio - ma non teniamo in considerazione il costo dei danni per la pioggia acida, le malattie respiratorie causate dal respirare aria inquinata e sicuramente non teniamo conto del devastante costo del cambiamento climatico.” (Lester Brown, da “Ecco il piano B per salvare il mondo”,  intervento al forum “Economia ed eco-economia” di Rapolano Terme del 3 ottobre 2004).

Uno dei più noti pensatori ecologisti americani, Kirkpatrick Sale, si chiede: “Perché la maggior parte delle nazioni nel mondo hanno un sistema politico ed economico che non solo ha causato questi disastri, ma che permette loro di perpetuarsi (salvo poche migliorie e moderazioni) anche quando le conseguenze negative sono così ovvie?.” Ed ancora: “Perché sembra che tutti preferiscano convivere con la minaccia dell'apocalisse piuttosto che cercare seriamente di cambiare un mondo dove il consumo di ogni cosa è visto come una virtù appagante, la produzione di ogni cosa è vista come una necessità socio economica e un sovrappiù di ogni cosa (di bambini come di automobili, di prodotti chimici, di dottorati o corsi di golf o centri di riciclaggio) è inconfutabilmente accettato? La risposta, naturalmente, è che la grande maggioranza delle persone non vogliono abbandonare un sistema economico (chiamato capitalismo industriale) che procura loro benessere materiale (talvolta in grande abbondanza), una vita più lunga, e palliativi a non finire come il divertimento, i farmaci, lo sport e la televisione. E i pochi che vorrebbero abbandonarlo sono essenzialmente impotenti e ignorati, rabboniti, minacciati o repressi dal potere dello status quo.” (L’illusione del Progresso, da The ecologist del 21 giugno 2003).

Se una lezione può trarsi, dunque, dal disastro di New Orleans è questa: che l’ecologia deve guidare la politica e che la politica deve guidare l’economia. Ma quante altre New Orleans ci vorranno prima che i governi e la maggioranza dei cittadini siano pronti a cambiare stile di vita, modi di produrre e di consumare? Ed ancora – e qui pensiamo alle prossime elezioni politiche in Italia – dov’è l’ecologia nei programmi dei due schieramenti?