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Ansia, panico? Occupiamo la scuola. La paura del futuro

di Franco Berardi Bifo - 25/01/2007




Gli studenti e le studentesse del liceo bolognese Minghetti hanno occupato per qualche giorno la loro scuola, la settimana scorsa. Non è una gran notizia, perché di occupazioni ce n’è tante: cominciano, finiscono, talvolta cambia qualcosa talvolta non cambia niente. Ma quel che mi ha colpito non è l’occupazione, bensì le motivazioni che sono venute fuori. Alcune delle motivazioni non sono nuove, anche se fin troppo giuste, come la protesta contro il travaso di finanziamenti verso la scuola privata e la diminuzione di finanziamenti per la scuola pubblica. Ma emerge tra le motivazioni una problematica che a mio parere è destinata a diventare quella più importante nel tempo che viene: l’ansia, il panico, il disagio mentale.
In una indagine che è stata svolta prima e durante l’occupazione stessa una larghissima maggioranza di studentesse (molto meno ragazzi) hanno denunciato l’ansia e lo stress, e il panico. La causa più immediata che hanno indicato le ragazze intervistate è il carico di lavoro scolastico, il sentimento di essere sovrastate dai ritmi che la scuola impone loro.
Il nucleo profondo della questione che le ragazze del Minghetti hanno posto riguarda però tutti noi.
Sta diventando adulta una generazione che fin dalla prima infanzia è stata sottoposta a un flusso ininterrotto di stimoli informativi, molti dei quali hanno un carattere di sollecitazione competitiva. Un vero e proprio assedio dell’attenzione da parte del sistema mediatico. La pubblicità lavora sulla percezione di sé, sull’identità in competizione. La televisione e i media virtuali mobilitano costantemente il sistema nervoso sottraendo spazio per la socializzazione, per lo scambio affettivo, per la corporeità. Linguaggio e affettività sono scissi in maniera patogena.
Fino a un paio di decenni fa la sindrome del panico era praticamente sconosciuta. La parola panico aveva un significato indefinito, romantico, aveva a che fare con il sentimento di essere sopraffatti dall’immensità della natura. Ma negli ultimi anni il termine è entrato a far parte del lessico psicopatologico, perché un numero crescente di giovanissimi e di lavoratori (soprattutto quelli che lavorano nei settori in cui si impiega tecnologia informatica) denunciano alcuni fra i sintomi che possono definire una crisi di panico: palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia. Sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, sensazione di soffocamento e di asfissia, dolore al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggere o di svenimento, derealizzazione, paura di perdere il controllo o di impazzire, sensazioni di torpore o di formicolio.
Gli psichiatri non sono in grado di indicare le cause di questo fenomeno, probabilmente perché sfugge al loro campo. Il panico si può definire come una reazione dell’organismo posto in condizioni di sovraccarico informativo. L’organismo riceve troppe informazioni per poterle elaborare affettivamente, e per poter costruire strategie di comportamento razionale.
Per completare il quadro patologico occorre ricordare che un numero crescente di bambini e di ragazzi nella prima adolescenza soffrono di quella sindrome che gli psichiatri americani hanno definito Attention deficit disorder: una incapacità di concentrare l’attenzione su un oggetto mentale per un tempo superiore ai pochi secondi. Non è forse del tutto comprensibile, se teniamo conto del fatto che l’ambiente cognitivo nel quale queste persone sono cresciute è un flusso psicostimolante che sposta continuamente l’oggetto dell’attenzione, come accade nelle pratiche del multitask o dello zapping? Non è forse del tutto comprensibile, visto che l’ambiente di formazione videoelettronico tende a scindere l’esperienza cognitiva e linguistica dal contatto corporeo e dalla socialità affettuosa?
Due psicoanalisti parigini (Michel Bensayag e Gerard Schmit) hanno pubblicato un libro dal titolo L’epoca delle passioni tristi in cui, partendo dalla loro pratica analitica, giungono alla conclusione che la percezione stessa del futuro è divenuta fonte di panico e di depressione. Scrivono i due studiosi: ”La tradizione della psichiatria fenomenologica descrive la depressione come un’esperienza di vita in cui uno sente di non avere più tempo, di avere il tempo contato e di non avere più spazio fino al punto che sentendosi braccato incorre in un autentico stallo esistenziale. Il tempo scorre a gran velocità e non c’è posto in cui scappare: la persona depressa ritrova dappertutto il già noto. Non esiste luogo o rifugio che le consenta di sfuggire alla trappola della depressione”.
Ora, questa descrizione della depressione si attaglia perfettamente alla vita quotidiana di decine di milioni i persone che non si considerano affatto depresse.
Mi pare che proprio questo sia il problema posto dalle studentesse del liceo Minghetti.