Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Hai 1 prodotto nel carrello Carrello
Home / Articoli / L’uomo della natura e l’uomo della tecnica, creatura e creatore - il dilemma sospetto.

L’uomo della natura e l’uomo della tecnica, creatura e creatore - il dilemma sospetto.

di Paolo Muscetta - 26/01/2007

 
 
 
 
Nella magnifica rappresentazione michelangiolesca, l’uomo è tutto proteso verso Dio e quasi lo tocca, e Dio a sua volta si tende in basso e cerca con la sua mano l’uomo, creatura e creatore sono lì dipinti protesi in questa mutua ricerca, tuttavia a dispetto delle forme che suggerirebbero un contatto possibile tra i due indici - nel dipinto idealmente basterebbe per entrambe le figure antropomorfiche distendere le braccia per colmare la distanza - questo contatto non avviene, Dio e l’uomo non si toccano. Nel mancato contatto tra l’umano e il divino è nascosto tutto il dramma dell’uomo, il suo conflitto con Dio e con il suo creato, “la natura”. La distanza incolmabile, non percorribile, lascia l’uomo a sé stesso sospeso tra il suo creatore ed il creato, nell’incompletezza di una dimensione mai completamente definita, infatti l’uomo è sia creatore in quanto partecipa attivamente alla creazione e in un certo senso la completa, sia creatura in quanto frutto del disegno e del progetto divino, ma allo stesso tempo non è mai completamente creatore - infatti non “crea ex-novo”, ma imita la creatività divina, libera le energie della natura, accelerandone i processi, combinandone gli elementi, riproponendo “in vitro” ciò che la natura sviluppa costantemente “in vivo”- né completamente creatura, animale, infatti con-divide con Dio, il dominio sul creato e la sua tutela.
Questa distanza tra l’uomo e il suo Signore (nel pensiero cristiano e non solo) viene colmata attraverso l’incontro con il prossimo – l’altro uomo - e attraverso la ricerca di simbiosi con la natura. Il legame tra l’uomo e Dio - in particolar modo nei primi libri della Bibbia - è tutto giocato sul rapporto uomo – natura , Dio - natura, in modo tale che la natura risulta essere un medium (mezzo) tra l’uomo e Dio che consente il dono e l’incontro come mostrato nei versi della Genesi “Il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare” (Genesi 9).
Analizzando il testo risulta chiaro come la natura viene predisposta per l’uomo affinché egli ne goda, e possa sfamarsi, ma l’atto creativo non si ferma a questa fase infatti, successivamente sempre nella Genesi il Signore chiede all’uomo la propria collaborazione all’atto creativo “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Genesi 15). Coltivare e custodire, sono i due verbi che esprimono le azioni che l’uomo è chiamato a compire sulla natura, il suo compito precipuo. La relazione dell’uomo con la natura descritta nella Bibbia non è ancora dominata dall’approccio tecnico dell’uomo moderno e post-moderno, la natura è vista come Uni-verso (Universum) ovvero tutta tesa e diretta verso l’Uno e la scienza lungi dall’essere strumento di dominio – come nella visione baconiana “scientia est potentia” – è intesa come sapienza (da sapere: gustare) ovvero come capacità di godere del creato e di vedere dietro la complessità del reale il disegno divino. E’ evidente che l’uomo post moderno “cristiano” dovrà recuperare il valore della natura come parte integrante del suo rapporto con Dio, egli non può più continuare ad abbracciare l’idea mercantile che considera il prossimo e la natura come un mezzo e non come un fine, non può allinearsi alle voci di quelli che sviliscono e sporcano il creato in nome di un presunto progresso, ed affinché questo appello risulti più efficace per i cattolici riportiamo di seguito il discorso del papa Giovanni Paolo II, che in una udienza del 2001 denunciava:
«…l’umanità ha deluso l’attesa divina. Soprattutto nel nostro tempo, l’uomo ha devastato senza esitazioni pianure e valli boscose, inquinato le acque, deformato l’habitat della terra, reso irrespirabile l’aria, sconvolto i sistemi idro-geologici e atmosferici, desertificato spazi verdeggianti, compiuto forme di industrializzazione selvaggia (…). L’uomo non è più “ministro” del Creatore, ma autonomo despota… ».
E sempre il papa nell’enciclica Centesimus annus (1991) aveva rilevato che:
«Alla radice dell'insensata distruzione dell'ambiente naturale c'è un errore antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo. L'uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma ed una destinazione anteriore datale da Dio, che l'uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell'opera della creazione, l'uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui».
Le considerazioni di papa Giovanni Paolo II, oltre ad arricchire il dibattito ecologista di nuovi contenuti filosofici, risultano efficaci anche dal punto di vista politico, in quanto invitano l’umanità e in particolar modo i credenti a ri-considerare il proprio rapporto con la natura per essere ministri e non tiranni del creato. Purtroppo, la conversione ecologica auspicata non può che partire da un superamento della visione tecnica e perciò “nichilista” della realtà che ci circonda.
Erroneamente siamo inclini a pensare che è l’uomo a dominare la tecnica, e non viceversa, la tecnica è per noi un mezzo per raggiungere un fine, pertanto se il fine è “buono” la tecnica è “buona” se il fine risulta “cattivo” allo stesso modo lo sarà la “tecnica”, in quanto mezzo essa risulta neutra. In realtà vi invito a ri-pensare i termini del problema richiamando le considerazione del filosofo tedesco Martin Heidegger. Secondo il filosofo tedesco la communis opinio (comune opinione) intorno alla tecnica cadrebbe nell’errore di “considerare la tecnica in termini tecnici” e di conseguenza non raggiungerebbe la conoscenza dell’ “essenza della tecnica”. Heidegger sostiene che è l’essenza della tecnica a dominare l’uomo e non viceversa.
In che cosa consiste l'essenza della tecnica ? La risposta che dà Heidegger è la seguente:
L'essenza della tecnica è “il suo impianto provocatorio” ovvero la sua capacità di pro-vocare, cioè di chiamare davanti all’uomo le potenze nascoste della natura, portarle dalla latenza alla non latenza.
L’essenza della tecnica per Heidegger non è di natura tecnica ma resta iscritta nella verità come svelamento perché la tecnica è un modo di disvelare, essa dispiega il suo essere nell’ambito dove accade la verità” (Galimberti, Psiche e Tecne)
Questa capacità di di-svelare ciò che è nascosto è comune sia alla concezione tecnica antica che a quella moderna, tuttavia mentre la prima si limitava ad assecondare la produzione della natura, la tecnica moderna non mira soltanto al dispiegamento della potenza della natura ma al suo possesso ed al suo accumulo. L’essenza della tecnica moderna consiste nel trattare la natura come un fondo a disposizione dove l’energia estratta è accumulata e disposta in modo da poter essere immediatamente commissionata. In sintesi la tecnica moderna determina non solo il modo di manifestarsi della natura, ma anche la sua disponibilità che non è decisa dall’uomo, ma dall’ordine delle richieste tecniche. Nell’orizzonte della tecnica moderna, anche l’uomo in quanto facente parte dell’impianto tecnico è impiegato allo stesso modo in cui si impiegano le forze della natura, egli non è più il signore della natura per il tramite della tecnica, perché è l’impianto della tecnica a predisporre la qualità e la direzione di questo dominio. E’ sotto gli occhi di tutti come l’apparato tecnico fatto di rispetto dei bilanci, dalla necessità di far crescere il PIL, da esigenze di natura contabili e commerciali vincola l’uomo e l’umanità a delle scelte il più delle volte disumane, l’uomo in quanto “puro fondo” alla stessa stregua della natura è chiamato dalla tecnica a pro-vocare la natura secondo le possibilità rese disponibile dalla tecnica stessa, egli non è un soggetto provocante ma parte dell’impianto provocatorio. Pertanto, la concezione tecnica viene ad essere l’orizzonte ideologico dentro il quale l’uomo e la natura sono disposti secondo le modalità previste dall’apparato, pertanto l’uomo non può fare a meno di pensare in termini di razionalità tecnica, essa costituisce l’ambiente ed il quadro concettuale per la conoscenza di sé e del mondo, essa prima di essere strumento è più specificatamente “visione del mondo”. In ciò direbbe (uno dei più grandi filosofi contemporanei ) Emanuele Severino, “nulla di nuovo, infatti l’uomo non ha mai abitato il mondo ma sempre e solo una sua interpretazione che le varie epoche hanno dato al mondo, nel mondo antico il mondo era descritto dal mito, nel medioevo dalla religione e nell’età moderna dalla scienza e oggi dalla tecnica”.
Allora ritornando, al cuore della questione come possiamo operare nei nostri cuori una conversione ecologica, se il nostro orizzonte concettuale è vincolato dalla visione tecnica? Forse la risposta a questo dilemma risiede proprio nella forza salvifica della “fede”, ma per non lasciarci con una risposta consolatoria, vi invito a ri-pensare l’uomo come “un animale non completamente stabilizzato” (F. Nietzsche, Preludio di un filosofia dell’avvenire) –forse proprio grazie a Dio- ancora in grado, a mio avviso, di costruire una visione del mondo che riporti al centro Dio e l’uomo.