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Il controverso rapporto tra India e Occidente nelle riflessioni di Rabindranath Tagore e Amartya Sen

di Giacomo Benedetti - 16/11/2005

Fonte: estovest.net

Introduzione

 

All’interno dell’attuale discorso sullo ‘scontro di civiltà’, è passato in primo piano il confronto tra Occidente e Islam, ma all’interno dello schema di Huntington anche la civiltà indiana occupa un ruolo di ‘civilization’ distinta. Tale senso di distinzione o peculiarità appartiene intensamente all’autocoscienza indiana, come noteremo in particolare nelle riflessioni di due grandi intellettuali indiani, e più in particolare bengalesi: il celebre poeta Rabindranath Tagore, nato nel 1861 a Calcutta e premio Nobel per la Letteratura nel 1913, e l’economista Amartya Sen, nato a Śantiniketan nel 1933 e premio Nobel per l’Economia nel 1972.

Due ottiche alquanto lontane nel tempo e nell’ambiente politico: il primo visse nell’epoca del dominio britannico, vide l’imperialismo nel culmine, la prima guerra mondiale, lo sviluppo del movimento indipendentista gandhiano e morì nel 1941, nella crisi della seconda guerra, prima dell’effettiva indipendenza dell’India; il secondo è cresciuto nell’età di Nehru, e ha vissuto il difficile sviluppo dello Stato indiano fino alle recenti crisi interreligiose tra indù e musulmani. Il primo fu poeta di ispirazione mistica, drammaturgo, novellista, romanziere, pittore e musicista, e grande teorico dell’educazione, il secondo invece economista, quanto di più lontano apparentemente dalla figura dell’artista e letterato. Eppure, molte sono le affinità tra queste due figure, già dal luogo di nascita di Sen, che è non solo il Bengala, regione di ricco fermento intellettuale in India, ma più specificamente Śantiniketan, sede dell’istituzione culturale voluta da Tagore, dove il nonno materno fu insegnante di sanscrito e di cultura indiana antica e medievale, e dove la madre e Amartya stesso studiarono . Li unisce un atteggiamento di curiosità e ammirazione per quello che l’Occidente e altre culture straniere possono offrire di positivo , e uno spirito che sostiene il pluralismo e l’unità di tutte le componenti indiane . Chiaramente l’approccio di Tagore è più filosofico ed esistenziale, ma non trascura affatto gli aspetti economici e pratici del vivere, e se l’attenzione di Sen è volta a questioni socio-economiche, accentua l’importanza dell’uomo come fine e non come mezzo, con particolare insistenza sull’istruzione, questione assai cara anche a Tagore; inoltre si sofferma a lungo su problemi di filosofia politica e sull’immagine che gli occidentali hanno dell’India.

 

§2. L’antologia e la formazione di Tagore

 

Le riflessioni di Tagore su India e Occidente sono contenute in una raccolta operata da Humayun Kabir (dopo aver consultato vari studiosi indiani, europei ed americani  per la scelta dei saggi da includere), intitolata Towards Universal Man, pubblicata a Bombay nel 1961, in occasione del centenario della nascita del poeta. L’edizione italiana, intitolata La civiltà occidentale e l’India, fu curata dall’ISMEO e si può trovare nella collana “Gli Archi” di Bollati Boringhieri. 

Si tratta di un’antologia ordinata cronologicamente, che comprende in gran parte discorsi letti in occasione di conferenze, e che mostrano l’interazione del pensiero di Tagore con l’evolversi della situazione indiana e mondiale, e con gli sviluppi della sua istituzione educativa, nonché l’assimilazione di esperienze di viaggio in Europa, America e Giappone che hanno segnato profonde impressioni nel poeta. Si avverte spesso il tono colloquiale o l’accento oratorio, volto a stimolare reazioni profonde nell’uditorio, con l’ausilio di metafore, similitudini, aneddoti, excursus storici e sentenze aforistiche. Il primo discorso risale al 1904 e l’ultimo al 1941, coprendo quindi un vasto lasso di tempo e profonde trasformazioni nella storia del XX secolo.

Nonostante l’opera poetica di Tagore sia piuttosto nota anche in Italia, è opportuno introdurre questa figura nel suo contesto sociale e storico e nel suo percorso biografico, probabilmente meno noti, per chiarire le radici del suo pensiero. La sua città di nascita, Calcutta, era uno dei centri più vivaci dell’epoca e più in contatto con il mondo occidentale, non solo britannico. La sua famiglia, quella dei éhŒkur , originaria del Bengala orientale, considerata una delle principali della nuova aristocrazia di Calcutta, si era arricchita alla fine del periodo moghul, ovvero durante il grande impero islamico, all’epoca del primo insediamento della britannica Compagnia delle Indie Orientali. Il nonno di Rabindranath, Dvarkanath, fu probabilmente il primo indiano che iniziò l’impresa commerciale in società con un inglese. Come dichiara lo scrittore nel discorso “La scuola di un poeta” del 1926 (p. 207): “[…] nella mia famiglia venne seguita una regola di vita ch’era il risultato di tre culture: indù, musulmana e britannica.” Il padre di Rabindranath, Debendranath, si diceva iniziasse la giornata recitando brani dai testi metafisici brahmanici, le Upani·ad, e dal poeta mistico persiano per eccellenza, Hafiz. Denominato il mahar·i (grande saggio o veggente) per la sua religiosità, divenne il capo più importante della società religiosa Brahmo Samāj, dopo la morte del fondatore Rammohan Roy. Si trattava di una società che voleva integrare i valori occidentali con le antiche tradizioni indiane, affermando un monoteismo rigoroso, anti-idolatrico e anti-ritualista, su influsso di idee islamiche e cristiano-puritane, ma servendosi delle Upani·ad e di altri testi sacri induisti per affermare tali convinzioni.

Come scrive Humayun Kabir nella sua prefazione (p. 18):

 

“La sua famiglia, modellata dalle tradizioni dell’antica India medievale, fu al tempo stesso pioniera del risveglio dell’India, e accettò ciò che la nuova èra offriva senza nulla cedere della ricca eredità del passato. E’ proprio questo ambiente familiare che spiega perché Tagore avesse una così ricca cultura indiana e fosse così pronto ad accogliere le nuove idee occidentali.”        

 

All’età di 17 anni fu inviato in Inghilterra a studiare diritto, ma vi rimase solo 18 mesi, senza completare gli studi, evidentemente non congeniali alla sua natura artistica, ma ricevendo così una prima impressione dell’Occidente, che rinnoverà poi, come già accennato, in una serie di viaggi che lo portarono in vari paesi europei e negli Stati Uniti. Si dedicò presto all’attività poetica, ma il padre lo incaricò d’amministrare le tenute familiari, compito che svolse dal 1890 al 1910 e che costrinse Rabindranath a vivere tra i villaggi del Bengala orientale, spostandosi in una casa-battello sul fiume Padma; entrò così in contatto con la cultura rurale bengalese, mondo sconosciuto alla maggior parte dell’élite educata all’inglese, che lo sensibilizzò anche alle problematiche sociali.

Nel 1901, diede vita al suo grande e duraturo esperimento educativo, a Śantiniketan, in un ambiente agreste a 100 chilometri da Calcutta: un’istituzione che denominò Viśvabharatī, dove gli alunni vivevano a immediato contatto con la natura, e le lezioni consistevano in conversazioni all’aperto, sul modello dell’antica scuola tradizionale indiana.

 

 

 

§3. Tagore e la modernità occidentale

 

La scelta pedagogica di Śantiniketan riflette un aspetto del pensiero e del sentimento di Tagore, la sua tendenza antimoderna e antiurbana, che non raggiungeva tuttavia il livello di Gandhi, ma conviveva con una ferma fede nell’ineluttabilità e bontà del progresso. Come diceva ancora in “La scuola del poeta” (pp. 207-9):

 

“Io venni al mondo nel momento in cui lo spirito del progresso moderno, figlio della città, era appena riuscito a trionfare sulla lucente verzura della nostra antica comunità del villaggio. Benché il processo di distruzione fosse ormai quasi completo, attorno a me qualche eco dell’agonia del passato si levava ancora sul naufragio. Quand’ero ragazzo, ascoltavo spesso il mio fratello maggiore che parlava con l’angoscia di un vano rimpianto di una società ospitale, ingentilita dal profumo di un’innata garbatezza, piena di semplice fede e d’una tradizionale poesia della vita. Tutto ciò era ormai un’ombra che svaniva all’orizzonte, nella foschia del crepuscolo; ormai la città moderna si era estesa ovunque, la città moderna, appena costruita da una società di mercanti occidentali, insieme allo spirito dei tempi nuovi urtava contro la nostra vita […]. Mi ha sempre sorpreso il fatto, sebbene questa dura crosta della città fosse la mia unica esperienza del mondo, ch’io fossi costantemente ossessionato dal pensiero d’essere in esilio, qualcosa che mi riempiva di nostalgia. […] non posso fare a meno di credere che i miei antenati indiani abbiano lasciato nel profondo del mio essere l’eredità della loro filosofia, la filosofia in cui si parla del completamento che l’uomo raggiunge mediante l’unione armonica con la natura. Una filosofia che fa sorgere in me un gran desiderio di cercare la libertà, non nel mondo creato dall’uomo, ma nella profondità dell’universo […]. La ragione per cui ho fondato la mia scuola trova la sua origine nel ricordo di quel desiderio di libertà […].”

 

Nonostante questo rapporto conflittuale con gli aspetti materiali e sociali della modernità di matrice occidentale, l’incontro con la cultura britannica fu molto apprezzato da Tagore così come da molti altri giovani indiani suoi contemporanei. Fu un contatto prima di tutto con la tradizione letteraria inglese, ed anche con le tradizioni politiche inglesi, cosa che implicava l’incontro con uno spirito libertario e umanitario. Come scrive in “La crisi della civiltà”, testamento intellettuale del 1941, in occasione dell’ottantesimo compleanno (p. 257):

 

E’ vero che avevamo già deciso di conquistare la nostra libertà nazionale, ma nell’intimo del nostro cuore c’era un’enorme fede nel liberalismo britannico: i vinti erano certi che gli stessi vincitori li avrebbero condotti sul sentiero della libertà.

 

In “L’era del mutamento”, articolo del 1935, fa questa intensa descrizione dell’incontro con la cultura occidentale (p. 240):

 

Il dinamismo europeo assalì con vigore il nostro spirito addormentato, agì come una pioggia torrenziale che riesce a penetrare profondamente nel suolo arido, lo imbeve, e ne trae nuova vita. Era lo stesso dinamismo che, prorompendo dall’immensa sorgente del Rinascimento italiano aveva inondato tutto il continente europeo. [...] Il pensiero europeo, spinto da un impulso irresistibile, si è proiettato in ogni angolo della terra, e dovunque è giunto ha operato una conquista. Qual è il segreto della sua forza? La risposta è che questo spirito persegue la verità con integrità.

 

Accanto a quest’entusiasmo per l’incontro con la cultura occidentale, ammirata per il suo dinamismo, liberalismo e la sua razionalità scientifica, non mancano delle riserve e delle critiche; una categoria sono quelle rivolte all’imitazione indiana dei modelli occidentali e all’uso stesso dell’inglese nell’istruzione in India, che vede come un fardello inutile che ostacola l’apprendimento e l’assimilazione creativa. Anche nelle concezioni politiche, osserva la vana ripetizione di modelli stranieri (p. 240, nel già citato articolo):

 

Prima, la visione dei nostri capi politici non era mai andata oltre coloro che avevano ricevuto un’istruzione inglese, come se essi soli contassero. La patria era un miraggio che rifletteva in lingua inglese i fantasmi di Burke, Gladstone, Mazzini e Garibaldi. [...] Poi, nel momento cruciale, venne il Mahatma Gandhi e si presentò alla porta di milioni di poveri indiani vestito come uno di loro, parlando nella loro lingua.

 

Tagore arriva anche a irridere coloro che, esaltando la civiltà indiana e deplorando quella occidentale, non fanno altro che ripetere concetti europei (“L’unità dell’educazione”, 1921, p. 168):

 

Ho ripetutamente sentito gli occidentali domandarsi: “Dov’è la voce dell’India?” Ma quando gli occidentali per porre questa domanda vengono in India e ascoltano dietro la porta non sentono null’altro che una debole eco della loro stessa voce occidentale, che suona come una parodia. Anch’io mi sono accorto che gli Indiani moderni che hanno appena terminato lo studio di Max Müller  danno l’impressione di una banda di strumenti a fiato europei, sia che si vantino della loro antica civiltà sia che condannino e ripudino quella occidentale.

 

Un’altra categoria di critiche è quella al materialismo occidentale; esso non è additato come l’essenza della cultura europea; tale essenza, in “Vigilia di partenza”, del 1912, è ravvisata nella “pura gioia di vita” e nello spirito di sacrificio altruistico, di matrice cristiana, che si rivela nei momenti critici o in personalità eccezionali. Eppure Tagore, pur coltivando questa visione simpatetica e idealizzante del carattere europeo, riconosce i mali insiti nella nuova civiltà occidentale, in particolare in “Cooperazione”, discorso del 1929 che promuoveva esperimenti di cooperative agricole (pp. 226-9):

 

Il vento dell’ovest ha sparso i semi della discordia sociale in tutto il mondo, e ha distrutto non  soltanto la pace e la felicità ma il nucleo stesso della vita. [...] La civiltà, quella europea, succhia la vita delle masse per costruire un tipo particolare di potenza. [...] Il termine esatto con cui ciò si può definire è sfruttamento. [...]

Oggi il denaro è fonte di ogni potere, ed è apprezzato più di qualsiasi altra cosa. Persino la politica estera di uno Stato non si basa più sull’ingrandimento territoriale, ma si indirizza piuttosto verso l’espansione commerciale, che è il mezzo di aumentare la ricchezza. Nell’epoca in cui la civiltà non si articolava tanto variamente, il dotto e il saggio, l’eroe e il filantropo erano molto più rispettati del ricco. Onorandoli, si onorava l’umanità stessa, e la gente trattava con disprezzo coloro che si limitavano a far denaro. Oggi la civiltà non è altro che un parassita della ricchezza. [...]

Nel mondo occidentale vi è un continuo attrito  tra coloro che guadagnano molto denaro e coloro che rappresentano il mezzo per guadagnarlo, e non si vede il modo di eliminare questo conflitto. Poiché l’avidità della classe lavoratrice è uguale a quella della classe capitalistica. [...] Quando nella vita sociale l’avidità e l’adorazione della potenza diventano irrefrenabili, l’uomo non può più dedicarsi a sviluppare la propria umanità. Egli brama il potere, non il pieno sviluppo dell’io. [...]

L’Occidente ha creato zone di luce e di oscurità non soltanto nell’Occidente stesso ma in tutto il mondo. Le sue esigenze, per la loro enormità, non possono venire soddisfatte entro i limiti dei suoi confini. [...] Per questo tutto il popolo britannico è un parassita dell’India. Per questo le grandi potenze europee sono state così pronte a dividersi l’Asia e l’Africa per impedire che la loro civiltà, ammalata di piacere, morisse d’inedia. [...] Perché pochi possano accrescere la ricchezza che hanno accumulato, molti sono costretti all’indigenza. Questo è il problema cruciale dei popoli occidentali. [...] Ogni volta che l’unità dell’uomo è in pericolo, sorgono apertamente o nascostamente forze dirompenti.

 

A questa denuncia morale del capitalismo imperialista europeo, a cui si contrappone un umanesimo ormai perduto, ma che non appare connotato culturalmente, si può accostare il confronto delle opposte concezioni della vita umana dell’Occidente moderno e della spiritualità indiana, come viene svolto in “E poi?”, discorso tenuto nel 1906 a Calcutta. Presentiamo qui una serie di considerazioni che mettono in luce i due diversi approcci sotto vari aspetti (pp. 58-71; i corsivi sono nostri):

 

E’ vero che l’Europa  ha acquistato una certa forza proprio riponendo la sua fiducia nel mondo, rifiutandosi di considerarlo puramente transitorio e condannando come morbosa la preoccupazione della morte. I figli d’Europa sono allevati per la lotta che, secondo quanto dice la scienza , permette al più capace di sopravvivere. A quanto pare, secondo la concezione europea, questo è il vero significato della vita. [...]

Se si considera l’albero solo come legna da ardere, è evidente che non lo si considera nella sua interezza; se si considera l’uomo semplicemente come difensore della patria o produttore di ricchezza, lo si riduce a un soldato, a un mercante, a un diplomatico e si misura la sua umanità in base alla sua efficienza. Una visione così ristretta è offensiva per l’uomo, e in realtà non si fa che degradare coloro che si desidererebbe coprire di gloria. [...] I nostri saggi ritenevano lo spirito umano dotato di un’infinita dignità, quello spirito che trovava la sua pienezza nello stesso Supremo Spirito . Una visione limitata dell’uomo non può essere che falsa. L’uomo non può essere semplicemente un cittadino o un patriota, poiché né la città né il paese, e neppure quella gran caldaia che si chiama mondo, possono contenere la sua anima eterna. [...]

I saggi dell’India non ritenevano che lo sforzo costante fino al termine della vita dovesse essere glorificato. Per loro il lavoro non era affatto tutta l’essenza e tutto lo scopo della vita; anzi il loro scopo era piuttosto quello di giungere alla fine di ogni lavoro. Non hanno mai dubitato che il maggior scopo dell’uomo fosse la liberazione dell’anima.

L’Europa non si stanca mai di intonare peana alla libertà, che colà significa libertà di acquisire, libertà di volere, libertà di lavorare. Questa libertà non è certo poca cosa. Ma i nostri saggi non riuscirono a trovare in essa una completa soddisfazione, ed è per questo che si pone la domanda: “E poi?” Per i nostri saggi questa non poteva essere una vera assoluta libertà, perché il loro scopo era di ottenere la libertà anche dal desiderio e dall’azione.  [...]

In Europa la vita mortale dell’uomo si divide solo in due periodi, il periodo dell’addestramento e quello del lavoro. [...] Il lavoro è solo un mezzo, non può essere fine a se stesso. Deve avere come scopo un qualche guadagno, un qualche risultato. L’Europa invece ha omesso di proporre all’uomo lo scopo ben preciso che dovrebbe essere il fine naturale del lavoro. Non vi è limite a ciò che si desidera acquistare nel campo materiale come in quello della conoscenza, e la civiltà europea sottolinea unicamente il progresso e l’accumularsi di questa conquista, dimenticando che il miglior contributo che ogni singolo individuo può dare al progresso dell’umanità consiste nel perfezionamento della propria vita. Così per gli europei, la fine arriva sempre a metà delle cose: non esiste preda, ma soltanto la caccia. [...] L’attività finita ha dei diritti sull’individuo, ma anche il compimento dell’infinito rappresenta per lui un richiamo; solo quando rispondiamo a questo richiamo la morte non  rappresenta l’improvvisa rottura del nostro mondo reale. Perciò l’India divideva la vita mortale dell’uomo in modo che il lavoro rappresentasse la metà, e la libertà, la fine.  [...] Qualsiasi altro indirizzo di vita si possa concepire, il patriottismo , la filantropia, per quanto possano avere nomi altisonanti, non potranno mai portarci alla finalità ma ci lasceranno improvvisamente sprovveduti, nel bel mezzo della nostra attività, mentre al nostro orecchio risuona la domanda: “E poi? E poi?”

           

Dopo aver così individuato i limiti dell’approccio europeo moderno incentrato sul lavoro , sulla lotta, sul progresso acquisitivo, e sull’individuo ridotto a un ruolo limitato e funzionale, di contro alla ricerca indiana della liberazione nell’infinità dell’Ātman come coronamento del lavoro stesso, Tagore conclude con un appello al popolo indiano affinché si liberi dalla ‘contraffazione’ del modello europeo e recuperi una spiritualità autentica (pp. 72-3):

 

Se anche ad alta voce proclamiamo l’efficienza del tipo o del governo europeo e dei costumi sociali e dei metodi commerciali, sappiamo bene che essi non rispondono ai nostri bisogni, anzi offendono quell’ideale dello Spirito Supremo che è in noi, e la nostra anima grida contro di essi.

Non siamo sempre stati come la folla di un mercato che  si urta e si spinge volgarmente, che discute e litiga per il prestigio o per titoli onorifici [...]. Prima di essere soffocati da questa ondata di contraffazioni avevamo un’intima dignità, che non era offuscata dalla vita semplice o dalla povertà. Era una sorta di armatura congenita che ci faceva da scudo contro tutti gli insulti e gli assalti delle vicissitudini materiali. Spogliati di questo elemento protettivo, siamo ora indotti a cercar riparo dietro la finzione e l’ipocrisia. La dignità è diventata un fatto esteriore, che dobbiamo sostenere con dimostrazioni esteriori. Dobbiamo correre a cercarne gli orpelli in botteghe straniere, e ci pare di non raccoglierne abbastanza. E l’insensata esaltazione di questa ricerca, che ormai consideriamo come l’unica felicità, ha posto noi, che prima eravamo solo parzialmente soggetti, in una condizione di completa schiavitù nei confronti dello straniero. [...]

Io sono ben certo, però, che se domani un individuo degno si levasse fra noi e proclamasse che questa lotta è malsana, che questa ricchezza è effimera [...] e che al di fuori dello Spirito Supremo tutto è meschino e futile – credo allora che, nonostante i clamori di questo mercato, il messaggio giungerebbe al nostro cuore. E il cuore risponderebbe: “Vero! Vero! Nulla di più vero!” Allora la lezione, che abbiamo appreso a scuola, sui profitti di una lotta insensata e le glorie di un nazionalismo macchiato di sangue scomparirebbe dalla nostra mente e il luccichio degli eserciti e lo splendore della marina non riuscirebbe più ad affascinarci.

 

Un altro tipo di critica è quella al formalismo e alla meccanicità dei rapporti umani in Occidente. In “L’unità dell’educazione”, del 1921, dichiara (pp. 158-160):

 

Il culto della macchina ha aperto un abisso nei rapporti, anche nello stesso Occidente. Il tentativo di unire gli esseri umani con mezzi artificiali, come se si trattasse di pezzi di carta o di legno che si possono incollare o avvitare, allenta i legami naturali e creativi che soli possono fondere spontaneamente gli uomini in una intima unità spirituale. [...] Una società dominata da avido commercialismo diventa simile a un immenso progetto, che non ha alcuna delle qualità del quadro e indebolisce i legami spirituali tra la gente. [...] Quando gli uomini sono uniti soltanto da un legame esteriore, si ribellano, e ciò si è potuto vedere chiaramente nella rivoluzione sociale che ha ora oscurato il cielo europeo. L’antica India toglieva vitalità alla società cercando di unire la gente nella forma anziché nello spirito della religione; l’Europa moderna sta distruggendo la società cercando di unire la gente con leggi sociali ed economiche anziché con leggi morali e spirituali.

 

Nel saggio che apre la raccolta, “Società e Stato”, del 1904, Tagore descrive invece la via indiana dei rapporti umani e della gestione della cosa pubblica. Osserva che mentre in Inghilterra è lo Stato a curare i servizi sociali, in India il potere regale centrale dichiarava le guerre, difendeva il territorio e amministrava la giustizia, ma era la società che si occupava di tutto il resto, “dagli acquedotti alla cultura”. La vera responsabilità ricadeva sul signore del villaggio, e i doveri sociali erano suddivisi tra i vari membri della società. Così prosegue il suo confronto (pp. 25-6 e 30-1):

 

Perciò l’intera struttura della società era permeata di ciò che noi intendiamo con il termine dharma.  Era necessario che ogni uomo acquistasse la capacità di controllarsi; ogni uomo doveva accettare il codice ormai santificato dei propri obblighi. [...] Se in Inghilterra si rovesciasse lo Stato, tutta la nazione potrebbe essere in pericolo; per questo la politica è una questione tanto seria. Nel nostro paese, invece, il pericolo si presenterebbe soltanto se venisse colpito il corpo della società, il samaj. [...] L’Inghilterra dipende dallo Stato in tutto e per tutto, dall’assistenza sociale all’istruzione religiosa della popolazione, mentre il nostro paese dipende unicamente dal senso del dovere della popolazione. Perciò, l’Inghilterra per esistere deve mantenere vivo lo Stato, noi invece esistiamo se manteniamo viva la nostra coscienza sociale. [...]

In India si è sempre cercato di stabilire un rapporto personale tra gli uomini. [...] Quando si entra in contatto con un individuo, si stabilisce con lui un vero rapporto, e non si cade mai nell’abitudine di considerare l’uomo come una macchina o uno strumento per raggiungere un qualche interesse materiale. Questo modo di vivere [...] è il modo di vita dell’Oriente. [...] Tale è la nostra natura: siamo disposti ad accettare un rapporto di utilità solo dopo che lo abbiamo santificato con un rapporto affettivo [...].

 

La critica del formalismo occidentale si realizza anche come amara constatazione dell’errata linea politica inglese in India, come nel già citato “L’era del mutamento” (p. 245):

 

Gli Inglesi in India credono soltanto nella legge e nell’ordine, nelle norme e nei regolamenti. [...] Vi sono pochissime possibilità che il popolo possa acquisire nuova ricchezza e vi sono pochissime speranze per il futuro; tutte le nostre risorse sono inghiottite dalle richieste di legge e d’ordine. E’ quasi un’ironia che sia proprio il legame dell’India con l’Europa a toglierle la possibilità di fruire dei grandi doni di quest’epoca.

  

In quest’ottica si inserisce anche la quanto mai attuale riflessione sull’opportunità di concedere, a un paese dominato dall’esterno come l’India, l’autonomia democratica, riflessione che troviamo nella conferenza “Sia fatta la volontà del Signore”, del 1917, dove si critica sarcasticamente lo spirito di sottomissione indiano (pp. 114-6):

 

 

Scienza, nazionalismo  e democrazia costituiscono la principale ricchezza dell’Europa, e la Gran Bretagna ha avuto dal cielo il mandato di impartirli all’India. [...] Gli Inglesi potrebbero fare appello alla loro storia e dirci: “Ma a noi la democrazia è costata molti sforzi, sono state necessarie molte rivoluzioni per portarla fino all’attuale grandezza.” Lo ammetto. Le principali nazioni del mondo hanno scoperto separatamente diversi aspetti della verità, e ognuna di queste scoperte fu preceduta da molti errori, molte sofferenze e molti sacrifici. Non è detto, però, che per ottenere i benefici di quelle scoperte, tutte le nazioni debbano percorrere la stessa lunga strada [...]  Se è proprio vero che a noi manca la serietà di carattere e di comportamento, questa è una ragione di più perché ci venga data l’autorità. [...] Concedendoci l’autogoverno, gli Inglesi ci apriranno una strada per la quale potremo scoprire dentro di noi forze nuove [...]. Gli Inglesi ci dicono che un paese dovrebbe diventare libero soltanto quando è veramente in grado di possedere la libertà: se ciò fosse vero, non esisterebbe alcun paese libero al giorno d’oggi. Gli Inglesi vantano la loro democrazia! Il popolo europeo ha molti gravi difetti; ma non è di questi che voglio parlare, voglio dire invece che, se un dittatore dovesse stabilire che al popolo non spettano diritti democratici finché ha quei difetti, non solo i difetti permarrebbero, ma il popolo perderebbe l’unico mezzo naturale per eliminarli.

 

 Il giudizio finale del poeta sull’Occidente è, nel complesso, di delusa condanna, come appare nel discorso del 1941, “La crisi della civiltà” (pp. 262-3):

 

Ed ora lo spettro di una nuova barbarie scuote l’Europa, mostrando i denti e gli artigli in un’orgia di terrore. Da una parte all’altra del continente i vapori avvelenati dell’oppressione inquinano l’atmosfera. Lo spirito della violenza, che forse sonnecchiava nella psiche dell’uomo occidentale, si è risvegliato ed è pronto a distruggere l’uomo. [....] Vi fu un tempo in cui credetti che la fonte della vera civiltà sarebbe sgorgata dal cuore dell’Europa. Oggi, che sto per lasciare questo mondo, questa fede è completamente morta. Oggi vivo nella speranza che il Salvatore verrà e nascerà proprio in questa terra vergognosamente povera, nella nostra India. [...] Volgendo lo sguardo agli anni trascorsi, vedo le rovine di quella che fu un’orgogliosa civiltà rotolare come un mucchio di immondizia fuori dalla storia, tuttavia non commetterò il doloroso peccato di perdere la fede nell’uomo né di accettare la sua attuale sconfitta come definitiva. [...] Forse una nuova aurora verrà proprio da questo orizzonte, dall’Oriente dove sorge il sole; e allora l’uomo invitto ripercorrerà il cammino della conquista per recuperare, nonostante tutti gli ostacoli, l’eredità smarrita.

 

Una delle aspirazioni più profonde di Tagore era l’unità dell’Occidente e dell’Oriente, questi due concetti che aveva ereditato dall’educazione inglese e di cui sembra riconoscere una validità essenziale per descrivere due atteggiamenti opposti verso la vita, l’uno statico e contemplativo, l’altro dinamico e attivo. In “L’unità dell’educazione”, del 1921, riassume il suo pensiero in forma aforistica (p. 163):

 

L’unità dell’Occidente e dell’Oriente consentirà l’unità del sapere spirituale e scientifico. Proprio perché sono disuniti, l’Oriente è tormentato dalla povertà e senza vita e l’Occidente è senza pace né felicità.

 

O ancora, in “La scuola di un poeta”, del 1926 (p. 212-3):

 

Mi rifiuto di pensare che lo spirito gemello dell’Oriente, Maria e Marta , non riusciranno mai a incontrarsi per giungere alla perfetta realizzazione della verità, e nonostante la nostra povertà materiale, e l’antagonismo del tempo, io attendo pazientemente questo incontro.

 

Tagore non intravedeva quindi uno ‘scontro’, ma un incontro di queste due civiltà apparentemente antitetiche, nel quadro di un’unificazione (ma non uniformazione, come chiarisce esplicitamente ) dell’umanità.

 

§4. Amartya Sen e l’opposizione asiatica alla cultura occidentale moderna

 

Nel caso di Amartya Sen, il concetto stesso di Oriente non è accettato: del resto egli appartiene al periodo della decolonizzazione e della post-modernità, e scrive dopo le riflessioni di Edward Said sull’ ‘Orientalismo’ occidentale. Come osserva in “Diritti umani e valori asiatici”, del 1997 (p.151) :

 

La tentazione di considerare l’Asia un’unità rivela in realtà una prospettiva tipicamente eurocentrica. Infatti l’ “Oriente”, la direzione in cui il sole sorge, è stato il termine usato a lungo per designare l’Asia odierna. Solo una generalizzazione piuttosto audace può sommare tanti popoli in un unico gruppo, visto nella prospettiva di chi abita sulla riva europea del Bosforo.

 

La critica di Sen è volta in particolare verso i fautori dei ‘valori asiatici’ ai quali sarebbe estraneo il liberalismo occidentale. Egli nota che gli stessi occidentali hanno una chiara tendenza a ritenere “che il primato delle libertà politiche e della democrazia sia un elemento fondamentale e antico della cultura occidentale, che non si ritrova facilmente in Asia.” (p.152) Ma Sen ritiene che tale visione derivi dal “guardare al passato con gli occhi del presente” di un Occidente post-illuminista, e riporta la dichiarazione di Isaiah Berlin , il quale sosteneva di non aver trovato una “formulazione chiara” del concetto di libertà individuale nel mondo antico (greco-romano). Orlando Patterson  contestò che vi erano in Grecia, a Roma e nella tradizione cristiana aspetti che indicano la presenza di una difesa parziale della libertà individuale. Ma, osserva Sen, se si cercano elementi parziali di libertà, li si possono trovare anche in culture non occidentali. Distinguendo innanzitutto 1) il valore della libertà personale e 2) l’uguaglianza della libertà. Aristotele valorizzò la libertà, ma ne escluse donne e schiavi. E, per quanto riguarda l’Asia (p. 153):

 

Anche in una società stratificata in classi e caste – come quella dei mandarini e dei bramini – la libertà potrebbe essere di grande valore per i ceti privilegiati, così come la libertà ha valore per gli uomini, purché non siano schiavi, nelle corrispondenti concezioni greche della società buona.

 

A proposito del passato indiano, Sen nota due grandi esempi di tolleranza universale, quelli dell’imperatore Maurya Aśoka, del III sec. a.C., che nei suoi editti promuoveva il rispetto reciproco da parte delle varie comunità religiose, e dell’imperatore della dinastia islamica Moghul Akbar (regnò tra il 1556 e il 1605), il quale proclamò che a ognuno è consentito praticare la religione di sua scelta, e di tornare indù se era stato fatto musulmano contro la sua volontà; inoltre, accoglieva a corte saggi di tutte le religioni presenti in India, sino a fondare una religione sincretica, il Din Ilahi (“religione divina”). Sulla base di quest’esempio, Sen giunge a rovesciare l’ottica occidentale (p. 160):

 

E’ interessante notare, considerato che oggi il “liberalismo occidentale” viene fatto oggetto di un marketing aggressivo, che nel periodo in cui Akbar si pronunciava a favore della tolleranza religiosa, l’Inquisizione dilagava in Europa.

 

Insomma, per Sen la libertà e la tolleranza non sono valori unicamente occidentali, ma ampiamente presenti nella tradizione indiana, mentre i “valori asiatici” sono un’astrazione sfruttata da autoritaristi asiatici, come l’ex-primo ministro di Singapore Lee Kuan Yew, per far apparire la lotta al liberalismo sostenuto dall’Occidente alla stregua di un’opposizione all’egemonia occidentale. Sen non crede evidentemente all’impermeabilità delle civiltà, ma a un’esigenza comune a tutta l’umanità dei diritti di libertà individuale, che coinvolge anche una comune responsabilità (pp. 163-4):

 

Il fatto che la libertà individuale sia stata difesa in certi scritti occidentali e addirittura da alcuni responsabili politici occidentali può difficilmente compromettere la richiesta di libertà che gli asiatici potrebbero eventualmente esprimere. Si avrebbe anzi ragione di recriminare che i responsabili politici dei paesi occidentali s’interessano troppo poco delle libertà nel resto del mondo. E’ ampiamente dimostrato che i governi occidentali hanno per lo più dato la priorità ai propri cittadini impegnati nel commercio con i paesi asiatici e alle pressioni provenienti dai gruppi di affari che vogliono buoni rapporti con i governi al potere in Asia. Non si può neppure parlare di can che abbaia e non morde: questo cane abbaia pochissimo. [...]

Nella forma più generale, il concetto di diritti umani si fonda sulla nostra umanità condivisa. Sono diritti che non derivano dalla cittadinanza di un paese, dall’appartenenza a una nazione, ma che spettano a ogni essere umano. [...] Il diritto umano di una persona a non essere torturata non dipende dal paese di cui è cittadina e quindi esiste a prescindere da quanto vuole fare il governo di quello o di qualunque altro paese. [...]

Uno straniero non ha bisogno dell’autorizzazione di un governo repressivo per cercare di aiutare una persona le cui libertà vengono violate. Nella misura in cui i diritti sono considerati diritti di ogni persona in quanto essere umano, e non in quanto cittadino di un determinato paese, la portata dei doveri corrispondenti può comprendere ogni essere umano, a prescindere dalla cittadinanza.

 

A proposito della tolleranza religiosa, egli insiste molto sull’India come Stato laico e pluralista, come era voluto da Nehru, opponendosi alle nuove teorie dei fondamentalisti indù e dei post-modernisti antioccidentali, che vorrebbero mettere in discussione tale laicità. In “Il laicismo e i suoi scontenti”  (pp. 28-31), Sen elenca vari tipi di critiche al laicismo indiano: la critica dell’insussistenza o ipocrisia del laicismo indiano, la critica che individua un ‘favoritismo’ per la minoranza musulmana con il pretesto del laicismo, quella che sostiene l’esistenza di un’ ‘identità prioritaria’ indù, quella che individua un ‘settarismo’ musulmano che impedisce ai musulmani di considerarsi indiani e di conseguenza di avere lealtà verso l’India, la critica ‘culturale’ (secondo la quale l’India sarebbe per sua essenza un ‘paese indù’, per cui sarebbe sbagliato trattare l’induismo meramente come una delle varie religioni del paese), e infine la critica ‘antimodernista’. Secondo quest’ultima, il laicismo va rifiutato in quanto componente del ‘modernismo’. Sen così riassume tale approccio come si presenta in India (p. 30):

 

[...] gli attacchi più efficaci al “laicismo in quanto modernismo” in India associano l’antimodernismo alla nostalgia di un passato in cui i problemi sarebbero stati meno acuti, soprattutto nei termini di pacifica coesistenza tra le religioni. [...] Ashis Nandy scrive che “mentre l’India si va modernizzando, cresce la violenza religiosa” ed esprime ammirazione per “gli stili di vita tradizionali che nei secoli hanno sviluppato principi interni di tolleranza” . La denuncia del laicismo che deriva da tale ragionamento si esprime nella dura conclusione dell’autore: “Accettare l’ideologia laicista significa accettare l’ideologia del progresso e della modernità quale nuova giustificazione del dominio, e l’uso della violenza per imporre e sostenere tale ideologia, nuovo oppio dei popoli.”

 

Amartya Sen risponde a questi attacchi concedendo, anzitutto, che “sembra dimostrato che la violenza intercomunitaria sia aumentata sotto il dominio coloniale.” Ma prosegue chiedendosi cosa sia il ‘modernismo’ che, secondo Nandy, spezza il processo di tolleranza, o meglio (visto che il concetto di modernità non pare, agli occhi di Sen, facile da chiarire), cosa sia il ‘laicismo quale modernismo’ che sta al centro dell’interesse di Nandy. Secondo Sen, il laicismo “richiede un trattamento egualitario, in politica e negli affari di stato, delle varie comunità religiose.” (p. 46) E ammette di non comprendere perché tale trattamento egualitario dovrebbe includere “l’uso della violenza per imporre e sostenere tale ideologia”. E aggiunge (p. 46):

 

Per rifarmi a concetti in voga nella teoria contemporanea, non è certo difficile che uno stato possa “omogeneizzare” per meglio “egemonizzare”, ma mi sembra del tutto astratto ritenere che ciò accada qualora lo stato smetta di favorire una comunità religiosa  rispetto a un’altra, come vuole il laicismo. Se l’esperienza del dominio coloniale britannico dimostra come il laicismo possa venire usato per accentuare la violenza intercomunitaria, dovrebbe risultare lampante che lo strumento prescelto a tale scopo è “divide et impera”, non “unisci e uniforma”. Una forma di governo e di gestione dello stato paritaria e non settaria può anzi contribuire a ridurre le tensioni e la violenza.

 

Basandosi sugli esempi già citati degli imperatori Aśoka e Akbar, Sen afferma che l’uguaglianza laica non pare una caratteristica della sola ‘modernità’, e nota come i tentativi di questi sovrani a favore di trattamenti egualitari non risulta che abbiano accresciuto la violenza intercomunitaria. Ne conclude che “caratterizzare il laicismo come modernismo non è particolarmente convincente né fornisce un buon motivo per rifiutare il laicismo.”

Si può osservare un’analogia tra il rifiuto del liberalismo occidentale e quello del laicismo moderno, e Sen riporta questa tendenza antioccidentale e antimoderna, paradossalmente, ad un modello occidentale, in “La nostra cultura e la loro. Satyajit Ray e l’arte dell’universalismo” , che tratta di un grande regista cinematografico bengalese, anch’egli formatosi alla scuola di Śantiniketan e fautore del reciproco scambio tra cultura occidentale e orientale. Leggiamo a pp. 76-7:

 

[…] la progressiva omogeneizzazione delle culture messa in rilievo soprattutto da una certa moda occidentale e da un’ingannevole concezione della “modernità”, è stata duramente criticata. Ansie di questo genere hanno trovato varie forme d’espressione in studi culturali recenti fioriti nelle cerchie letterarie e intellettuali d’Occidente. C’è forse una certa ironia nel fatto che tanta parte della critica alla “modernità occidentale”, nata nello stesso Occidente, si sia diffusa poi pari pari nel Terzo Mondo.

 

Quest’idea ricorda l’ironia di Tagore sulla “banda di strumenti a fiato europei” e sulla voce dell’India che suona come un’eco o una parodia della voce occidentale proprio nel ripudiare o condannare la civiltà d’Occidente.

A p. 86 Sen ritorna sullo stesso argomento:

 

Come ho accennato in precedenza, in India i recenti attacchi alla “modernità” (specialmente alla “modernità” giunta dall’Occidente ) si basano in gran parte sulla letteratura “post-moderna” e su approcci simili, che hanno avuto una grande influenza nei circoli letterari e culturali in Occidente come in India. E’ interessante rilevare questo doppio ruolo dell’Occidente: le metropoli coloniali forniscono idee agli intellettuali postcoloniali con le quali attaccare l’influenza delle metropoli coloniali. Non si tratta di contraddizione. Il doppio ruolo suggerisce, tuttavia, che la mera connessione con l’Occidente non è sufficiente per condannare un’idea. Coloro i quali criticano il “modernismo” spesso condividono con i fautori del “modernismo” l’idea che il “moderno” sia qualcosa di inequivocabile, contro cui o a favore di cui schierarsi. Ma identificarlo è tutt’altro che facile […]. Il punto non è che tutto ciò che è moderno è buono, o che non vi siano ragioni per dubitare della saggezza di molti sviluppi perseguiti nel nome della modernità. Il punto piuttosto è che non si può sfuggire all’esame critico delle idee, delle norme e dei progetti, indipendentemente dal fatto che queste siano ritenute favorevoli o contrarie alla modernità.

 

L’approccio di Sen verso la modernità occidentale risulta quindi pragmatico e non ideologico, ma anche fondato su una teoria di interconnessione radicale tra Oriente e Occidente, che si può manifestare in vari ambiti culturali, dalla culinaria alla matematica. Esprime chiaramente le sue vedute a pp. 84-6 dello stesso saggio:

 

La mescolanza di tradizioni che sottende ai maggiori sviluppi intellettuali nel mondo si impone fortemente contro la visione “nazionalistica” (o “regionalistica” o “localistica” o “basata sulla comunità”) di tali sviluppi. E’ ben noto, per esempio, quanto importante sia stato l’apporto congiunto di matematici indiani, arabi ed europei a quella che oggi viene chiamata “matematica occidentale”. […] Considerate le interconnessioni culturali e intellettuali, è spesso assai difficile stabilire che cosa sia “occidentale” e che cosa “orientale” (o “indiano”), ragione per cui la questione può essere esaminata solo in termini dialettici. La caratterizzazione di un’idea come “puramente occidentale” o “puramente orientale” può essere estremamente illusoria. […]

C’è un lato allarmante nell’antimodernismo che tende a mettere in discussione, più o meno esplicitamente, l’importanza della cosiddetta “scienza occidentale”. Tale conservatorismo, nel caso in cui si rafforzasse, potrebbe minacciare l’educazione scientifica in India, influenzando le scelte di studio dei giovani indiani e compromettendo il ruolo della scienza nel curriculum generale.

Il ragionamento che sottende a tale atteggiamento “anti-straniero” ha vari punti deboli. Innanzitutto, ciò che viene definito “scienza occidentale” non è proprietà esclusiva degli Stati Uniti o dell’Europa. E’ vero che, dopo il Rinascimento, la rivoluzione industriale e l’Illuminismo, la maggior parte del progresso scientifico si è avuta in Occidente; ma tali sviluppi scientifici si basano sostanzialmente su lavori precedenti in matematica e scienza svolti da arabi, cinesi, indiani e altri. Il termine “scienza occidentale” è in questo senso fuorviante, così come fuorviante è la tendenza a stabilire una distanza tra i non-occidentali e l’impiego della matematica e della scienza.

 

La questione della scienza asiatica è di particolare attualità, visto che la produttività scientifica indiana e cinese sta superando quella statunitense: sembra che la preoccupazione di Sen che essa non sia abbastanza coltivata in India risulti ormai infondata. Ci si potrebbe chiedere tuttavia se la scienza, nel suo sviluppo occidentale, non abbia acquisito forme, contenuti e finalità profondamente estranei alla cultura indiana nel suo spirito e nella sua struttura. Amartya Sen crede però nell’universalità e neutralità della razionalità scientifica, come mostra nel seguito della sua argomentazione:

 

Secondariamente, a prescindere da dove hanno avuto luogo tali scoperte e invenzioni, i metodi di ragionamento adottati in ambito scientifico e matematico danno a queste discipline una certa autonomia rispetto alla geografia e alla storia culturale. Senza dubbio vi sono conoscenze locali, e diversi metodi adottati per discutere, dimostrare e verificare le prove sono in buona parte condivisi. L’espressione “scienza occidentale” è fuorviante anche in questo senso.

 

Alla fine dell’analisi, Sen si dichiara disposto anche a rompere con il passato e la tradizione dell’India:

 

Terzo, le nostre decisioni riguardo al futuro non devono necessariamente dipendere dal passato come fossero parassiti. Anche se non ci fosse alcuna componente asiatica o indiana nella matematica e nella scienza contemporanee – il che non è vero, ma anche se lo fosse – non sarebbe una ragione sufficiente per contestarne l’importanza per l’India contemporanea. Rabindranath Tagore ha ben illustrato la tirannia di un incondizionato attaccamento al passato nel suo racconto divertente ma profondamente serio Kartar Bhoot (Il fantasma del capo), dove i desideri del capo, rispettato ma morto, rendono impossibile la vita ai vivi.

 

§5. Riflessioni conclusive

 

Ancora una volta, vediamo che il pensiero di Sen e di Tagore si incontrano, in questo caso nell’opposizione al tradizionalismo statico e nell’accentuare l’importanza della scienza moderna, che anche secondo Tagore doveva essere coltivata dagli indiani (come, recentemente, l’avevano coltivata con successo i giapponesi), per acquisire così libertà e padronanza nel mondo materiale. Troviamo quindi in entrambi un forte elemento di occidentalizzazione e di modernismo, anche se in Tagore convive con una forte istanza di spiritualità, etica ed estetica profondamente indiana (con tratti antimoderni), mentre in Sen non si coglie una reale aderenza alla tradizione dell’India, ma un’apertura pragmatica a ciò che l’Occidente ha da offrire, senza reali preoccupazioni per la conservazione della propria identità culturale. I suoi richiami al passato indiano appaiono volti soprattutto a confutare le argomentazioni degli antimodernisti e del nazionalismo indù, e nel mostrare il patrimonio di tolleranza e razionalità che l’India detiene.

Nel saggio “Tradizioni indiane e immaginario occidentale”, sulla scia di Edward Said, imputa agli intellettuali occidentali la creazione di un’immagine dell’India antitetica all’Occidente, sia nel senso ‘esotico’ del paese della spiritualità, sia in quello ‘magistrale’, proprio degli imperialisti britannici, di una civiltà retrograda e irrazionale. Per sfatare questa concezione, Sen indica e valorizza ciò che l’India ha avuto di più simile all’Occidente moderno invece di accentuare ciò che ha di specifico; e se la sua visione è più ‘decolonizzata’ rispetto a certi aspetti del pensiero di Tagore, ad esempio nel negare l’esistenza dell’ ‘Oriente’ e di un’India priva di libertà e razionalità, egli dimostra di condividere ormai pienamente (e forse esclusivamente) i valori ‘occidentali’. 

Nella sua dialettica con gli antimodernisti possiamo vedere le due facce di un’India che si interroga su quale forma dare al suo futuro: quella degli occidentalizzati progressisti  e quella dei conservatori fautori di un’identità distinta dal mondo occidentale, tra i quali si sarebbe potuto mettere anche il Mahatma Gandhi, il quale, nonostante la sua apertura al pluralismo e la sua opposizione al sistema castale, era ostile alla tecnologia, coltivava una pratica ascetica e un pensiero religioso di matrice induista, ed esibiva abiti puramente indiani.  Un intellettuale sostanzialmente modernista come Amartya Sen è certamente un antidoto alla chiusura retriva, settaria e autoritaria ed allo ‘scontro di civiltà’, ma rischia di andare nella direzione dell’omogeneità culturale di stampo occidentale. Egli non manca di criticare con spirito polemico e valide argomentazioni gli occidentali per la loro visione distorta dell’India o per la loro mancanza di coerenza e di interesse per i diritti umani in Asia, ma il suo discorso si pone essenzialmente sullo stesso piano di quello occidentale, diversamente dal discorso di Tagore, che partiva spesso da presupposti specificamente indiani. Del resto, l’atteggiamento di Sen è espresso chiaramente alla fine del saggio “La nostra cultura e la loro”, in un messaggio conclusivo che pone l’orgoglio dell’India non in qualche tratto peculiare della sua civiltà, ma nella sua stessa varietà interna e nella sua apertura. Dopo una citazione del regista Satyajit Ray che esaltava i “vertiginosi contrasti” di Calcutta, così commenta (p. 90):

 

La celebrazione di queste differenze – i “vertiginosi contrasti” – è lontana da quanto si può trovare nelle elaborate generalizzazioni sull’unica e fragile purezza della “nostra cultura”, e nei vigorosi appelli a conservare la “nostra cultura” e la “nostra modernità” immune dalla “loro cultura”. Nella nostra eterogeneità e nella nostra apertura risiede il nostro orgoglio e non la nostra disgrazia. Questo è quanto ci ha insegnato Satyajit Ray, ed è una lezione profondamente importante per l’India. E per l’Asia, e per il mondo.

 

 

 Note