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Carl Schmitt, i valori assoluti e il diritto di criticare Israele.

di Carlo Gambescia - 06/02/2007

 

Il Guardian ha pubblicato un appello di 130 intellettuali ebrei inglesi, volto a rivendicare il diritto di critica all’attuale politica israeliana verso i palestinesi (www.guardian.co.uk) . In Italia, un professore torinese di filosofia è stato accusato di antisemitismo e sospeso per aver criticato in classe la politica "sionista" del governo israeliano (www.comedonchisciotte.org ).
Probabilmente in Inghilterra c’è maggiore libertà che in Italia.
Quel che però più ci preoccupa dell’intera questione, è il muro contro muro in corso tra coloro che vogliono l’applicazione di leggi che puniscano estensivamente l’antisemitismo (fino a includervi la possibilità stessa di fare ricerche in argomento o su temi affini), e coloro che pur non essendo antisemiti, condannano la politica israeliana, in quanto "sionista" (colonialista), rivendicando la libertà di critica politica e storica assoluta.
Per quale ragione si tratta di un fenomeno preoccupante? Perché ci troviamo dinanzi a due forme di assolutismo morale, o di etica dei principi. I sostenitori di una legge che inibisce la ricerca storica e i fautori della libertà di ricerca hanno in comune qualcosa di nobile e spaventoso al tempo stesso. Che cosa? La comune accettazione dell’ineluttabilità dell' obbligo morale (collettivo). E non importa qui analizzarne gli eventuali contenuti (etici). Va però fatta una precisazione: se l'obbligo etico ( fondato sull'idea del "crolli il mondo ma io...") può avere valore e significato sul piano dei rapporti personali (da individuo a individuo), o su quello personale dell'esame di coscienza (l'individuo che riflette sul proprio comportamento morale), appena viene esteso ai rapporti tra collettività diventa pericoloso. Per quale motivo?
Perché le due parti si ritengono subito collettivamente depositarie di valori assoluti. E di conseguenza non possono non bollarsi reciprocamente come criminali e disumane. In questo senso, la logica della dialettica tra valore e non valore, implica una pericolosissima consequenzialità che attraverso un diabolico gioco al rialzo, spinge le parti in conflitto a "svalorizzare" progressivamente l’avversario, fino al suo annullamento finale.
Siamo perciò dinanzi alla schmittiana inimicizia assoluta. Che è premessa, ripetiamo, dell’annientamento prima etico e poi fisico del nemico. L’inimicizia diviene così terribile, al punto che qualsiasi prezzo da pagare per l’annullamento dell'Altro (collettivo) viene giudicato ragionevole . Il celebrato illuminismo delle leggi morali e delle libertà civili, appena si trasforma da individuale in collettivo, rischia di divorare se stesso. E quel che è più grave i suoi fedeli...
Pertanto l’esito finale del conflitto in atto tra libertà di critica e imperio della legge, rischia di trasformarsi, prima in imbarbarimento collettivo, e poi nell’annientamento assoluto, etico e materiale del più debole.
Quel che può essere eticamente giusto per il singolo, può essere catastrofico per la collettività. Di qui la necessità di un'etica della responsabilità ("quali conseguenze, se io..."), che tenga appunto conto del pericolo insito nei determinismi della "ragione collettiva" (o strumentale). E soprattutto della pericolosità sociale di ogni conflitto collettivo fondato sull'idea di obbligo assoluto verso qualsivoglia principio etico. Il che non è ( non sarà) mai facile, perché il richiamo delle grandi sfide etiche collettive affascina gli uomini, soprattutto se ricchi di ingegno e ambizione. Inoltre, l'etica della responsabilità, spesso transigendo troppo, favorisce la pura e semplice conservazione dello status quo, e dunque di certe storture sociali e politiche , giudicate come il mare minore.
Una cosa però è importante comprendere: la strada dell'etica (collettiva) dei principi, benché lastricata di buonissime intenzioni, è senza ritorno.