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Struttura e sovrastruttura del potere. Il governo Prodi e il capitalismo "buono" dossettiano

di Denise Pardo e Carlo Puca - 06/02/2007

Prodi& Bazoli: L'asse pigliatutto

Cattolici, professori, impermeabili alle critiche, con la stessa visione etica. Dopo Sant'Intesa e le tv, i loro uomini sono nei punti strategici. Hanno il progetto di una Mediobanca alternativa per arrivare a Generali e «Corriere della sera», con un capocordata: il bolognese Gaetano Maccaferri. Passando per un nuovo partito


 
Dopo Giuseppe Rotelli, un altro homo prodianus si prepara a pesare di più all'interno della Rcs Mediagroup e quindi del Corriere della sera. È Gaetano Maccaferri, presidente dell'Assindustria di Bologna, rappresentante di una delle casate più facoltose della città, legato da sempre alle famiglie dei Rovati e dei Ponzellini. Un amico più che fidato. Intanto, è entrato nella società mista dell'edizione bolognese del Corriere, compiendo il primo di una serie di passi che dovrebbe portarlo come capo di una nuova cordata direttamente in via Solferino. La cattedrale del capitalismo italiano, il salotto dove i poteri forti dimostrano se sono forti davvero.

Il Corriere della sera: un'altra delle grandi partite che Prof & Prof, la coppia al momento più potente d'Italia, deve ancora vincere. Nel frattempo ne ha vinte già tante. Il premier Romano Prodi e Giovanni Bazoli, artefice della più grande fusione bancaria italiana, quella della sua Intesa con il San Paolo, stanno ridisegnando il nuovo assetto politico ed economico del Paese.
Entrambi cattolici, entrambi docenti universitari, hanno siglato un pacs di ferro: diventare il potere forte tra i poteri forti. Li unisce la stessa visione culturale, etica, istituzionale. Attendisti, impermeabili a qualsiasi critica e polemica, restano fermi aspettando eventi che loro stessi indirizzano.

Sulla Rai, per esempio, archiviata la nomina in quota Ds-Margherita del direttore generale Claudio Cappon (al posto di Antonello Perricone, candidato prodiano finito poi a guidare la Rcs), il premier è sembrato disinteressarsi ma si è rifatto ampiamente. Prima ha trasformato la tv satellitare di Rupert Murdoch nella sua emittente personale; Sky Tg24 gli dà lo spazio che desidera, raccoglie il suo verbo dovunque. Poi, pian piano, tutti gli uomini che voleva in viale Mazzini hanno trovato una degna soddisfazione. A cominciare dal direttore del Tg1 Gianni Riotta, uno dei più accreditati successori di Paolo Mieli alla guida del Corriere, fino a Piero Badaloni chiamato alla direzione della Rai International per curare gli italiani all'estero.

E «Nanni» Bazoli? Valga l'esempio dell'Abi, la Confindustria delle banche. I candidati erano tanti e tutti influenti. Ma alla fine, senza clamore, è riuscito a portare a casa la poltrona per il suo candidato Corrado Faissola, amministratore delegato della Banca lombarda, contro la volontà di due pezzi da novanta del sistema bancario italiano: Alessandro Profumo dell'Unicredito e Matteo Arpe della Capitalia, suoi grandi rivali.
Ma se questa è la pratica, per Prodi e Bazoli vale innanzitutto la dottrina. Il loro progetto enfatizza una legge non scritta della Seconda repubblica: è l'economia che fa la politica, non più viceversa. La mission è contare per governare. E per durare. Il tutto filtrato dal tratto più condiviso dai due. Un neodossettismo molto realistico: maggiore apertura sociale e l'intervento pubblico in economia, senza però rinunciare al controllo del privato.
Dalle banche alle televisioni, dalle infrastrutture ai trasporti, dalle assicurazioni fino ad arrivare ai servizi segreti, il cattopremier e il cattobanchiere piazzano le bandierine delle nuove zone d'influenza. I due si muovono in maniera parallela e convergente.
Sul parallelo di Prodi sono state già chiuse diverse operazioni. Non ancora quella del Partito democratico, la fusione a freddo tra Ds e Margherita. Il premier non si agita più di tanto. Anche in questo caso vale la tattica attendista. Ha capito, e ha spiegato ai suoi collaboratori, che «agitarsi non serve. Quando loro litigano, io divento l'ago della bilancia». È accaduto su tutto: Finanziaria, liberalizzazioni, nomine. Dunque, «meglio far sfogare gli alleati, lasciar decantare le cose. Poi intervenire». Così, il Partito democratico diventerà cosa sua.

In fondo, la preoccupazione maggiore dei demoscettici diessini è proprio questa: l'abdicazione a favore di un leader democristiano. Anche l'asse con Bazoli, infatti, taglia fuori la Quercia da tutte le decisioni che contano, decisioni costruite in chiave cattolica. Non certo progressista. La stessa Sant'Intesa è un colpo fatale anche alla finanza rossa. La megabanca è nata sotto lo sguardo inebetito degli alleati diessini che hanno assistito al ridimensionamento di Pietro Modiano, il loro uomo dentro al San Paolo, capendo di essere stati esclusi dal risiko delle banche, dopo la bufera Unipol e il tentativo fallito di scalata alla Bnl.
Aspettando il Pd, l'unico partito di Prodi è Palazzo Chigi, tessere zero ma tante sezioni. Quelle delle aziende di Stato dove conta ormai una rete di fedelissimi. Una parte nominati da lui, un'altra recuperata abilmente dal precedente governo. Come Pietro Ciucci, ex compagno all'Iri, nominato presidente all'Anas anche per bloccare qualsiasi polemica sul siluramento del progetto berlusconiano per il ponte sullo Stretto, del quale lo stesso Ciucci era il patron.

All'Enel c'è invece Piero Gnudi, bolognese e ciclista. Innocenzo Cipolletta è a capo delle Ferrovie. La Fintecna è guidata da Maurizio Prato, vecchia filiera Iri. E poi c'è l'impero delle banche, che si completa con la Fondazione Cariplo di Giuseppe Guzzetti, la Banca popolare italiana di Piero Giarda e la Cassa depositi e prestiti di Alfonso Iozzo. Inoltre, ci sono gli amici di una vita come Angelo Tantazzi, piazzato alla Borsa spa, e Alberto Clò, finito nel consiglio d'amministrazione della Autostrade, presieduto da un altro prodiano, Gian Maria Gros Pietro.
Infine, i servizi segreti. Il direttore del Cesis, il generale Giuseppe Cucchi, aveva lavorato per la Nomisma, centro di ricerca fondato da Prodi a Bologna nell'81.
Partite di Palazzo e partite d'alta finanza. È in piena estate che Bazoli mette in piedi la sua strategia. Indebolito dal tentativo della presa della Capitalia, rimandato al mittente da Cesare Geronzi e Matteo Arpe, il presidente della Banca Intesa cambia obiettivo. «Non bisogna solo vincere» ha detto una volta. «Bisogna giocare e giocare bene». Questa volta non sbaglia una mossa. Sotto Natale, più che unire, accorpa l'istituto San Paolo di Torino creando la megabanca con amministratore delegato Corrado Passera: in borsa scavalca l'Unicredito e diventa la seconda società per capitalizzazione dietro l'Eni. Con il plauso di Prodi, che in barba all'europeismo inneggia alla nuova superpotenza.
Dopo aver posto in zona sicura anche la Banca lombarda nel caveau delle Bpu guidate con il fedele Giampiero Auletta Armenise, ora Bazoli si appresta al grande slam. L'unione tra due finanziarie di prim'ordine: la sua Mittel, già nel patto Rcs Mediagroup, con la Hopa di Emilio Gnutti. Il diavolo con l'acqua santa. Gnutti è il rappresentante di quei raider bresciani che nulla hanno a che vedere con i nobili lombi della finanza cattolica cui appartiene Bazoli.

Il gioco vale davvero la candela. Nell'immediato le nozze puntano a costituire una SuperMittel o Mittelbanca, che anche grazie alle sue partecipazioni in Telecom e Generali diventerebbe una concorrente diretta della Mediobanca, simbolo della superiorità della potenza laica. Ma la SuperMittel può davvero scalare l'Everest del capitalismo italiano? E scalzare la Mediobanca nel controllo delle assicurazioni Generali?
L'indizio più chiaro del progetto è la vicepresidenza della Sant'Intesa offerta al presidente del leone di Trieste. Il sì di Antoine Bernheim è stato letto dalla comunità finanziaria, e soprattutto da via Filodrammatici, come un possibile lasciapassare per il colosso assicurativo. Anche perché Romain Zaleski, finanziere franco-polacco legatissimo a Bazoli e primo azionista della Mittel, rastrella azioni sia di Sant'Intesa sia (soprattutto) di Generali.
Ci sono poi casi in cui i paralleli di Prodi e Bazoli diventano palesemente convergenti. Come quello del fondo per le infrastrutture F2I guidato da Vito Gamberale, nominato dal premier dopo che in polemica con i Benetton per la fusione con la spagnola Abertis, era uscito dalla Autostrade (e chissà che non finiscano nell'orbita bazoliana). Ufficialmente la F2I è una società per la gestione del risparmio, realmente si tratta di un nuovo strumento a cavallo tra il pubblico e il privato in mano a Prodi e Bazoli, con il 35 per cento riconducibile al clan degli amici. Una postazione privilegiata per operazioni coi fiocchi. Come l'acquisto della Snam o della rete fissa della Telecom Italia, vecchio piano presentato a Marco Tronchetti Provera dall'ex consigliere economico di Prodi Angelo Rovati.

E che dire dell'Alitalia? Undici le offerte ma soltanto due contano davvero. I bookmaker danno vincente un accordo tra Carlo Toto, proprietario della Air One, vicino a Bazoli e a Massimo D'Alema, e la cordata dell'ingegnere Carlo De Benedetti. Ci vuole, però, la benedizione di Prodi. Con lui, infatti, devono negoziare i poteri economici che magari puntano su altre leadership politiche, come quella di Walter Veltroni.
Una strada in discesa? Non proprio. Perché ad azione corrisponde reazione. Più della missione in Afghanistan o delle elezioni amministrative di medio termine, Prodi deve mettere in conto la possibile spallata degli altri giocatori delle partite economiche in ballo e anche le nuove alleanze che possono scaturire. Compresa quella con il paradiessino Monte Paschi di Siena. E azionisti pesanti delle Generali come Vincent Bolloré e Tarak Ben Ammar (molto legato a Silvio Berlusconi) vedono di buon occhio una alleanza Generali-Mediobanca-Capitalia contro il fronte bazolian-prodiano.
C'è grande attesa per capire le intenzioni di Alessandro Profumo, leader dell'Unicredito che non si può escludere dai giochi pesanti. Intanto, è entrato nella competizione per l'Alitalia e nel fondo F2I con un 10 per cento. E Profumo rimane il più accreditato a concludere un altro megamatrimonio, quello tra Unicredito e Capitalia. Insomma, à la guerre comme à la guerre. E, in quel caso, né santi né madonne potrebbero bastare.