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Quando la parola uccide. Per una nuova traduzione di "Antigone"

di Massimo Cacciari - 08/02/2007


Il dramma di Sofocle va in scena domani sera a Torino: l´eroina e Creonte sono figure inseparabili e incarnano l´essenza del dialogo tragico che culmina in un conflitto incomponibile
Il terreno della sepoltura dei vinti è arrischiato quanto nessun altro


Anticipiamo parte dell´introduzione di Massimo Cacciari all´Antigone di Sofocle, da lui curata e tradotta, in uscita domani nella Collezione di Teatro Einaudi (pagg. XIV+48, euro 8,50). Sempre domani, alle 20.45, al Teatro Astra di Torino andrà in scena lo spettacolo diretto da Walter Le Moli, che si basa appunto sulla nuova versione.
Altri spettacoli classici sono in programma, voluti dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino (in collaborazione con Teatro di Roma e Fondazione Teatro Due): da La folle giornata o il matrimonio di Figaro, di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, nella traduzione di Valerio Magrelli, a Dossier Ifigenia, da Euripide, in quella di Edoardo Sanguineti.

Il grido acuto di Antigone, «come di uccello angosciato alla vista del nido deserto», deve poter essere udito, ora lontano ora incombente, in ogni momento della tragedia. Esso riempie ogni sua pausa e ne determina il ritmo. La parola articolata non può liberarsene, ma lo porta in sé come sua propria, intima «dissonanza».
La parola assume questo timbro quando essa si fa effettualmente, corporalmente toedtendfactisches, quella parola capace di uccidere, di recare morte, di «divenire» mortale (più che toedlichfaktisches, meramente «assassina»), che è per Hölderlin «das griechischtragische Wort», la parola greco-tragica. Tale tremenda potenza della parola si manifesta nell´Antigone nella sua forma più pura, come archè della parola stessa. È la sua originaria energia che la produce e la muove, è essa che ne spiega l´inesausto agonismo, è per essa che le parole si affrontano nella più pericolosa delle gare, nel dialogo. E mai essa si rivela più potentemente che nella parola ispirata, "entusiasta": se infatti uccide la parola di Creonte, ancor più duramente colpisce quella di Tiresia, e proprio perché fino all´ultimo trattenuta essa si scatena alla fine quasi selvaggiamente. Mortale per Creonte la parola di Emone, il cui ultimo timbro sarà quello sputo, nel talamo-tomba di Antigone, tanto più feroce di ogni punta di spada. Da morte a morte conducono, infine, le parole di Antigone, tutte comprese nel destino comune della stirpe: inseparabili fino a darsi reciproca morte hanno "dialogato" i fratelli; e in diversa forma questo stesso polemos continua ora tra Antigone e Creonte. Poiché Logos è Polemos, e l´unità del divino non può darsi che nel contrapporsi delle parole, non si rivela ai mortali che nell´articolarsi-distinguersi delle sue dimensioni, dei suoi dominî, delle sue timai.
Questo è l´essenziale: comprendere l´inseparabilità dei Due, Antigone e Creonte. E dare alla voce di entrambi tutta la sua potenza "omicida". Assolutamente necessari l´uno all´altro, metafisicamente estranei a ogni odio personale, inarrestabili nel "rendersi morte", essi incarnano così l´essenza del dialogo tragico. Il dialogo è tragico quando le distinte dimensioni della Parola si incontrano e affrontano pervenendo ciascuna all´acme della propria chiarezza, della coscienza di sé, e proprio su questo limite manifestano l´impotenza a comprendersi e accogliersi. Quando due figure si affrontano con l´arma più tremenda, la parola, e scoprono reciprocamente di essere destinalmente impotenti all´ascolto, lì scoppia il conflitto incomponibile - che significa tuttavia, a un tempo, la necessità della loro relazione. Antigone non sarebbe senza Creonte, mentre del tutto contingente è il suo rapporto con Emone. E così per Creonte solo il rapporto con Antigone, l´antagonismo con la figlia di Edipo, lo caratterizza irreversibilmente. Le parole di Creonte ed Emone possono contraddirsi intrecciandosi - e la possibilità, per quanto estrema, del loro accordo è la speranza del Coro. Creonte si fra-intende con il Coro e con tutte le altre personae della tragedia, con Tiresia anzitutto. Soltanto con Antigone il dialogo diviene polemos purissimo, affrontamento di principî che si "conciliano" solo nel darsi reciproca morte.
Certo, l´assoluta "fedeltà" di entrambi al proprio dèmone non li esenta dal dubbio; nell´imminenza del supplizio Antigone si chiede se nella sofferenza non le verrà inflitto di scoprire un suo errore, e a Creonte la maledizione di Tiresia spalanca all´ultimo la vista di un abisso che fin dall´inizio traspariva dalla sua ostinazione. L´eroe tragico incarna il proprio destino e fa ciò che deve nel dubbio e nella interrogazione, mai passivamente. E tuttavia a entrambi non è dato che insistere nella propria parola, anche se essa condanna e si condanna alla morte. Simone Weil sembra accomunare per un momento il dubitare di Antigone (un cenno appena, ma il cui timbro è necessario far sempre udire) con quello di Arjuna nella Gita: è il dubitare che si risolve nell´agire, secondo il senso tragico del dran, spiegato da Snell, nell´agire in quanto decisione irrimediabile corrispondente all´essenza del protagonista. Ma l´eroe dell´epos indiano trova pace alla fine nell´agire secondo il suo dharma, mentre l´autonomia dell´eroe tragico si manifesta sempre nella contraddizione con l´altro da sé. La sua parola non dà morte che ricevendola; anzi, non vive in tutta la sua luce che per questa "dialettica".
E affinché proprio quest´ultima si manifesti nella forma più comprensibile, e possa perciò la partecipazione al dolore "convertirsi" in conoscenza, sarà necessario che le parole autonome dei protagonisti risuonino logicamente coerenti col principio che ne domina il carattere. Nulla in questo dramma costantemente intonato al threnos, al canto luttuoso, viene risparmiato dalla "cura" dell´indagine; nulla si dichiara con semplice im-mediatezza. Creonte esprime certo l´immanente pericolo dell´agire politico, della prassi, ma non è affatto tiranno secondo l´accezione usuale del termine. Creonte ha ben regnato, ha ben meritato per la polis, l´ha salvata dalla catastrofe contro prepotenti schiere nemiche. Lo riconosce il Coro, lo riconosce Tiresia.
Per tradizione, forse, per convenienza, certo senza intima convinzione, ha sempre rispettato anche le arti della divinazione e gli oracoli divini. Si badi, neppure il suo decreto che scatena la tragedia va preso come espressione di un impeto d´ira, di irragionevole, delirante volontà di vendetta. Certo, il terreno della sepoltura dei vinti è arrischiato quanto nessun altro per chi regna; qui davvero la dimensione del sacro si confonde nel modo più pericoloso con la decisione politica. Fino a che punto si può spingere la damnatio del nemico vinto e ucciso senza diventare offesa degli dèi di sotterra, empietà? Creonte non ignora affatto il problema, non si slancia affatto inconsapevole nell´abisso che il suo comando gli prepara; è evidente, invece, in tutto ciò che dice e che compie, il suo sforzo di trovare a quel problema convincente, responsabile, ragionevole risposta. La stessa pena che infligge ad Antigone viene da lui predisposta senza "sadismo" alcuno, ma proprio per evitare l´accusa di empietà. Anzitutto, appare a lui manifesta l´enormità della colpa di Polinice; non si tratta del semplice nemico, ma del fratello che vuole annichilire i fratelli, la terra che l´ha nutrito, gli dèi stessi che l´hanno protetto. Non dovrebbero proprio i custodi del sacro essere i suoi più convinti alleati nel decretare tale condanna? L´enormità della pena segue all´enormità del peccato, nient´affatto alla prepotenza di chi la commina. Inoltre, Creonte fa intendere bene che nella città altri, più o meno segretamente, parteggiavano per il vinto.
Poteva Polinice non trovare simpatie e sostegno all´interno della stessa Tebe? Colui che regna saldamente (e razionalmente!) sa di non potersi mai limitare al peana vittorioso, come quello che il Coro intona nel Parodo, ma di dover subito colpire «il seguito clandestino dei vinti» (K. Reinhardt). La pena inflitta al cadavere di Polinice deve suonare avvertimento tremendo, tanto più necessario, agli occhi di Creonte, quanto più lo stesso Coro degli anziani e più grandi di Tebe mostra esplicitamente riluttanza a condividere la decisione del sovrano. E che tale decisione non sia affatto espressione di ira violenta lo dimostra ancora, ad abundantiam, il trattamento riservato al servo che annuncia il "crimine" di Antigone, e, poi, la "assoluzione" di Ismene. Semmai è proprio, invece, il suo cedere alla fine un movimento immediato dell´animo, un incondizionato riflesso difronte alla maledizione di Tiresia. Più che una meditata "conversione", un ragionato "pentimento", esso somiglia a una manifestazione di irrefrenabile paura. Egli non "cede" alle parole di Tiresia, ma piuttosto precipita, compie la propria catastrofe.