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Siamo tutti americani? Intervista a Marco Tarchi

di Marco Tarchi/Giancarlo Terzano - 14/02/2007

 


 

 

Siamo tutti americani? Lo scenario da crociata, da epocale conflitto tra civiltà, dipinto da molti commentatori e politici, sembrerebbe non lasciare alternative: per sfuggire agli inferni fondamentalisti, l’unica è stringersi intorno ai grandi valori dell’Occidente e stare dalla parte degli USA, che ne costituiscono il baluardo nel mondo. Che i tempi ci costringano a questo drastico aut aut, tuttavia,d issentiamo. E non solo per un innato desiderio di percorrere "terzevie"; il fatto è che dietro il richiamo alla "bandiera" scorgiamo le mire egemoniche dell’unica superpotenza planetaria, la cura dei propri interessi economici e strategici, lo stridente connubio tra strumentali richiami ideali ed arroganti violazioni di ogni norma. E, in ultima analisi, la prospettiva di un pianeta uniforme, culturalmente allineato sul modello statunitense e che semmai ne scimmiotta lo stile di vita iperconsumistico, non ci piace per niente. Per un approfondimento sull’argomento abbiamo intervistato Marco Tarchi, professore di Scienza Politica, Comunicazione Politica e Teoria Politica presso l’Università di Firenze ed autore del recente "Contro l’americanismo" (Laterza Editore).

XFare+Verde - Il recente unilateralismo di Bush ha portato molti osservatori a parlare di un nuovo impero, stavolta a stelle e strisce.Con quali caratteristiche si presenta? Ed è un prodotto del solo governo repubblicano o una costante della politica estera della Casa Bianca, manifestatasi anche con presidenti "democratici"?

Marco Tarchi - La tentazione egemonica è da lunga data una delle caratteristiche della politica degli Stati Uniti d’America; si potrebbe dire che è iscritta nei loro cromosomi, per le dimensioni del paese e per la tendenza all’espansione dei coloni e dei loro eredi, che non si sono mai tirati indietro quando si è trattato di pagare, e di far pagare, il prezzo dell’ampliamento delle frontiere. Anche quando alcuni presidenti degli Usa hanno innalzato il vessillo dell’isolazionismo, sottintendevano che nel "cortile di casa" (le intere Americhe...) si riservavano comunque mano libera. Il non intervento si limitava agliscenari d’oltre Atlantico. E’ ovvio che, in epoca di globalizzazione,il cortile si è alquanto ampliato, fino a non avere più confini, se non quelli obbligati dalle circostanze. Stando ai precedenti storici, questa tendenza è stata assecondata sia dai democratici che dairepubblicani.

FV - Per Cacciari, tuttavia, gli USA non hanno una mentalità imperiale. Un impero deve essere accogliente, aperto alle culture che ingloba, onnivoro (gli imperatori romani parlavano il greco), mentre gli americani sono monocentrici, monoglotti, ingenuamente convinti che tutti possano e debbano diventare come loro. Se condivide questa analisi, a quali conseguenze porterà un impero così chiuso?

MT - Questo è un modo - corretto - di intendere il concetto di impero. Ma quando si è parlato in passato di "imperialismo", la nozione sottintesa aveva poco a che fare con l’accoglienza delle culture dei paesi che ne erano oggetto. Oggi si dà comunque un’opportunità inedita: realizzare quella che Galli della Loggia ha definito una "koinè culturale transnazionale" sostanzialmente unitaria - basata su valori tipici della mentalità statunitense ma definiti dai loro sostenitori "occidentali" - in grado di sostituire, per assimilazione selettiva e omogeneizzazione, le culture particolari tipiche di ciascun popolo. E’ su questa base che gli Usa potrebbero assestare la propria posizione dominante (con il sostegno tutt’altro che secondario di un solido primato militare).

FV - Ad unire USA ed Europa non sarebbe una semplice alleanza politico-militare, ma l’identità stessa di cultura. Ad unirli, è la "civiltà occidentale". Esiste davvero questa comune identità denominata Occidente?

MT - A mio parere, no. Esiste un’ampia letteratura europea, daTocqueville in poi, che documenta le notevoli differenze psicologiche e culturali fra gli Usa e il Vecchio Continente. Chi le nega pensa, semplicemente, che esse debbano scomparire per via di assimilazione al modello nordamericano. E’ una possibilità da non scartare, perché gli strumenti di addomesticamento dell’immaginario collettivo, oggi molto potenti, agiscono quasi all’unisono in questa direzione. Ma, a mio parere, un esito di questo tipo nuocerebbe gravemente al mondo nel suo insieme, sradicandone la pluralità costitutiva.

FV - Nonostante Huntington, comunque la politica estera non si esaurisce nello "scontro di civiltà". La storia insegna che confini in comune, economia , questioni strategiche, possono allontanare anche culture tra loro affini e creare, al contrario, alleanze tra diversi. USA e Europa, oggi, hanno interessi comuni o divergenti?

MT - Qui non si tratta di mettere in campo ipotesi. Bastano i fatti. Molti autori di formazione e opinioni assai diverse, da Alain de Benoist a Charles Kupchian, hanno dimostrato che i contenziosi fra Usa ed Europa sono rilevanti e in continua crescita. Tanto da autorizzare a supporre che l’attuale rapporto di alleanza transatlantica sia destinato a dissolversi in tempi non troppo lunghi.

FV - Lei ha più volte denunciato un clima pesante per i critici della politica statunitense (come anche di un suo alleato particolare, Israele), fatto di scomuniche, censure, falsificazioni, denigrazioni. Il tutto in nome dell’intangibilità dei "paladini della democrazia". Ci parla di questa paradossale censura liberale?

MT - Ne ho scritto e parlato così spesso che mi sembra ripetitivo entrare di nuovo nel tema. Chi volesse conoscere un mio argomentato parere sull’argomento, non ha che da leggersi il libro "Contro l’americanismo" che ho di recente pubblicato per Laterza. Basterebbe, comunque, seguire attentamente i quotidiani, i periodici e i programmi televisivi - compito duro, lo so, per chi non riesce a digerire più diuna certa dose di conformismo... - per verificare che questa censura è attivissima e agisce, ancor più che scomunicando i dissidenti, non dando loro la parola.

FV - Si parla sempre di antiamericanismo. Ma non esiste anche un antieuropeismo di marca USA, riaffiorato anche di recente con la dichiarazione sulla Vecchia Europa di Rumsfeld?

MT - Certamente. E non si limita alle parole. Opera nei fatti,quotidianamente. Emarginare l’Europa politicamente, militarmente e culturalmente è un obiettivo che gli Usa perseguono da sempre.

FV - Gore Vidal parla di corporate America, Michael Moore denuncia i legami tra governo Bush e potentati economici ... insomma, chi comanda nella più potente democrazia del mondo?

MT - L’intreccio fra politica e affari è particolarmente stretto negli Usa, ma non condivido l’opinione di chi vede le amministrazioni di Washington, inclusa quella di Bush jr., come meri comitati di affari al servizio delle multinazionali. L’influenza neoconservatrice ha obiettivi strettamente geopolitici. I politici nordamericani hanno interesse ad assicurarsi il sostegno dei grandi gruppi economici e a stipulare accordi favorevoli ad entrambi, ma sanno anche operare in proprio per raggiungere gli scopi che si prefiggono. L’egemonia planetaria in primo luogo.

FV - "Gli Stati Uniti ci hanno colonizzato l’anima" denunciava Wim Wenders. E, in effetti, più che con i carri armati, l’America si è imposta (mi riferisco all’Europa) diventando padrona del nostro immaginario. Secoli di cultura, le radici profonde, non ci hanno salvato. Eppure è tutto recente: ancora nella prima metà del ’900, è in Europa che nascevano le idee e le tendenze culturali, e potevamo guardare oltreoceano con distacco ed anche superiorità. Dov’è che ci siamo persi?

MT - Due guerre fratricide europee hanno fiaccato - con il loro carico di frustrazioni, dolori, diffidenze, voglie di vendetta - lo spirito di un intero continente. Non c’è da stupirsene. E se l’Europa vuole usciredall’impasse, deve abbandonare ogni tipo di conflittualità interna. Naturalmente, gli Usa cercheranno di impedirlo: la cinica tattica di divisione messa in atto prima e durante la guerra contro l’Iraq lo dimostra. A questo gioco non ci si deve prestare.

FV - I fautori dell’ineluttabilità del dominio culturale americano affermano che il primato culturale USA nasce dal fatto che tale società meglio rappresenta lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. E’ un processo così scontato, o accade invece il contrario: la modernità è questa perché è l’americanizzazione del mondo che avanza?

MT - Direi più precisamente: se la modernità evolve in questa direzione, è anche per effetto dell’americanizzazione. Molto conta anche il timore di chi potrebbe opporvisi con argomenti, suggestioni e intenti diversi.

FV - Un ruolo fondamentale nell’americanizzazione dei popoli è dato dalla prospettiva di ricchezza. L’american dream promette a tutti sviluppo, benessere materiale, beni di consumo in quantità. Ma è economicamente e soprattutto ambientalmente sostenibile tale promessa?

MT - No. Ed è evidente che gli stessi livelli raggiunti in questi ambiti da gran parte degli abitanti del "primo mondo" possono essere conservati solo mantenendo l’attuale divisione del lavoro internazionale, con le connesse enormi sperequazioni tra un’area geografica e l’altra. Già le delocalizzazioni produttive dettate dalle "leggi di mercato" in epoca di globalizzazione stanno comportando conseguenze economiche e sociali negative nei paesi industrializzati, incrementando i tassi di disoccupazione.

FV - Uno sguardo alla società USA. Consumistica all’estremo, violenta, competitiva, fortemente sperequativa. Non sorprende che un quarto dei suoi cittadini faccia uso di psicofarmaci. Ma non è la società che considera la felicità un diritto dei suoi cittadini?

MT - Sì, ma oggi la felicità è intesa dai più in senso prevalentemente, se non esclusivamente, materiale; o, per dire meglio, economico. La vecchia regola del "chi più ha più è" trova negli Stati Uniti d’America un’applicazione rigorosa. Il resto è derubricato alla voce "costi inevitabili" del successo individuale. Starà alla società di quel paese stabilire, nei fatti, quanti di quei costi sono tollerabili nel lungo periodo e quali no.

FV - Insomma, non è il "migliore dei mondi possibili"?

MT - La risposta è scontata quanto la domanda: no.

FV - Nonostante la cappa di conformismo pro-USA, sussistono in Italia ed in Europa ampie sacche di "dissidenza" antiamericana, dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per frange cattoliche e ambientalisti radicali. C’è del buono nelle loro critiche?

MT - C’è del buono e del meno buono. La parte costruttiva è quella che si esprime nelle analisi corrette dei dati di fatto - che sono più che sufficienti ad alimentare una netta critica dei fondamenti psicologici,c ulturali e politici dell’americanismo - e nelle iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che ne derivano. La parte controproducente è quella che si esprime in atteggiamenti pregiudiziali che in più di un caso confinano con un acritico fanatismo: è un vecchio, irrisolto e irresolubile problema di tutti gli ambienti affascinati dall’estremismo (che poco ha a che vedere con la coerenza delle proprie convinzioni. Anzi, è in questi contesti che spesso si verificano le più repentine "conversioni"). Fortunatamente, la prima componente mi pare nettamente prevalente sulla seconda nella pur dispersa galassia dei critici del ruolo che gli Usa esercitano oggi nel mondo.

FV - E Lei, che modello contrapporrebbe a quello americano?

MT - Nessuno, perché non apprezzo i confronti di idee fondati su modelli astratti. Ciò che conta è reagire alle storture che si hanno di fronte suggerendo i modi puntuali per correggerle. Ovviamente, questi dipendono dalla concezione più generale che si ha dell’ordine dellec ose, da una "visione del mondo". Ma la mia non aderisce ad alcuno dei prodotti in vendita nel catalogo delle ideologie contemporanee. Credo nella necessità di sintesi originali fra gli aspetti migliori dei vari filoni di pensiero che si sono contesi la scena del Novecento, e nella fecondità di aggiornamenti che li rendano capaci di interagire con le mutevoli condizioni imposte dalle circostanze.