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Il lato oscuro di Google

di Roberto Laghi - 29/03/2007

 



 

Spesso si analizza Google interpretando il suo ruolo di dispensatore di risposte come una sorta di oracolo per il mondo contemporaneo. Una prospettiva antropologica, con uno sguardo all'aspetto umano, alle aspettative che una persona ripone in una ricerca, alle attese e ai comportamenti che caratterizzano il nostro essere in rete.

Forse, quindi, è arrivato il momento di posare uno sguardo critico sul gigante di Mountain View, California, perché se è vero che il motore di ricerca ha enormemente facilitato la nostra capacità di trovare in mezzo a un numero enorme di informazioni quelle che ci servono ed è usato quotidianamente da milioni di persone, è anche vero che è fatto da macchine e uomini, che questi uomini fanno parte di un'impresa, che questa impresa ha interessi economici. Enormi.

È possibile che un'azienda il cui motto è “Don't be evil”, cioè “Non essere cattivo”, forse un poco lo sia? Che questo abbia a che fare con il fatto che l'azienda debba portare a casa profitti, anche perché quotata in borsa, forse è scontato, e non tanto per il fatto che per fare profitti bisogna necessariamente essere cattivi. Ci mancherebbe. Probabilmente la questione si pone più in termini di scarto tra l'immagine pubblica - bella, amichevole, semplice - e la struttura tecnologica che vi è sottesa e che rappresenta il vero punto di potere. E a cui noi, comuni mortali che quotidianamente la interroghiamo per le nostre ricerche, non abbiamo accesso.

Dubbi e domande su Google in rete girano già da tempo, basti pensare a un sito come Google Watch ( www.google-watch.org ): sotto varie voci presenta articoli critici riguardo al PageRank (l'algoritmo che Google utilizza per ordinare le pagine secondo una scala di autorevolezza), alla gestione delle informazioni degli utenti, a problematiche legate al copyright.

Qualche pensiero viene un po' a tutti i navigatori: negli ultimi anni Google non ha fatto altro che moltiplicare la propria offerta di strumenti di ricerca e di servizi diversi, dall'instant messaging alla mail, dalla chat alle chiamate vocali, dai programmi tipo Office utilizzabili direttamente online ai pacchetti software per le aziende...

Da poco è uscito un testo, prodotto da Ippolita ( www.ippolita.net ) e liberamente disponibile in rete (da aprile sarà in libreria per Feltrinelli) dal titolo estremamente chiaro: “Il lato oscuro di Google”.

Forse chi da anni frequenta quotidianamente la rete, con consapevolezza e curiosità, in questo testo non troverà informazioni nuove o sconcertanti né, tanto meno, considerazioni particolarmente innovative. Chi, invece, non sa come funzioni Google né è a conoscenza di ciò che ha creato in questi anni troverà sicuramente molti dati e molte analisi decisamente utili, almeno per mettercisi di fronte con occhio più critico.

In ogni caso, il pregio del libro sta ancora da un'altra parte: nello svelarci lo scarto tra l'immagine che Google propone e le azioni che mette in atto.

Gmail offre un servizio che nessun altro provider offre in fatto di posta elettronica? Vero, ma la quantità di dati che raccoglie sugli utenti è sterminata.

E tutte le ricerche che facciamo ogni giorno? Quante informazioni su di noi diamo senza nemmeno pensarci? La pubblicità che ci viene rimandata da Google, con gli annunci sponsorizzati, si avvicina sempre più a quello che cerchiamo? E, magari, una volta che abbiamo un profilo registrato su Google, negli uffici californiani sanno cosa noi mettiamo nella nostra homepage personale, con quante persone condividiamo il nostro calendario e magari anche quali libri andiamo a cercare in Google Book Search, il progetto di catalogazione di tutti i libri esistenti - almeno questa è l'idea di partenza - intrapreso dalla grande G qualche anno fa.

Il fatto è che anche l'affidabilità dei risultati delle ricerche si basa su un meccanismo non così trasparente: “un algoritmo di ricerca è uno strumento tecnico che attiva un meccanismo di marketing estremamente sottile: l'utente si fida del fatto che i risultati non siano filtrati e corrispondano alle preferenze di navigazione che la comunità di utenti genera. In sostanza, si propaga un meccanismo di fiducia nell'oggettività della tecnica (nello specifico, la procedura algoritmica che genera il risultato dell'interrogazione) che viene ritenuta 'buona' in quanto non influenzata dalle idiosincrasie e dalle preferenze di individui umani.”

E invece i filtri ci sono. E noi non ne conosciamo il funzionamento.

Così, “la base di dati di Google, attraverso alcune parole chiave, è in grado di ordinare i risultati di una ricerca ( query ) in maniera diversificata a seconda del tipo di utente che si trova a servire, ovvero in base ai dati relativi a quell'utente che sono in suo possesso. Lungi dall'essere risultati 'oggettivi', i risultati di ogni ricerca sono quindi calibrati; anzi, l'utilizzo dei servizi di ricerca affina le capacità del sistema di 'riconoscere' l'utente e servirgli risultati adeguati.”

E, nel testo di Ippolita, è lo stesso meccanismo del PageRank a essere messo sotto accusa, in quanto dà autorevolezza a una pagina web a seconda di quante altre pagine la linkano, ovvero della sua popolarità, che però non può essere ritenuta indice di qualità oggettiva, “perché in questo caso il concetto stesso di oggettività si fonda su un fraintendimento, ovvero sulla convinzione che molte idee soggettive (le 'opinioni' espresse sotto forma di link/voto) si trasformino per incanto nell'esatto opposto, in oggettiva verità rivelata, nel momento in cui superano un certo numero e diventano la maggioranza. (...) Si assume surrettiziamente che la mediazione tecnica dell'algoritmo sia garante di oggettività', e si associa all'oggettività la qualifica di 'buono', anzi di 'migliore', 'vero'. Il tutto dev'essere rapido anzi immediato, trasparente, grazie all'eliminazione del fattore tempo nella ricerca e allo studio ergonomico sull'interfaccia.”

I problemi che questo meccanismo pone non sono solo relativi alla privacy, che comunque viene costantemente erosa, ma anche al potere che sta nelle mani di chi detiene così tante informazioni e la tecnologia per manipolarle: non siamo di fronte al Panopticon, ma di certo tutti i dati personali che risiedono nel Googleplex (il cuore hardware di Google) farebbero gola a molti, moltissimi: aziende, ma anche governi.

Non bisogna del resto dimenticare che, per 'sbarcare' in Cina, Brin e Page – le menti di Google - non hanno esitato a fare accordi con il regime di Pechino per censurare una serie di contenuti dall'indicizzazione del motore di ricerca.

L'immagine che si ricava dalla lettura del libro è dunque di un Google che si presenta come 'amico', che si guadagna la fiducia di utenti e programmatori (le strizzatine d'occhio e gli appoggi al mondo dell'open source paiono a volte andare proprio in questa direzione), che allarga il numero di persone a cui offre i servizi, per poi utilizzare tutte le informazioni accumulate per rivendere pubblicità e per conquistare nuove fette di mercato, per offrire nuovi servizi.

Il rischio del monopolio nel controllo dell'informazione è grande, e pericolosissimo.

Agire, in rete (ma non solo) con più senso critico è ormai fondamentale per evitare di consegnare ogni informazione in mano a terzi, per essere in grado di gestire le proprie informazioni personali nella maniera migliore, decidendo quali lasciare alla sfera privata e quali affidare alla rete.

Altrimenti l'immaginario che ha guidato la nascita della rete rischia di essere ridotto a una serie di profili di utenti su cui puntare campagne di marketing e pubblicità, le nuove tecnologie tramutate banalmente a nuova frontiera del modello capitalistico: per evitare questa pericolosa deriva, è necessario un percorso di autoformazione, di alfabetizzazione digitale (un piccolo esempio pratico: per il browser Firefox sono disponibili estensioni che permettono di limitare la capacità invasiva di Google e di integrare i risultati con altri motori di ricerca), di educazione critica per poi costruire identità digitali complesse e capaci di muoversi all'interno di comunità.