Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Biomimesi, l’ingegneria di madre natura

Biomimesi, l’ingegneria di madre natura

di Stefano Gulmanelli - 18/06/2007

È la disciplina scientifica che studia le più geniali soluzioni dal regno animale e vegetale per replicarne disegni e processi in nuove soluzioni tecnologiche per l’industria e la ricerca. Parla la biologa Janine Benyus, una delle massime autorità del settore

 

«Ancor oggi incontro ingegneri che mi guardano e dicono: "Che cosa mai posso imparare da un polipo?". E invece più conosciamo queste specie "altre" e più restiamo ammirati da come esse abbiano risolto i loro problemi non solo non distruggendo l’ambiente ma al contrario conferendogli valore aggiunto»

 

«C'è un laboratorio di ricerca e sviluppo là fuori che da milioni di anni sperimenta ogni output prima di immetterlo nel mondo. Perché non siamo un po' più umili e facciamo tesoro di quello che ha da insegnarci?». Il laboratorio in questione è la Natura e a chieder conto della presunzione dell'Homo industrialis nei suoi confronti è Janine Benyus, biologa e soprattutto alfiere della cosiddetta Biomimicry, la disciplina scientifica che si propone di studiare le più geniali soluzioni adottate in natura per replicarne disegni e processi in nuove soluzioni tecnologiche per l'industria e la ricerca. Una strada che il crescente allarme sulle conseguenze delle scelte finora fatte lungo la strada dello sviluppo rende per molti aspetti obbligata.
Professoressa Benyus, nel suo libro «Biomimicry. L'innovazione ispirata dalla Natura» lei scrive che l'Uomo Industriale si sta accorgendo con sgomento di ciò che ha fatto - e tuttora fa - nel tentativo di darsi lo status di essere sviluppato. Davvero c'è tutta questa consapevolezza dei danni ambientali prodotti e in fieri?
«I comportamenti quotidiani della gran parte delle persone non lo lascerebbero presumere. Ma i segnali "biologici" che ciascuno di noi percepisce ci dicono che siamo sempre più "vulnerabili". Sono segnali di quello stesso tipo che hanno permesso all'uomo di sopravvivere quand'era cacciatore-raccoglitore, avvertendolo dei pericoli in arrivo così da consentirgli di fuggire. Segnali che solo da poco abbiamo imparato a ignorare, grazie al progresso tecnologico che "compensa" o gestisce pericoli che prima erano per noi mortali. Ma la nostra capacità biologica di fiutare il pericolo è rimasta e ora ogni cellula del nostro corpo è lì a segnalarci in modo sempre più pressante che c'è qualcosa che non va».
Vuol dire che inconsciamente avvertiamo la pericolosità della situazione ma non l'abbiamo ancora elaborata razionalmente?
«Qualcosa del genere. Ma la presa d'atto razionale difficilmente avverrà se alle persone non v iene proposta un'effettiva disponibilità di comportamenti e prodotti alternativi (ovvero sostenibili dal punto di vista bio-ambientale). Laddove questo è avvenuto - come nel campo dell'alimentazione con concetti come "il cibo organico", lo "slow food", i prodotti senza conservanti - la gente ha dato retta ai segnali di pericolo di cui si diceva. E ha scelto di conseguenza. Diamo opzioni di prodotti, processi e tecnologie alternative su vasta scala e vedremo i comportamenti cambiare su vasta scala».
Deve essere un'elite a fare il salto culturale e predisporre questa tipologia di scelta da "offrire" al resto della società?
«Certamente c'è un ruolo dei governi che devono saper - o voler - interpretare quei segnali nel modo giusto, elaborando politiche di conseguenza. Come c'è un ruolo per le aziende che devono iniziare a creare prodotti e linee di prodotti che vadano in questo senso. Ma non credo che un tale cambio di paradigma culturale possa essere imposto solo dall'alto. Molto lo farà il buon senso della gente. Vede, quando ci si rende conto che sulle coste della Florida continuano ad arrivare uragani di categoria 5 come mai in passato, la gente inizia a pensare che forse la cosa ha a che fare con il "global warming". E magari qualcuno decide di tenerne conto quando va ad acquistare la prossima macchina. Accade già ora».
C'è però una categoria che lei ritiene decisiva per questo salto di livello culturale: quella dei designer. Non a caso lei è qui a Torino perché ha accettato di essere nel comitato scientifico del Master di "Design di Sistemi" del locale Politecnico…
«Effettivamente è sulle spalle dei designer che grava l'onere di creare le premesse per la nuova consapevolezza. Sono loro che devono immaginarsi nuove tipologie di prodotti, di sistemi, di network di trasporto. In altre parole sono loro a doversi re-immaginare un mondo più sostenibile e concretamente praticabile».
L'uomo è diventato ciò che è (specie dominante nel pianeta) perché è riuscito a do minare e interferire sull'ambiente. Come si trova un equilibrio fra ciò che è nella natura dell'uomo (la spinta a plasmare l'ambiente secondo le proprie esigenze) e l'umiltà necessaria perché - come dice lei - riconosca che la Natura è la migliore fonte di ispirazione possibile nella ricerca di soluzioni ai problemi dell'uomo?
«Facciamo un passo indietro. Per un tempo lunghissimo della nostra storia sul pianeta siamo stati nella terribile condizione di "preda" (anche in senso letterale) della Natura. Quasi tutta la tecnologia sviluppata dall'uomo ha avuto lo scopo di lenire quelle paure e ovviare a quella condizione. Quindi possiamo ben dire che se l'uomo ha voluto "dominare" la Natura, lo ha fatto per cercare di rendere la propria vita più stabile e meno alla mercé di qualsivoglia germe, tempesta o penuria alimentare».
Solo che abbiamo finito con l'esagerare…
«Esatto. Ora siamo garantiti dalla Natura ma minacciati dai nostri stessi veleni. Dall'emergenza che subivamo per mano della Natura siamo passati all'emergenza creata da noi stessi. A nostra parziale scusante c'è il fatto che siamo la specie più giovane in Natura e solo ora stiamo capendo che dobbiamo creare una "nuova" relazione con l'ambiente. Non da dominati ma neanche da dominatori. A modello per una relazione sostenibile possiamo certamente prendere tutto ciò che nella biosfera è stato testato e sperimentato da lunghissimo tempo. Certo, ci vuole un certo bagno di umiltà per accettare che un microrganismo - sia come individuo che come gruppo - possa insegnarci qualcosa. Ancor oggi incontro ingegneri che mi guardano e dicono: "Che cosa mai posso imparare da un polipo?". E invece più conosciamo queste specie "altre" e più restiamo ammirati da come queste abbiano risolto i loro problemi non solo non distruggendo l'ambiente ma al contrario conferendogli valore aggiunto. Forse la nostra specie che, lo ribadisco, è l'ultima arrivata sulla Terra, sta "semplicemente" maturando».