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Sistema dell'informazione e scontro di civiltà

di Alain De Benoist - 09/09/2005

Fonte: Alain de Benoist

Per parlare dei mezzi di informazione, bisogna cominciare col ricordare alcune banalità. Le tecniche di comunicazione hanno conosciuto, nel corso di questi ultimi anni, uno sviluppo straordinario: cablaggio, uso dei satelliti, televisione ad alta definizione, espansione delle telematica, diffusione di Internet ecc.Grazie a queste nuove tecnologie, viviamo ormai nell’era della globalità istantanea, vale a dire della possibilità non solo di una diffusione o di una ritrasmissione, ma anche di un’interazione immediata, a livello sia finanziario e borsistico che politico-massmediale.

Questa globalizzazione massmediale si esprime in cifre di un ordine di grandezza mai visto sinora. Nello spazio di poche settimane, un film di grande spettacolarità, come Titanic o Guerre stellari, può essere visto da decine, se non da centinaia, di milioni di individui nel mondo. L’ultima Coppa del mondo di calcio è stata vista da due miliardi di telespettatori. «Con l’avvento del numerico e del multimediale», ha notato Ignacio Ramonet, «il sistema è in grado di diffondere lo stesso messaggio continuativamente e in diretta all’insieme del pianeta». Già da sola questa affermazione permette di misurare lo straordinario potere dei media, e la debolezza dei mezzi che si potrebbe opporre ad essi. I mezzi di informazione possono screditare o elevare alle stelle in un istante su scala planetaria. Possono decidere quali idee bisogna accettare e quali respingere, quali prodotti bisogna acquistare, quali spettacoli bisogna andare a vedere. Non è esagerato dire che un simile potere va largamente al di là delle capacità di propaganda di cui hanno potuto disporre in passato i regimi totalitari e che apre delle possibilità di propaganda o di condizionamento che Goebbels o Stalin non avrebbero neanche immaginato.

Questa esplosione tecnologica mette in gioco anche formidabili interessi economici e finanziari, proporzionali ai mercati presi di mira e agli investimenti necessari per raggiungerli. Le industrie dell’informazione continuano ad aumentare i bilanci pubblicitari e promozionali. I prodotti derivati da un film spesso fanno incassare più del film stesso. Il lancio di un disco di musica leggera costa spesso più caro della sua produzione. A forza di acquisti e fusioni, si stanno costituendo dei semimonopoli planetari. L’acquisto del gruppo Time Warner, che stava per fondersi con Emi, da parte di Aol (America Online), primo fornitore mondiale di accessi a Internet, ha fatto nascere un mostro che totalizza oltre cento milioni di abbonati e qualcosa come 261 miliardi di dollari di capitalizzazione borsistica. L’operazione di acquisto è stata valutata 350 miliardi di dollari.

Régis Debray ha mostrato in modo molto efficace come l’umanità sia passata, nel corso della sua storia, attraverso tre diverse "mediasfere": prima dalla logosfera (scrittura) alla grafosfera (stampa), poi dalla grafosfera alla videosfera (audiovisivi). A ciascuna di queste mediasfere corrisponde un medium dominante e a ciascun medium dominante corrisponde una certa modalità di organizzazione e funzionamento della classe amministrativa, una certa tecnica di trasmissione, un certo tipo di dominio politico e simbolico. All’interno di una mediasfera, il medium dominante è sempre quello che garantisce il miglior rapporto fra costo ed efficacia. Oggigiorno, il mezzo di comunicazione dominante è con ogni evidenza la televisione.

Nessun elettrodomestico si è diffuso più rapidamente e più massicciamente della televisione. Oggi la si trova praticamente in tutte le case, anche le più misere. A tal punto che la sua assenza sconcerta e suscita interrogativi: chi non possiede la televisione appare nel migliore dei casi un tipo bizzarro, nel peggiore un avversario del progresso. Nella maggior parte delle case, la televisione troneggia nella stanza principale, la cui disposizione

«si fa in funzione dell’apparecchio, e non per formare una cerchia conviviale».

L’appartamento si trova così ad essere centrato attorno alla televisione, sorgente luminosa dispensatrice di immagini la cui apparizione mette spesso fine alle conversazioni. Parecchie persone accendono meccanicamente il televisore, così come si fa scorrere l’acqua in un rubinetto, o la lasciano costantemente accesa, a volte in varie stanze contemporaneamente. Un’inchiesta ufficiale ha dimostrato già nel 1990 che essa è

«così integrata nella quotidianità che il fatto di accenderla non sembra costituire, nella maggioranza dei nuclei familiari, una decisione corrispondente a una vera e propria scelta».

In più del 60% delle case, essa è in funzione durante le ore dei pasti. La maggioranza dei telespettatori non guarda peraltro un programma particolare. Guarda la televisione, che di conseguenza non è più un mezzo per captare una trasmissione, bensì l’oggetto stesso dello spettacolo.

Guardare la televisione costituisce oggi, per gli occidentali, la terza attività principale, dopo l’esercizio di un’attività professionale e il sonno. Vi si passano in media tre ore in Francia, quattro ore negli Stati Uniti: molte più che a nutrirsi, ad uscire o a fare l’amore. Il condizionamento inizia sin dall’infanzia, favorendo l’appetenza allo schermo. Prima ancora di saper leggere, un bambino ha passato migliaia di ore davanti alla televisione. Sin dall’età di due anni sa accendere l’apparecchio, la cui luminosità lo affascina: i genitori sanno bene che

«la televisione è l’unica cosa che immobilizza il bambino, persona molto attiva in altre circostanze».

Le cose non sono affatto diverse in età adulta. Il telegiornale delle 20 raccoglie in Francia molta più gente di tutti i quotidiani del mattino e della sera messi insieme. Si stima inoltre che circa il 70% dei Francesi, ovvero i due terzi della popolazione, abbiano come unica fonte di informazione la televisione.

La televisione ha conosciuto un’evoluzione tecnologica rapida. Lo sviluppo delle tecniche video, la messa a punto di telecamere portatili e numeriche e la ritrasmissione via satellite le hanno conferito una mobilità che le consente di essere onnipresente. Essendo il mezzo di comunicazione dominante, imprime il proprio segno sugli altri media. Lo si constata dal modo in cui l’informazione viene trattata nella stampa scritta. Il contagio dell’audiovisivo vi si nota per lo spazio crescente assegnato all’immagine, la leggerezza dell’impaginazione, il tono umoristico o altisonante dei titoli, la brevità e la superficialità degli articoli, la moltiplicazione degli aneddoti, il ricorso all’emozione e, beninteso, il conformismo. Per sopravvivere, tutti i media devono adeguarsi alle norme e ai modi di fare del piccolo schermo. La dimensione dei supplementi dedicati alla televisione dai giornali aumenta di continuo. I giornalisti della carta stampata godono di una vera notorietà solo quando partecipano a trasmissioni televisive. Gli editori e i librai devono ormai fare i conti con le prospettive di edizione numerica smaterializzata. Lo stesso cinema viene sempre più spesso concepito in funzione dello sfruttamento in televisione, mentre lo sviluppo di Internet (che in Francia conta già su circa 6 milioni di abbonati, un numero pari a quello degli acquirenti di quotidiani) lascia prevedere la cyberdistribuzione di taluni lungometraggi.

Il piccolo schermo, come è noto, è diventato anche l’elemento centrale della vita politica. Il futuro di un uomo politico dipende dalla sua notorietà e la sua notorietà dipende dai mezzi di comunicazione, il che significa che si confonde con la sua visibilità. Gli uomini politici sono dunque tenuti ad adattarsi alle esigenze della televisione. È in base alle sue regole che devono imparare a "comunicare", a dosare le "frasi ad effetto" e gli effetti da annuncio, a correre dietro all’ascolto che viene loro concesso da chi contabilizza immediatamente il punteggio che hanno ottenuto, a rispondere alle domande dei giornalisti che tengono nei loro confronti un comportamento sistematicamente irrispettoso, che non è il segno della loro indipendenza ma il rivelatore del loro disprezzo. Non ci sono mai tanti deputati presenti in parlamento come il giorno in cui i dibattiti vengono filmati. L’importante è farsi vedere. La televisione, in altri termini, è diventata, come ha scritto Pierre Bourdieu, «l’arbitro dell’accesso all’esistenza sociale e politica».

Questa influenza dei media sulla vita politica è a senso unico. Ciò significa che la politica dipende dall’elemento massmediale, che invece non dipende dalla politica. In passato, l’autorità politica si era sempre dedicata al controllo degli strumenti d’informazione. Quell’epoca è terminata. L’introduzione della pubblicità, la privatizzazione, l’invasione delle reti diffuse via cavo o via satellite impediscono allo Stato di esercitare la benché minima tutela sugli audiovisivi. Alexandre Zinoviev, ad avviso del quale i media esprimono «la quintessenza della vita sociale in tutte le manifestazioni della sua soggettività», afferma del tutto giustamente che essi sono «diventati un surrogato di Stato per la vita non statale della società». La relazione fra la politica e la medialità non può quindi essere ridotta all’emancipazione della seconda dalla prima. L’autorità ha semplicemente cambiato senso. Ci si accorge di ciò constatando quanto ha in sé di anacronistico l’espressione "quarto potere", spesso utilizzata per definire la stampa . Così come l’economia si è prima affermata come un contropotere nei confronti della politica e poi si è issata in posizione di egemonia, i mezzi di comunicazione hanno smesso da un pezzo di essere un contropotere. Il "quarto potere" è diventato il primo e non esiste più nessun contropotere che riesca a contenerlo.

Esistono vari modi di esaminare il sistema massmediale. Il primo livello consiste nello studiarlo come uno strumento di propaganda o di disinformazione. Gli esempi non mancano. Ricordiamo i cadaveri dell’obitorio di Timisoara trasformanti in figuranti della rivoluzione rumena. Ricordiamo le frottole della guerra del Golfo e, durante la guerra contro la Serbia, massacri ribattezzati "danni collaterali" e bombardamenti di edifici civili definiti "strategici"10 . Non insisterò tuttavia su questo punto, su cui si sono già espressi in molti. Né tratterò la questione della censura e del linciaggio massmediale, di cui mi sono già occupato in un precedente convegno11 .

Un secondo modo di analizzare il sistema dei media consiste nel considerarli uno strumento di controllo sociale, uno strumento per il «mantenimento dell’ordine simbolico» (Pierre Bourdieu), cioè uno strumento tramite il quale il sistema dominante si assicura la conformità del comportamento dei suoi membri. La tecnica, in effetti, non è mai neutra. Le caratteristiche tecniche degli organi di comunicazione ne definiscono non solo lo stile e il contenuto, ma anche le condizioni di esercizio dell’egemonia. Come scrive Régis Debray,

«la correlazione medium dominante/pensiero egemone si esplica, a ciascuno stadio dello sviluppo tecnico, tramite la corrispondenza esistente fra la tecnologia culturale e la tecnologia politica di una società»12 .

È banale constatare che i media sono diventati formidabili strumenti per formare e conformare gli individui: già nei primi anni Settanta, Jean Baudrillard poteva scrivere che

«la televisione è, con la sua presenza, il controllo sociale a casa propria»13 .

Da molto tempo si è infatti fatto notare quanto la televisione tende a far scomparire i contatti sociali e le relazioni di scambio, quanto pone i telespettatori nella posizione dei consumatori passivi, isolati gli uni dagli altri, senza una forte vita di relazione. La televisione ha ampiamente contribuito al processo di ripiegamento su se stessi di cui siamo, da due decenni, spettatori. Invece di uscire, di andare al cinema o a teatro, di incontrare gli amici, si guarda la televisione.

«Il trionfo del liberalismo, e i suoi effetti sulla collocazione e sul ruolo dell’individuo nella società, spiegano questo ripiegamento sulla sfera privata. Gli effetti di questi processi di frantumazione hanno ridotto i legami sociali, che si tessono ormai solo nel contesto lavorativo e, con l’emergere della produzione postfordista, scompaiono del tutto»14 .

La televisione spinge ad isolarsi e nel contempo soddisfa un bisogno di evasione stimolato dal crescente isolamento. In questa cultura di evasione, che è anche una cultura di distrazione nel senso etimologico del termine, c’è chi ha visto un «nuovo oppio del popolo che si incarica di far dimenticare la miseria e la monotonia della vita quotidiana» (Gilles Lipovetsky). Si consuma a mo’ di spettacolo ciò che la vita reale rifiuta: il sesso, il lusso, l’avventura, il viaggio ecc. Ma per acquisire questa distrazione bisogna pagare il prezzo di una sorta di anestesia, che nasce dall’impressione di avere il mondo in casa, di poter andare dappertutto senza muovere un dito, di poter essere al corrente di tutto senza aver bisogno di un’esperienza vissuta.

L’immaginario proposto dalla televisione è inoltre nel contempo imposto e stereotipato. Lo spettatore non è più libero di crearsi le immagini che vuole; si lascia invadere da quelle che gli vengono proposte e che non lasciano più spazio ad altre. Infine, questo flusso costante di immagini svolge un ruolo determinante nel processo di disaffezione verso i grandi sistemi di significato. Dissolve le convinzioni, rende gli individui permeabili, labili, pronti ad abbandonare ogni sistema di riferimento. Il legame che unisce il telespettatore allo schermo è di natura ipnotica. Se il programma non gli va a genio, il telespettatore non spegne l’apparecchio ma salta da una rete all’altra fino a quando non trova un programma che non ha mai avuto intenzione di guardare ma che ne attira maggiormente l’attenzione. La televisione finisce così per guardare coloro che la guardano. Non è più il telespettatore a far funzionare l’apparecchio, ma è la televisione a modellarne il comportamento nel senso dell’adesione passiva. Continuando ad ampliare la sfera dell’espropriazione del soggetto, la televisione agisce dunque come un potente strumento di integrazione nel sistema esistente. In 1984 di George Orwell, tutti hanno un apparecchio televisivo, ma a nessuno è consentito spegnerlo e nessuno può sapere in che momento l’organismo di diffusione se ne serve come telecamera. Nell’insieme, questo sistema richiama irresistibilmente il Panopticon di Jeremy Bentham, di cui Michel Foucault ha effettuato una brillante analisi in quanto metafora del ridispiegamento dei poteri moderni nella direzione della sorveglianza generalizzata. All’origine, il Panopticon è un sistema "panottico" che consente ai guardiani di una prigione di far sì che niente, nel comportamento dei prigionieri, possa sfuggire loro. La sua funzione essenziale è di interiorizzare in loro la chiara consapevolezza di non avere alcun modo per sfuggire allo sguardo onnipresente dei superiori15 . Fra questo sistema e la televisione vi è più di un’affinità.

L’avvento di Internet può modificare questa situazione? All’inizio, Internet è stato presentato come uno spazio di libertà totale e nel contempo come un prodigioso strumento di creatività interattiva, che si pensava avrebbe trasformato i telespettatori passivi in attivi cooperanti. Ciò è vero solo a metà. Oggi constatiamo che, al di là degli evidenti vantaggi, la "rete" è piuttosto uno spazio che offre nuove possibilità di sorveglianza totale, e che

«la principale sfida che incontra questo tipo di rete è quella dell’insignificanza dei messaggi che vi transitano, per mancanza di differenziazione e di gerarchia fra di essi»16 .

Per più di un verso, Internet offre soprattutto la possibilità di una logorrea planetaria a persone sempre più indaffarate a comunicare fra loro benché fondamentalmente non abbiano niente da dirsi.

Vi è infine un terzo modo di studiare i media oggi dominanti, che consiste nel trattare del sistema mediale in quanto sistema, indipendentemente dall’uso che ne fanno i promotori. È senza dubbio quello più ricco di insegnamenti. Un approccio di questo tipo è tanto più necessario in quanto il passaggio dalla grafosfera alla videosfera ha comportato un inedito salto qualitativo. L’errore classico consiste, in questo caso, nel ritenere che un tipo di mezzi di comunicazione ne abbia semplicemente sostituito un altro. In altri tempi, un gruppo sociale esercitava egemonia sulla vita pubblica controllando i mezzi di informazione o di comunicazione e utilizzandoli per diffondere i propri messaggi. Ciò può ancora accadere, beninteso; ma ormai la sostanza del problema è altrove. La novità radicale della videosfera è che il medium dominante, nella fattispecie l’audiovisivo, non è più un mezzo ma tende a porsi come fine di se stesso. In altri termini, i media – a dispetto del nome che si continua a dar loro – non sono più, fondamentalmente, intermediari fra gli autori di un messaggio e i suoi destinatari. Come aveva genialmente notato Marshall MacLuhan, sono essi stessi il messaggio. I media non sono più istanze mediatrici, che permettono di passare da un livello all’altro, da uno stato del sociale ad un altro. Sono essi stessi il proprio contenuto: la notizia non è altro che il portatore di notizie.

È vero che i media contribuiscono a modellare le opinioni, i sentimenti e i gusti, e che da questo punto di vista sono uno straordinario strumento di influenza. Ma l’influenza più notevole che esercitano proviene non da quello che trasmettono, bensì dalla loro stessa esistenza. I mezzi di informazione non incitano a pensare qualcosa, incitano a pensare attraverso i media. «Il medium fa evento da solo», ha potuto affermare Jean Baudrillard, «e ciò quali che ne siano i contenuti, conformisti o sovversivi»17 . Spingendosi ancora oltre, Régis Debray parla a ragion veduta di «padronanza del medium sui suoi padroni, o della macchina sui suoi meccanici».

«Una mediasfera», scrive, «è un trascendentale tecnico e fissa a priori le condizioni del significato e dell’evento a chiunque voglia servirsene […] Il manipolatore dei media è il primo ad esserne manipolato, perché il macchinario veicola la propria visione del mondo – che è indipendente dai partiti e si impone ad essi»18 .

È la constatazione a cui addiviene anche Alexandre Zinoviev, quando scrive:

«Tutti coloro che si considerano loro dirigenti o manipolatori devono conformarsi a loro volta ai criteri che permettono loro di dirigere e di manipolare i media […] I media sono la divinità senza volto della società occidentale, venerata persino da chi crede di esserne direttore e padrone»19 .

Da questo punto di vista, contrariamente a quel che scrive Pierre Bourdieu, è una discussione inutile quella che mira a capire da che parte stiano i media, con il potere oppure con le masse. I media, dice ancora Baudrillard,

«non stanno dalla parte di nessun potere perché sono una gigantesca forza di neutralizzazione, di annullamento del senso, e non una forza di informazione positiva, di accrescimento del senso. Neutralizzano sia le forze storiche sia le forze del potere, che diventa di conseguenza trasparente e fluttuante»20 .

Per questo sarebbe ingenuo e nel contempo anacronistico analizzare l’influenza massmediale in termini di "complotto", cercando di identificarne i "veri padroni" o i "direttori d’orchestra clandestini". I mezzi di informazioni sono padroni di se stessi, e coloro che credono di dirigerli sono di fatto diretti da essi. La "mano invisibile" dei media sono i media. L’unanimismo massmediale non deriva da una deliberata volontà di applicare ovunque le stesse direttive, ma dalla natura sistemica, intrinsecamente omogeneizzante, del potere massmediale. I mezzi di comunicazione funzionano nei fatti come se ricevessero istruzioni da una qualche centrale, ma non esiste un centro dei media. Come nel caso di Internet, dei mercati finanziari, delle reti planetarie, la loro circonferenza è dappertutto e il centro da nessuna parte. Il discorso massmediale è prima di tutto un discorso anonimo, perché non ha un’origine reperibile. Il sistema dei media è un operatore circolare perfetto.

Il mezzo essendo già in sé il messaggio, non ci si può dunque limitare a criticare le idee che veicola o che si suppone veicoli. Questa critica deve estendersi agli organi di trasmissione, vale a dire al sistema che essi costituiscono.

La prima osservazione che si è portati a fare è ovviamente che il sistema massmediale è prima di tutto una enorme macchina economica e finanziaria, e in quanto tale un vettore essenziale dell’ideologia economicista. L’universo della comunicazione mobilita, lo sappiamo, somme di denaro sempre più considerevoli. Se ci si riflette un istante, ci si rende conto che in ciò vi è qualcosa di molto naturale. In quanto equivalente astratto universale, il denaro è infatti l’agente di comunicazione per eccellenza. Come Karl Marx aveva constatato sin dal 1984, è nella sua natura attraversare le frontiere e facilitare lo scambio, riconducendone i termini alla sola dimensione contabile. Scrive Georges Balandier:

«Il denaro esprime l’essenza delle società in cui quasi tutto può essere tradotto in termini di merce; inoltre informa in un universo sociale e culturale in cui l’informazione è l’energia indispensabile ad attività sempre più numerose, e designa il rapporto scambista per eccellenza in un mondo che è quello della comunicazione, della moltiplicazione rapida e dell’intensificazione degli scambi di qualunque natura»21 .

La logica interna dei media è la logica del mercato. È una caratteristica ovviamente ben lontana dall’essere esclusiva, ma su di essi ha conseguenze particolari. Un tempo il valore dell’informazione dipendeva, almeno in parte, dal suo valore di verità. Oggi,

«il prezzo di un’informazione dipende dalla domanda, dall’interesse che suscita. Quel che conta è la vendita»22 .

In altre parole, l’informazione è diventata una merce come le altre. E come tutte le merci vale unicamente nella misura in cui si può vendere e acquistare. Ancora mezzo secolo fa, il successo commerciale immediato era sospetto, tanto più sospetto in quanto le elevate creazioni culturali facevano sempre fatica ad imporsi, e ci riuscivano solo opponendosi alla logica del mercato. Oggi accade il contrario. Il successo commerciale immediato è l’obiettivo che prevale su tutti gli altri e che determina la qualità. Non è quel che è buono a vendersi meglio, ma è quel che si vende bene ad essere considerato buono, e tanto migliore quanto meglio si vende.

È più facile capire, tenendo conto di queste condizioni, il ruolo centrale assegnato alla pubblicità. Essa non si limita ad assicurare introiti finanziari senza i quali la maggior parte dei media sarebbero deficitari, ma costituisce anche il modello del messaggio massmediale. Da un lato crea degli automatismi a livello di idee, grazie a concatenamenti di associazioni che sfuggono al controllo dell’attenzione. Dall’altro instaura e stimola fin dall’infanzia un desiderio imitativo orientato verso l’acquisizione di beni materiali (non dimentichiamo che a 12 anni un bambino ha già visto in media 100mila messaggi pubblicitari). Questa seconda funzione è ovviamente la più importante. La pubblicità non è solamente il vettore di un incitamento all’acquisto. Globalmente, serve prima di tutto ad alimentare l’idea che la felicità, ragion d’essere della presenza nel mondo, si riduca o si confonda con il consumo. Essa non mira tanto a valorizzare un particolare prodotto, quanto a valorizzare l’atto dell’acquisto nella sua generalità, vale a dire il sistema dei prodotti. La pubblicità incarna il linguaggio della merce, che sta diventando il paradigma di tutti i linguaggi sociali23 .

Dal momento che l’informazione migliore è quella che si vende meglio, la strategia massmediale si concentra sulla corsa all’ascolto, che, lanciata dalla televisione con l’auditel, si è estesa a poco a poco alla stampa, all’editoria e al cinema. L’argomento pubblicitario più classico è quindi quello del numero di consumatori attratti da un prodotto. Il fatto che milioni di persone siano andate a vedere lo stesso film diventa la prova che è un buon film. È il procedimento che è stato definito "intimidazione maggioritaria". Nel contempo, l’etichetta "visto in televisione" diventa di per sé un argomento di vendita: se è passato in televisione, deve per forza essere buono. Si noti che anche in questo caso un siffatto principio si pone in antagonismo con la cultura, nella misura in cui, per definizione, i beni culturali non trovano necessariamente rispondenza in un’ampia domanda immediata.

Chi afferma che niente è più democratico dell’auditel, beninteso, vuol farsi gioco degli altri. L’auditel consente non di misurare quel che la gente vuole, bensì di capire fino a che punto essa ha interiorizzato quel che la si è abituata a volere; il che non è la stessa cosa. Alla gente piace quel che gli vien fatto piacere. In questo ambito come in altri, è l’offerta a determinare la domanda, e non l’inverso.

Ha scritto Pierre Bourdieu:

«L’auditel è la sanzione del mercato, dell’economia, cioè di una legalità esterna e puramente commerciale, e la sottomissione alle esigenze di questo strumento di marketing è l’esatto equivalente in materia di cultura della demagogia orientata dai sondaggi di opinione in materia di politica. La televisione governata dall’auditel contribuisce a far pesare sul presunto consumatore libero e illuminato le costrizioni del mercato, che non hanno niente a che vedere con l’espressione democratica di un’opinione collettiva illuminata»24 .

Lo scopo del messaggio televisivo è raggiungere "tutti", senza interrogarsi sulla natura di ciò che può raggiungere tutti o chiedersi se tutto possa essere visto o sentito da tutti. Il fatto è che per toccare tutti bisogna innanzitutto abbassare il livello e, soprattutto, non scioccare nessuno, cioè non andare contro lo spirito del tempo. Ne risulta uno straordinario rafforzamento simbolico di tale spirito del tempo, ovvero, per dirla più chiara, dell’ideologia dominante.

Il messaggio che raggiunge tutti corrisponde a quello che Pierre Bourdieu chiama il fatto "omnibus":

«I fatti omnibus sono fatti che, come si usa dire, non devono scioccare nessuno, che non implicano alcuna posta in gioco, che non dividono, che creano un consenso generalizzato, che interessano tutti, ma in modo tale da non toccare niente d’importante»25 .

Fatti di questo genere sono il più delle volte futili o meramente spettacolari. Il loro accumularsi ha l’effetto

«di fare il vuoto politico, di spoliticizzare e di ridurre la vita del mondo all’aneddoto o al pettegolezzo […] fissando l’attenzione su avvenimenti privi di conseguenze politiche, che si drammatizzano per "trarne delle lezioni" o per trasformarli in "problemi sociali"»26.

Negli Stati Uniti, le principali reti televisive dedicano perciò soltanto il 5% del tempo alle notizie dall’estero. Nel 1998, i media statunitensi hanno dedicato più tempo e spazio alle avventure della signorina Lewinsky che a tutte le questioni di politica estera dell’anno. L’universalizzazione di messaggi di questo genere è collegata a una strategia entropica. Ogni discorso non conformista si trova così ad essere emarginato, e la critica è ammessa solamente sotto forma di derisione satirica.

Il concetto di "consenso generale" svolge qui un notevole ruolo. Questo concetto, che i sociologi hanno sempre fatto una grande fatica a definire (non è né una categoria politica, né una categoria giuridica, né una categoria morale), comprende sia l’ideologia dominante, sia tutto ciò che non si può mettere pubblicamente in discussione a meno di non voler passare per pericolosi sovversivi. Il fatto che la ricerca del "consenso generale" la si ritrovi anche in ambito politico, sebbene essa si ponga in assoluto antagonismo rispetto alla democrazia, che presuppone lo scontro pacificato tra opzioni nettamente differenziate, è rivelatore. Da ciò discende questa osservazione di Jean Baudrillard:

«Il consenso generale come grado zero della democrazia e l’informazione come grado zero dell’opinione sono in totale affinità: il Nuovo Ordine Mondiale sarà nel contempo consensuale e televisivo»27 .

In campo politico come in campo massmediale, la ricerca del "consenso generale" sfocia nello stesso risultato: l’indifferenziazione. In quella che è stata chiamata la democrazia di opinione, vale a dire la democrazia modellata dai sondaggi, i programmi dei partiti riconvertiti al centro si assomigliano a tal punto da diventare indistinguibili nei punti essenziali. Lo stesso accade con i giornali o con i programmi televisivi: un articolo pubblicato su un grande giornale potrebbe comparire su qualunque altro grande giornale, una trasmissione diffusa su una rete potrebbe essere programmata da qualunque altra rete. Gli stessi giornalisti passano senza preoccupazioni da un mezzo di informazione ad un altro. Gli uomini e i contenuti sono diventati interscambiabili.

I teorici liberali hanno sempre affermato che la concorrenza favorisce la qualità e la diversità. Ma vediamo tutti i giorni che essa ha effetti diametralmente opposti. La concorrenza non solo provoca la concentrazione del mercato, che ricrea monopoli e oligopoli, e all’abbassamento di livello che è reso obbligatorio dalla corsa all’ascolto; comporta anche l’uniformità dell’offerta a causa del generalizzarsi della rivalità imitativa. Il principio stesso di concorrenza obbliga ciascun medium a fare come tutti gli altri media, a trattare gli stessi temi o parlare degli stessi libri di cui gli altri parlano.

«Questa sorta di gioco di specchi che si riflettono a vicenda produce un formidabile effetto di chiusura, di isolamento mentale»28 .

Il "pluralismo" si riduce perciò alla moltiplicazione di un unico modello. Mai la televisione è stata più monotona come lo è da quando si può "scegliere" fra varie centinaia di canali. Perché la scelta è solo apparente: quello che viene definito "pluralismo" dei media non è altro che concorrenza pilotata dalle costrizioni del mercato. Come scrive Joël Roman,

«il pluralismo delle opinioni struttura il campo in maniera centrifuga, tendendo a far divergere le opinioni, a sottolineare più nettamente gli spigoli, mentre la concorrenza lo struttura in maniera centripeta, costringendo ciascuno ad imitare l’altro al fine di ottenere il più grande numero possibile di quote di mercato»29 .

La concorrenza, per sua stessa natura, riduce gli stili e i contenuti a stereotipi. Per questo i grandi media dicono tutti più o meno la stessa cosa, limitando nel contempo i temi di cui si ha il diritto di parlare30 .

L’omogeneizzazione del discorso massmediale è ulteriormente rafforzata, al livello degli uomini, dalla straordinaria connivenza fra i giornalisti, i direttori di giornali, i commentatori televisivi e gli uomini di potere, connivenza che favorisce l’autocensura, fa sì che gli interlocutori non si affrontino più in maniera rispettosa e rafforza una complicità oggettiva fondata su una comune appartenenza alla Nuova Classe e, soprattutto, su interessi comuni3. Ogni mezzo di informazione è tenuto, in virtù delle proprie determinazioni, a privilegiare una visione del mondo, e quindi un’ideologia sociale. Dato che la televisione è il medium dominante, ne risulta che la sua visione del mondo si impone a sua volta come la visione dominante. Ma non va dimenticato che l’informazione non è mai data in maniera grezza; è sempre prodotta, costruita, il che implica una scelta inevitabile, ancorché raramente confessata32. I giornalisti selezionano, consapevolmente o inconsapevolmente, le informazioni a seconda del fatto che corrispondano oppure no alla loro griglia, cioè alla visione del mondo che viene loro imposta dai media. Ciò spiega l’assoluta mancanza di curiosità che dimostrano nei confronti di tutto quello che considerano "fuori campo". Allo stesso modo, in televisione, il telespettatore non assiste mai ad un evento, contrariamente a ciò che crede, bensì a una rappresentazione di un evento, a una trasposizione in immagini, cioè a una messinscena, che implica sempre una selezione e un montaggio. L’informazione, si potrebbe dire, si è esaurita nella messinscena dell’evento, ovvero, in definitiva, nella simulazione.

Un avvenimento, del resto, esiste solamente nella misura in cui viene mostrato in televisione. Un avvenimento del quale i media non parlano è (come) un avvenimento che non si è verificato. Ma non appena un avvenimento è oggetto di un resoconto, di un’ostensione massmediale, può anche trasformarsi in un evento di un altro genere, un evento situato in un metalivello. I media, che pretendono di essere tutti in grado di fornire grandi prestazioni, in realtà sono assai spesso "performativi", cioè creano l’avvenimento più di quanto non ne rendano conto, oppure ne rendono conto in maniera tale da (ri)crearlo. Un avvenimento può pertanto diventare un "grande evento", non in virtù della sua importanza oggettiva ma perché milioni di individui lo hanno appreso simultaneamente. La morte della principessa di Galles ("Lady D") è stata un tipico esempio del modo in cui un fatto di cronaca ha potuto essere istantaneamente trasformato in "grande evento" mondiale, provocando, sulla base di un ritratto trasformato in icona, fenomeni di isteria collettiva o di seduzione dell’immaginario assolutamente caratteristici (Lo si vede anche nell’eccellente film di Costa Gavras Mad City).

Si può dire, in generale, che l’informazione è diventata oggi sovrabbondante e contemporaneamente poco credibile. Se si prende l’esempio della televisione, si constata tuttavia che essa presenta un numero relativamente ristretto di informazioni: si apprende molto meno guardando un telegiornale di mezz’ora che dedicando una mezz’ora alla lettura dei giornali. La televisione, in compenso, fonda l’informazione sull’immagine. In un telegiornale, oltre i due terzi del tempo sono dedicati alle immagini, solo un terzo al commento. Questo primato dell’immagine ha varie conseguenze. La prima, e la più evidente, è che l’avvenimento di cui la televisione rende conto deve poter essere illustrato da immagini. Un avvenimento che non si può illustrare con l’immagine verrà con ogni probabilità passato sotto silenzio. Il corollario che se ne deduce è che tutto quel che esiste può e deve essere mostrato - è un’applicazione del principio della tecnica: tutto quel che può essere realizzato deve esserlo - mentre quel che non può essere mostrato può essere a buon diritto considerato inesistente. Va da sé, d’altro canto, che l’immagine migliore è quella che attira maggiormente l’attenzione, che colpisce con più forza, che solleva l’emozione più intensa. L’informazione viene di conseguenza a dipendere strettamente dal suo carattere più o meno spettacolare. Questa esigenza spiega per esempio lo spazio che la televisione concede alle "grandi cause" umanitarie. Basandosi sulla messinscena dell’indigenza e dell’infelicità, l’elemento umanitario è per sua natura spettacolare. Lo stesso accade con lo spazio accordato al terrorismo, il cui sviluppo è stato d’altronde strettamente parallelo a quello dei media: dal momento che anche un’azione terroristica è spettacolare, chi la effettua è sicuro che il suo gesto riceverà la più ampia pubblicità. La televisione usa e abusa, inoltre, della testimonianza (frase tipica: «Grazie della sua testimonianza»), che riduce tutto ciò che viene detto alla condizione di opinione fra le altre opinioni, fingendo di credere che queste testimonianze forniscano un effetto di realtà, cioè che attestino l’affermazione a cui fanno da contrappunto. Si tratta di testimonianze che non sono né spontanee né prese a caso. Nella maggior parte dei casi, sono il risultato di una selezione o di un montaggio, cosicché confermano unicamente le intenzioni o l’opinione di coloro che le hanno selezionate. Ci se ne rende particolarmente conto negli innumerevoli talk-shows che, facendo dello schermo televisivo un luogo di esibizione narcisistica, consentono a chiunque di venire ad esporre l’idiosincrasia delle proprie esperienze personali o delle proprie disgrazie, consegnando al voyeurismo pubblico una lunga scia di messaggi emotivi privi di contenuti che non siano punti di vista soggettivi immediatamente sottratti a qualunque giudizio.

La seconda conseguenza del primato dell’immagine è che l’ostensione sostituisce la dimostrazione. Il giornalismo intellettuale del dopoguerra aspirava a rivelare il senso degli avvenimenti. Il giornalismo attuale mira ad accumulare fatti quanto più in fretta possibile. I reportages devono essere brevi, i commenti semplici, inframmezzati da interviste frammentarie e da elementi aneddotici. L’immagine deve scioccare. Il ritmo deve essere rapido, tanto più che si deve avere l’informazione prima degli altri, il che in genere impedisce di verificarla e rendere impossibile situarla in prospettiva33 . L’ideale è che l’avvenimento venga mostrato in "tempo reale", vale a dire nel momento stesso in cui si verifica. «Nessun bisogno di memoria, di riferimenti, di continuità: tutto deve essere compreso immediatamente, tutto deve cambiare molto spesso», dice Gilles Lipovetsky. Al limite, la valorizzazione della diretta rende superfluo il commento. Il valore dell’informazione non risiede più nella sua importanza oggettiva o nel significato che riveste, ma nel solo fatto che rimanda a qualcosa che è appena accaduto. Il giornalista non vuole più mettersi nella condizione di capire, ma si limita a sorvolare o a sovrastare. La televisione conosce del resto un unico mezzo per imporre una gerarchia alle informazioni: il tempo più o meno lungo che ad esse concede; ma questa gerarchia non riflette l’importanza relativa reale di ciascuna informazione, è anch’essa determinata dai criteri del piccolo schermo. La televisione non possiede le risorse dell’impaginazione, che sono riservate alla stampa, ed è costretta a trattare tutte le informazioni in maniera simile, il che ne rafforza l’impressione di omogeneità.

Dal lato del telespettatore, questo succedersi di immagini a cascata, che rimandano ad altrettanti avvenimenti decontestualizzati, favorisce un consumo puramente passivo o affettivo dell’informazione. Così come non può esistere una storia in "tempo reale", una vera comunicazione presuppone sempre un effetto di differimento, di ritardo nella trasmissione, di sfasamento temporale fra l’emittente e il diffusore, necessario alla riflessione su ciò che è oggetto di comunicazione. In altri termini, essa presuppone una profondità di campo che l’audiovisivo ritrascrive in superficie liscia. La comunicazione istantanea non è altro che scambio di significanti senza significati, di messaggi senza contenuti. Nella misura in cui valorizza dei fatti senza avere né il tempo né gli strumenti per metterli in prospettiva, propaga una costante confusione fra vedere e sapere, fra vedere e capire. La televisione fa quindi pensare che non vi sia distanza tra la realtà e la sua rappresentazione attraverso l’immagine. Di conseguenza non vi è più possibilità di giudizio, poiché il giudizio non può situarsi che nella distanza, cioè in una certa resistenza alla percezione immediata: non è vedendo sempre di più che si capisce meglio, ma riflettendo sempre di più, cosa che l’invasione delle immagini proibisce per l’appunto di fare. Proibendo la presa di distanza, l’immagine televisiva scoraggia dunque la riflessione. François Brune ha fatto notare che

«tutto sembra accadere […] come se l’attualità fosse prodotta per impedire alle persone di iniziare una riflessione sulla stessa e di prendere una certa distanza nei confronti di qualsiasi avvenimento»34 .

«Quando si è privi della possibilità di distinguere fra quel che si vede e quel che si è», aggiunge Marie-José Mondzain, «l’unica via di uscita è l’identificazione massiccia, cioè la regressione e la sottomissione»35 .

Per definizione, il senso si mostra soltanto sullo sfondo del non-senso, così come la luce vale solo per via dell’oscurità che la circonda. Ma la televisione non conosce questa distinzione. Come scrive Régis Debray, essa

«non propone una sequenza di segni ma un flusso di immagini senza sintassi, una griglia di programmi senza luogo discorsivo, che giustappone senza gerarchizzare, senza totalizzare, senza distinguere […]».

Note

  1. Cfr. in proposito Philippe Breton, L’explosion de la communication, La Découverte, Paris 1993.

  2. Ignacio Ramonet, "Le nouvel ordre américain global", in Politis, 8.7.1999, pag. 36.

  3. Ha scritto Paul Virilio, "L’avènement du ‘globalitarisme’", in Catholica, inverno 1999-2000, pag. 47: «Questa forma di propaganda mi sembra più pericolosa di quella dei nazisti o dei comunisti nella misura in cui crea una seconda realtà, una realtà virtuale globale e uniformante che si sovrappone alla vera realtà […] Ormai è possibile spandere lo stesso messaggio in tutto il pianeta con una tale forza promozionale che il messaggio è capace di prendere il posto della realtà».

  4. Cfr. Régis Debray, Traité de médiologie, Gallimard, Paris 1991.

  5. Cfr. Dominique Wolton e Jean-Louis Missika, La folle du logis. La télévision dans les sociétés démocratiques, Gallimard, Paris 1983; Jacques Piveteau, L’extase de la télévision, Insep, Paris 1984; Neil Postman, Se distraire à en mourir, Flammarion, Paris 1986.

  6. Prefazione al volume collettaneo Nouvelles et dessins contre la télé, Réflex, Paris 1999.

  7. Liliane Lurçat, in "Vie et santé", giugno 1992.

  8. Alexandre Zinoviev, La grande rupture. Sociologie d’un monde bouleversé, L’Age d’homme, Lausanne 1999, pagg. 63, 67.

  9. Cfr. Georges Kjelman, "Quel contre-pouvoir au quatrième pouvoir?", in Le Débat, maggio-agosto 1990.

 10. Sulla disinformazione durante la guerra del Golfo, cfr. Alain Woodrow, Information, Manipulation, Félin, Paris 1991; Dominique Wolton, War Game, Flammarion, Paris 1991; Jean Baudrillard, La guerre du Golfe n’a pas eu lieu, Galilée, Paris 1991. Sulla disinformazione durante la guerra contro la Serbia, cfr. Vladimir Volkoff, Désinformation flagrant délit, Editions du Rocher, Monaco 1999; Paul Virilio, Stratégie de la déception, Galilée, Paris 1999; François Chesnais, Tania Noctiummes e Jean-Pierre Page, Réflexions sur la guerre en Yougoslavie, Esprit frappeur, Paris 1999; Maîtres du monde? Les dessous de la guerre des Balkans, Le temps des cerises, Paris 1999; Croyances en guerre. L’effet Kosovo, numero speciale dei Cahiers de médiologie, secondo semestre 1999. Un flagrante esempio di manipolazione è stato offerto nel gennaio 2000 dalla "Frankurter Rundschau", la quale ha rivelato che dopo il bombardamento da parte degli aerei americani di un treno di civili il 12 aprile 1999, su un punto situato nei pressi di Grdelicka Klisura, in Serbia, i dirigenti della Nato non avevano esitato a mostrare alla stampa una registrazione filmata nella quale la velocità delle immagini era stata moltiplicata per tre, dando l’impressione che il treno avesse fatto improvvisamente irruzione a grande velocità sul ponte, impedendo la correzione della traiettoria dei missili, mentre in realtà esso avanzava a velocità ridotta e dunque era stato consapevolmente preso come bersaglio del bombardamento a tappeto.

 11. Cfr. Alain de Benoist, Philippe Conrad, Günther Maschke et alii, Non à la censure! De la police de la pensée à la Nouvelle Inquisition, Grece, Paris 1998. Cfr. anche Le lynchage médiatique, numero speciale di Panoramiques, IV trimestre 1998.

 12. Régis Debray, Cours de médiologie générale, Gallimard, Paris 1991, pag. 302.

 13. Jean Baudrillard, Pour une critique de l’économie du signe, Gallimard, Paris 1972.

 14. Nouvelles et dessins contre la télé, cit., prefazione.

 15. Cfr. Zygmunt Bauman, Le coût humain de la mondialisation, Hachette-Littératures, Paris 1999, pag. 78.

 16. Joël Roman, "Les médias contre l’espace public", in La démocratie des individus, Calmann-Lévy, Paris 1998, pag. 69. Nello stesso saggio, a pagina 93, l’autore scrive: «Né la segmentazione del mercato né la proliferazione della parola selvaggia sono gli antidoti alla massificazione e all’uniformazione dello spazio pubblico: ne sono piuttosto la contropartita, i sottoprodotti», ricordando poi la «proliferazione di parole tanto più soggettive in quanto sono escluse dallo spazio pubblico e ne è proibito il confronto», parole che «si perdono quindi nell’inarticolato, oppure sprofondano nella codificazione di una nicchia tecnica». Sempre a proposito di Internet, Dominique Wolton, "De l’Internet et des hommes", in Libération, 14.1.2000, pag.6, esprime la seguente considerazione: «Se il progresso tecnico bastasse a migliorare la comprensione fra gli uomini e le società, lo avremmo visto già da un secolo: i progressi delle tecniche di comunicazione sono stati giganteschi, senza che per questo sia stata creata una migliore comprensione fra gli uomini».

 17. Jean Baudrillard, Simulacres et simulation, Galilée, Paris 1981, pag. 125.

 18. Régis Debray, Cours de médiologie générale, cit., pag. 320.

 19. Alexandre Zinoviev, op. cit., pag. 67.

 20. Jean Baudrillard, "La sociologie? Une thérapeutique", in Le magazine littéraire, giugno 1981, pag. 68.

 21. Georges Balandier, Le désordre, Fayard, Paris 1988, pag. 228.

 22. Ryszard Kapucinsky, "Les médias reflètent-ils la réalité du monde?", in Le Monde diplomatique, agosto 1999, pag. 8.

 23. Cfr. François Brune, Le bonheur conforme, Gallimard, Paris; Les médias pensent comme moi! Fragments de discours anonyme, L’Harmattan, Paris 1997.

 24. Pierre Bourdieu, Sur la télévision, Liber-Raisons d’agir, Paris 1996, pag. 78. Cfr. Anche Jean-Claude Guillebaud, "Crise des médias ou crise de la démocratie?", in Le Débat, settembre-ottobre 1991, e Roland Cayrol, Médias et démocratie: la dérive, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, Paris 1997.

 25. Ibidem, pag. 16.

 26. Ibidem, pag. 59.

 27. Jean Baudrillard, La guerre du Golfe n’a pas eu lieu, cit., pag. 97.

 28. Pierre Bourdieu, op. cit., pag. 25.

 29. Joël Roman, op. cit., pag. 91.

 30. «Si ha il diritto di dire tutto, ma a condizione di parlare della stessa cosa», constatano Florence Aubenas e Miguel Bensayag, La fabrication de l’information, La Découverte, Paris 1999.

 31. Cfr. a tal proposito gli interventi di Serge Halimi, "Un journalisme de révérence", in Le Monde diplomatique, febbraio 1995; Les nouveaux chiens de garde, Liber-Raisons d’agir, Paris 1997; "Un journalisme de racolage", in Le Monde diplomatique, agosto 1998. Cfr. anche Jean-François Rouge, "Le journaliste au risque de l’argent", in Esprit, dicembre 1990.

 3.2 Scrive tuttavia Jean Daniel, "Notre beau métier", in Le Nouvel Observateur, 14.10.1999, pag. 56: «Sì, è vero, noi passiamo la nostra vita a praticare l’autocensura. Sì, dedichiamo una parte dell’esistenza a scegliere le verità che ci sembrano buone da dire».

 33. L’aspetto risibile della concorrenza per la priorità dell’informazione a mezzo stampa sta nel fatto che di rado uno scoop è percepito come tale, per il semplice motivo che la maggioranza dei lettori legge un solo giornale e non è dunque in grado di capire se quello che legge pubblica più o meno informazioni "esclusive" degli altri. Solo i giornalisti leggono tutti i giornali, ricorda Pierre Bourdieu.

 34. François Brune, "Un bonheur si conforme!", in No pasaran!, dicembre 1999, pag. 20.

 35. Marie-José Mondzain, in Le Monde, 8 settembre 1998.