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Le indemoniate di Verzegnis nel 1878-79: un caso che sfida la «scienza» psichiatrica

di Francesco Lamendola - 02/04/2008

 

 

 

 

Nel 1878-79, in un piccolo comune di montagna - Verzegnis, in Carnia - decine di donne sembrano in preda alla possessione demoniaca: urlano, schiumano, imprecano, si rotolano in terra ed emettono suoni raccapriccianti, ferini, a gola spiegata. Che cosa sta succedendo? Qualcosa che la pretese scienza psichiatrica non riesce a spiegare e neppure la Chiesa, che pur vanta una solida, capillare presenza e una conoscenza ben maggiore di quei valligiani, di quanta non ne abbiano i medici venuti dalla città a studiare il 'caso', o le autorità dello Stato, che lo percepiscono soprattutto come un problema di ordine pubblico.

Alla fine, la diagnosi dei medici è di istero-demonopatia, la classica formula che pretende di spiegare tutto mentre non è che un'etichetta per mascherare la povertà e l'inadeguatezza della scienza - dominata allora, più che mai, dal paradigma positivista - di fronte all'ignoto. Seguirà un trasferimento coatto delle povere donne nelle strutture ospedaliere cittadine, a Udine, con tanto di intervento dei carabinieri e l'accusa lanciata al clero, nemmeno tanto velatamente, di aver speculato su un caso pietoso di isteria collettiva per fomentare disordini contro l'ordine sociale dello Stato laico e liberale (nonché massonico) uscito dal Risorgimento.

Si tenga presente, infatti, il contesto storico: gli Austriaci se ne sono andati dal Veneto e dal Friuli occidentale solo dodici anni prima, in seguito agli eventi del 1866 (e nonostante la loro duplice vittoria di Custoza e di Lissa). Il Friuli, in particolare, e la Carnia ancor più del Friuli, sono visti dal lontano governo di Roma come territori di confine, di recente annessione e diversi dal resto d'Italia per lingua, cultura e tradizioni; che avevano fatto parte, fino al 1420, del più importante ed esteso principato ecclesiastico del Medio Evo: il patriarcato di Aquileia, retto per secoli da patriarchi tedeschi e, nell'ultima fase, anche francesi; i quali, per ripopolare le campagne svuotate dalle terribili incursioni ungare, avevano fatto affluire migliaia di coloni slavi (dei quali restano tracce evidenti nella toponomastica della bassa pianura)..

Insomma il giovane Stato italiano, in cattivi rapporti con la Chiesa cattolica e in rapporti anche più tesi con l'Austria-Ungheria - che si distenderanno solo nel 1882, con l'adesione alla Triplice Alleanza - si sente un po' come una cittadella assediata e vede ovunque, o sospetta, complotti ai suoi danni. Il confine austriaco è lì, a due passi  da Verzegnis, precisamente a Pontebba (si sposterà fino a inglobare la conca di Tarvisio, nel bacino della Drava, solo nel 1918, dopo la prima guerra mondiale); e la Chiesa esercita su quelle popolazioni un ascendente molto forte, certo maggiore che in altre parti del Regno sabaudo.

Né la psichiatria, che sta muovendo i primi passi verso la sua autopromozione al rango di scienza, si trova nelle migliori condizioni per valutare un fenomeno, o piuttosto un insieme di fenomeni, come quelli che si stanno verificando in quello sperduto paese della valle superiore del Tagliamento. Sia la psichiatria che l'antropologia, in quegli anni, sono dominate dalla forte personalità di Cesare Lombroso (1835-1909), autore di un 'classico' come Genio e follia e figura prestigiosa anche a livello internazionale, il quale si ispira ai principi del positivismo ed è il tipico esponente di una visione scientifica materialistica e razionalistica, che bolla come ignoranza e superstizione ogni diverso approccio alle zone rimaste in ombra dei fenomeni umani, a cominciare dalle manifestazioni psichiche di natura insolita.

Solo tenendo conto di tali fattori - ossia, del contesto politico-sociale da un lato, e scienitifico-culturale dall'altro - si può arrivare a comprendere la reazione eccessiva, e, addirittura, il ricorso all'uso della forza, con cui le autorità preposte, sia amministrative che mediche, reagirono a un fenomeno che non erano in grado di valutare spassionatamente e che dovette sembrare loro, nel migliore dei casi, un rigurgito di fanatismo medioevale in una zona di confine, a stento considerata 'italiana' e, comunque, arretrata e poverissima, con una enorme percentuale di popolazione emigrata, in forma stabile o semplicemente stagionale, per cercare lavoro.

La Carnia di fine Ottocento, ai funzionari italiani venuti da lontano, magari dal Meridione, doveva sembrare un Paese semiselvaggio e quasi barbaro; e, se un periodo di vacanza ad Arta Terme poteva ispirare al massimo poeta italiano dell'epoca, Giosuè Carducci, una commossa rievocazione storica come quella de Il comune rustico, gli Italiani delle altre regioni sapevano poco o nulla di quell'estremo lembo montagnoso della Patria, se non che era una delle zone più misere e dimenticate dell'intero territorio nazionale.

 

Una studiosa udinese, Luciana Borsatti, ha dedicato a quel lontano e, per molti aspetti, ancor misterioso episodio, la sua tesi di laurea del 1986, che poi è stata parzialmente rivista ed è stata pubblicata nei Quaderni della Comunità Montana della Carnia, a Tolmezzo, nel 1989, con il titolo: Verzegnis 1878-79. Un caso di isteria collettiva in Carnia alla fine dell'Ottocento.

Si tratta di una ricerca condotta con metodo eccellente, scrupolosa nella documentazione, così come acuta ed equilibrata nelle valutazioni; anche se - come già si evince dal titolo - condizionata, a nostro giudizio, da un certo pregiudizio di matrice neopositivista, in base al quale i fatti di Verzegnis 'devono' rientrare, necessariamente, nella categoria dei disturbi psichiatrici e, più precisamente, in quella dell'isteria collettiva; diagnosi che troverebbe la sua conferma nell'ambiente isolato, fortemente chiuso e, per certi aspetti, arcaico in cui si manifestarono, nonché con l'estrema solitudine imposta dalla neve nella stagione invernale.

Certo, il fattore solitudine dovette giocare un ruolo nella vicenda.

Si pensi che, ancora dopo la seconda guerra mondiale, esistevano dei villaggi della Carnia e delle Prealpi Carniche - Palcoda o San Vincenzo, per fare solo due nomi; villaggi che, del resto, sono stati alla fine abbandonati, e oggi sono divenuti dei paesi-fantasma, invasi dalla vegetazione spontanea e popolati da uccelli e piccoli mammiferi - che vivevano in condizioni di isolamento quasi inverosimili: senza luce elettrica, senza telegrafo, addirittura senza una strada asfaltata per raggiungerli; con alcuni torrenti da attraversare e, nella stagione invernale, con un alto strato di neve che li separava completamente dal resto del mondo.

 

Riportiamo un passo di questa bella e interessante ricerca di Luciana Borsatti (pp.  403-405, passim), relativa al primo manifestarsi della vicenda.

 

"La crisi scoppiò in primavera: quando si scioglievano le nevi, sbocciavano le gemme e vari emigranti si preparavano a partire. Sette ragazze di Chiaicis  di età dai quindici ai vent'anni, furono prese da strani e pietosi malori, che presto si evolsero in manifestazioni più clamorose. «Si contorcono orribilmente, strepitano, perdono i sentimenti, ed urlano anche in pari tempo come da voce di cane, riferiva nel settembre 1878 il parroco Giovanni D'Orlando al vicario generale dell'arcivescovo di Udine. - Interamente prive di sensi,, le ammalate cadono a terra con la bocca stravolta, gridano, urlano, si agitano come forsennate», scriveva ancora D'Orlando al religioso francese De Bonniot, che due anni dopo sarebbe intervento pubblicamente sul caso. (…)

"Raggiunta la casa da cui quelle voci provenivano [don Giacomo Paschini, parroco di Tolmezzo e originario di Verzegnis], vi trovò distesa sul letto, «composta, vera immagine d'innocenza e vestita», la più giovane delle donne affette dal male: una ragazza di quindici anni assistita dalla madre perché non rischiasse di morire soffocata. La comparsa del prete acuì la crisi della fanciulla, che accentuò  «le citate espressioni, i contorcimenti della persona, le smanie. La madre spiegò che, da sedici giorni a quella parte, le crisi si succedevano  con frequenza regolarissima: dalle 5 di mattina alle 3 del pomeriggio; poi, dopo un'ora esatta di pausa, per un altro quarto d'ora, e quindi per altre due ore, dalle 6 alle 7 e dalle 9 alle 10; il riposo notturno, infine, veniva interrotto da «qualche clamore» soltanto di quando in quando. Alle 3 di quel pomeriggio, infatti,  la ragazza si alzò come se niente fosse accaduto, salutò cristianamente il prete senza alcun imbarazzo, disse di sentirsi bene e cercò le sue scarpe  per recarsi all'orazione in chiesa; era infatti, riferiva il Paschini, «una delle giovani più buone del paese». Ciononostante, e benché non potesse cibarsi che di un po' di latte con acqua nei momenti di quiete, la ragazza era capace della più grande energia fisica nel corso delle crisi e di gesti violenti e ribelli: «ogni qual tratto cerca di levarsi di dosso  oggetti di devozione, come medaglie, crocifissi, l'abitino del Carmine, di cui ne è insignita alla cui confraternita pure ne sono iscritte tutte le altre».

"Volle don Paschini recitare su di lei una preghiera, ma non riuscì nei ripetuti tentativi di tracciarle sulla fronte il segno della croce.  Di fronte al religioso, la giovane  si dimostrò anche capace di alcune, poco vistose forme di chiaroveggenza: seppe  dire quali preti avrebbero celebrato la messa l'indomani mattina, e se era terminata a quell'ora la recita delle litanie  con l'esposizione del S. Sacramento.

"Anche le altre ragazze nella sua condizione,  visitate da don Paschini nella sua visita di due giorni,  avevano analoghe manifestazioni…"

 

Pur fra incertezze ed esitazioni, la curia di Udine finì per approvare il ricorso alle cerimonie di esorcismo; che, però, non diedero alcun risultato. Anzi, uscendo dal chiuso delle abitazioni private, il fenomeno si manifestò, per la prima volta, in pubblico, e nel luogo e nel momento più delicati: in chiesa, durante la messa, proprio durante la consacrazione del pane e del vino, rivelando così il suo carattere decisamente blasfemo.

A quel punto cominciarono a muoversi anche le autorità statali.

Un delegato del prefetto, con tanto di scorta militare, si recò sul posto per fare una prima indagine intorno alle voci inquietanti che erano giunte fino a Udine. Vi fu un colloquio, probabilmente non del tutto amichevole, fra questi e il parroco, nel corso del quale il primo sostenne la tesi che lo scompiglio mentale delle povere donne era dovuto, alla predicazione di un missionario gesuita, che era stato in paese l'anno prima, nonché da un sacerdote che, tuttavia, se n'era andato già da una decina d'anni.

Il rapporto del prefetto tendeva a scaricare sul clero la responsabilità di quanto stava avvenendo, esasperando i terrori ultraterreni di un popolino semplice e suggestionabile; ne nacque un tipico scontro ideologico fra la cultura laica e radicale e quella cattolica, con tanto di intimazione al clero locale, da parte dell'autorità prefettizia, di sospendere qualunque pratica esorcistica per non aggravare l'isterismo delle donne in preda all'agitazione  e non peggiorare lo stato di eccitazione dell'intera popolazione.

Noi non seguiremo qui tutti gli sviluppi della vicenda, rimandando il lettore desideroso di approfondimento alla lettura del libro di Luciana Borsatti, che ne ha fatto una ricerca scrupolosa e metodologicamente molto accorta.

A proposito dei fatti di Verzegnis, rimasti tuttora inspiegati e terminati spontaneamente, così come si erano manifestati, viene istintivo paragonarli a quelli, ben più drammatici, di Loudin o di Louviers, sui quali esiste una ricca bibliografia internazionale; oppure, restando in un ambito sia geograficamente che storicamente affine, alla cosiddetta 'epidemia' verificatasi nel paese di Morzine, nell'Alta Savoia, fra il 1857 e il 1873 (a cavallo, cioè, della cessione di tale provincia dall'Italia alla Francia, che ebbe luogo nel 1860).

Anche in quest'ultimo caso, infatti, gli psichiatri avanzarono una diagnosi di 'istero-demonopatia', ossia di sindrome isterica da possessione demoniaca. La crisi raggiunse l'apice in occasione di una visita del vescovo locale alla parrocchia 'infestata', che scatenò una violentissima crisi collettiva in chiesa. Dopo una prima fase in cui prevalse la strategia repressiva, le autorità francesi attuarono una 'risposta' basata su un vasto programma di 'rieducazione' di quei montanari, considerati arretrati e 'incivili'.

Anche nella Terza Repubblica, infatti, era diffusa una cultura laica e radicale che considerava con paternalistica sufficienza, se non con aperto disprezzo, tali fenomenologie, attribuendole alla mentalità 'primitiva' di quelle popolazioni alpine (da poco annesse alla Francia) e all'influsso negativo esercitato dal clero.

Né si dimentichi che nel 1858 era 'esploso' il caso di Lourdes, con le apparizioni della Vergine Maria alla giovane Bernadette Soubirous, che non poco imbarazzo avevano già creato alle autorità  dell'imperatore Napoleone III; e che il governo francese, come del resto quello italiano, temeva il diffondersi di una 'epidemia religiosa' che avrebbe potuto mobilitare masse di milioni di contadini cattolici, evocando - nella mente degli intellettuali e dei funzionari di formazione laica e razionalista - lo spettro di una nuova Vandea, o poco meno.

 

Tutta la vicenda di Verzegnis presenta un notevole interesse non solo dal punto di vista del dibattito cui diede luogo, fra l'interpretazione della scienza accademica - che parlava di isteria collettiva - e quella del clero locale, e non solo locale - che parlava, invece, di fenomeni soprannaturali, nei quali  era possibile riconoscere anche la possessione demoniaca.

La vicenda di Verzegnis si presta anche a una serie di riflessioni sul concetto di malattia mentale e richiama alla mente le note posizioni dello scienziato ungherese-americano  Thomas S. Szasz, il quale, nel suo celebre saggio Il mito della malattia mentale (edizione originale New York, 1961; traduzione italiana Milano, Il Saggiatore, 1966), sostiene che, con l'avvento della società di massa, la psichiatria viene usata massicciamente come una forma di tranquillante sociale.  e che la psichiatria stessa non è altro che una pseudoscienza - e, più precisamente, una forma di pseudomedicina, che si fonda in partenza su di una nozione assolutamente infondata: quella di "malattia mentale".

Ne abbiamo già parlato in altra sede (cfr. il nostro articolo  L'elettroshock  di  Ugo  Cerletti e  la  psichiatria  da  mattatoio, consultabile sul sito di Arianna Editrice), per cui non torneremo sull'argomento. Ci limitiamo ad osservare che una medicina - come quella che studiò ed emise la diagnosi sui fatti di Morzine, così come su quelli di Verzegnis -, la quale parta da una pregiudiziale scientista e positivista, che esclude a priori la realtà oggettiva dei fenomeni osservati, solo perché non rientrano nel suo orizzonte ideologico -, non può che tradursi in pratiche di tipo repressivo, trattando i soggetti in questione come poveri alienati, vittime di secolari superstizioni e abbrutiti da un contesto socio-culturale oscurantista.

Una simile medicina non potrà che porsi in atteggiamento di superiorità e di fastidio nei confronti dei fatti che mal si accordano con la sua visione del reale e, di conseguenza, non potrà che assumere un'attitudine di negazione e di repressione. L'unica cosa che resterà da decidere sarà la scelta fra la linea dura, ossia quella dei carabinieri e del ricovero forzato in manicomio, e la linea 'morbida' del paternalismo, dell'educazione e della elevazione delle masse 'ignoranti' verso i pretesi lumi della ragione.

A questa incomprensione di fondo, a questa impossibilità di dialogo fra due mondi che non sanno ascoltarsi e cercare di comprendersi, si deve poi aggiungere un altro fattore di diffidenza e di radicalizzazione delle incompatibilità.

Da una parte abbiamo una cerchia di amministratori e di medici di estrazione borghese, che hanno sempre vissuto in città e che in città esercitano la propria professione e nutrono la propria cultura; dall'altra, dei poveri  montanari, che non si sono mai allontanati dal paesello natio se non in veste di poveri emigranti, che sono in buona parte analfabeti e che non basano la loro cultura sul libro - tranne, forse, la Bibbia -, ma su conoscenze e su riti antichissimi, alcuni addirittura di origine pre-cristiana (anche se notevolmente trasformati nel corso dei secoli), nonché su un rapporto immediato con la natura alpina, che è la grande protagonista - e non solo lo sfondo - di tutta la loro esistenza. Montanari che si esprimono solo in friulano, anzi in carnico, e che a stento comprendono le spazientite domande e le frettolose conclusioni di quei funzionari e di quei medici venuti da lontano, i quali nulla sanno di loro ma che pretendono di giudicarli in base a delle idee preconcette, che non si danno neanche la pena di dissimulare.

 

A questo punto, l'ultima domanda che potremmo porci è se, oggi, l'atteggiamento di fondo della psichiatria e, in genere, della cultura 'ufficiale' sia cambiato poi molto rispetto a quei tempi. Recenti vicende, come quella della povera Annaliese Michel, farebbero proprio pensare di no (cfr. Francesco Lamendola, L'esorcismo di Anneliese Michel e l'Inquisizione scientista, consultabile sul sito di Edicolaweb).

Anche se non si serve più, in genere, dei prefetti e dei carabinieri, la psichiatria 'ufficiale' è ancora un gruppo di potere organizzato con il quale è meglio non avere a che fare, se ci si trova a vivere delle esperienze psichiche fuori del comune.

Né riteniamo sia cambiato in profondità l'atteggiamento di sufficienza dei borghesi di città nei confronti di quel poco che resta del mondo contadino, specialmente nelle zone più povere e isolate;  come lo sono, in genere, quelle di montagna, dove non è arrivato il turismo di massa, con le sciovie e con le villette per le vacanze di quei medesimi borghesi cittadini.

Da questo punto di vista, se fatti come quelli di Verzegnis ci dicono poco sotto il profilo della sostanza specifica dei fenomeni di possessione - o di presunta possessione - diabolica, ci dicono però molte cose su quell'altro tipo di violenza, che si manifesta nell'arroganza e nell'autoritarismo delle culture dominanti nei confronti delle culture vernacolari.