Palestina, l’isola che non c’è
di Alberto Negri - 01/08/2025
Fonte: Il Manifesto
Stato di Palestina: Gaza è solo l’ultimo capitolo di questa storia
Su una collina a sud di Israele, Givat Kobi, arrivano ogni giorno centinaia di israeliani per vedere i bombardamenti su Gaza. Si affittano anche i binocoli per vedere meglio le macerie. Il genocidio di un popolo viene guardato e trasmesso in diretta ma il suo diritto all’autodeterminazione, alla giustizia e alla vita, va sempre in differita, da decenni. È come l’isola che non c’è di Edoardo Bennato.
Anche oggi in Europa e in Italia ci arroghiamo il diritto, da cancellerie e salotti vari, di discettare se sia più o meno giusto – il giusto lo decidiamo noi naturalmente – riconoscere uno stato palestinese. Per altro in ritardo su 150 Paesi, tra cui il Vaticano, che lo hanno già fatto. È quello che qualche giorno fa Chiara Cruciati sul manifesto definiva «un suprematismo bianco» che oggi appare assai fuori tempo massimo.
Se Francia e Gran Bretagna vogliono andare oltre le dichiarazioni simboliche sullo stato palestinese, avrebbero molto da fare in concreto. Per esempio sospendere le esportazioni di armi verso Israele e chiedere un’indagine internazionale sui crimini di guerra dello stato ebraico. Inoltre potrebbero usare la propria influenza per punire la colonizzazione e il blocco imposto a Gaza, sostenendo direttamente i palestinesi.
In realtà quello che possiamo scrutare oggi dalla collina di Givat Kobi sono il passato e il presente di una mentalità distorta, segno dei tempi ma anche di una vicenda che non vogliamo sentirci raccontare.
La nostra mentalità coloniale, con godimento massimo di Netanyahu e Trump, non ci abbandona mai. Rafforzata da quasi ottant’anni di menzogne. Da quel 14 maggio 1948 che decreta la nascita di uno stato israeliano, avvenuta non con una guerra di indipendenza, come vuole la narrazione dominante, ma sulla base di una conquista coloniale e della pulizia etnica, come scrive lo storico israeliano Ilan Pappé.
Gaza è solo l’ultimo capitolo di questa storia. Lo storico racconta che il piano di pulizia etnica (Piano Dalet) era stato elaborato il 10 marzo 1948, due mesi prima dello scoppio del conflitto israelo-arabo e le forze ebraiche erano già riuscite a espellere 250mila arabi. Un anno dopo l’80% dei palestinesi era stata relegato in campi profughi, sparsi tra la Cisgiordania, la striscia di Gaza, il Libano, la Giordania e la Siria. Israele aveva così conquistato un terzo del territorio in più di quello previsto dal piano di spartizione dell’Onu del 1947, occupando il 78% della Palestina storica. La Nakba, la catastrofe, si era compiuta. A questo si sarebbe aggiunto un altro 22% di territori palestinesi in seguito alla guerra dei sei giorni del 1967.
Ma la Nakba non è mai finita, neppure per un giorno, e continua oggi. Lo dicono le espulsioni massa condotte in tutto il Paese, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Neppure gli accordi di Oslo del 1993, che allora sollevarono speranze per i palestinesi ma anche tra gli israeliani che puntavano alla pace, furono in grado di cambiare la tendenza alla colonizzazione forzata e alla pulizia etnica. Fallirono sulla scorta dell’assassinio del premier Rabin ma anche di un ideologia, il sionismo, diventata sempre più estrema, segnata dal radicalismo religioso.
Ecco il risultato. La Cisgiordania, Gerusalemme Est inclusa, conta adesso oltre 300 insediamenti israeliani e 750mila coloni a fronte di 3,3 milioni di palestinesi: ai tempi degli accordi di Oslo, i coloni erano 100mila. Che cosa è stato fatto per evitarlo? Nulla. Israele ha potuto impunemente violare il diritto internazionale, gli accordi di Oslo e sbeffeggiare ogni iniziativa internazionale. L’orribile strage compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 – per altro il prodotto di decenni di oppressione – è servita al governo di Netanyahu per stare in sella e continuare una politica di occupazione e di stragi a Gaza dove oltre il 60% della popolazione, due milioni, ha meno di 25 anni ed ha conosciuto solo l’assedio in una prigione a cielo aperto.
Ancora oggi dalla comunità occidentale arriva il solito messaggio: la pulizia etnica della Palestina, per quanto illegale e immorale, sarà tollerata come in passato, che venga o meno riconosciuto uno stato. Se il Sud globale con il Gruppo dell’Aja a Bogotà si è schierato con i palestinesi (peraltro con conseguenze reali limitate), il regime israeliano conta pur sempre sull’impunità garantita da decenni dagli Sati uniti e dall’Unione europea. Lo stesso mantra “due popoli due stati” che le diplomazie ripetono ipocritamente fino alla noia è ancora praticabile e materialmente possibile? Se non si discute nel concreto rimane uno slogan, visto che la tendenza israeliana, come scriveva ieri Michele Giorgio, è quella di insediare nuove colonie a Gaza ed espellere la popolazione.
Il vero mantra per noi è: “mai una sanzione contro Tel Aviv”. La stessa recentissima proposta della Commissione europea di sospendere parzialmente Israele dal fondo di ricerca Horizon Europe – con l’esclusione da sovvenzioni e investimenti per 200 milioni di euro – non ha ottenuto la maggioranza necessaria. Berlino e Roma come sempre prendono tempo e la Meloni, appaltata la nostra cybersecurity a Israele nel marzo 2023, ha troppo timore della sua ombra israeliana e del suo passato per fare qualche cosa di concreto. Nonostante le importanti parole di Mattarella, Israele ci tiene al guinzaglio.