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Intelletto e ragione negli antichi ed in Kant

di Paolo Vicentini - 29/06/2008

 

 

E’ noto che Kant adottò l’inversione di valore, ed in parte di significato, fra i termini "intelletto" e "ragione" già operata da alcuni suoi contempo­ranei[1] e frutto di quell’assolutizzazione della razionalità, o meglio di una sua ristretta accezione, propria del pensiero moderno.

Nelle maggiori scuole della filosofia antica invece, e fino all’epoca medievale, l’intelletto (il nous di Platone ed Aristotele) è la facoltà intuitiva e la sua attività, l’attività contemplativa, è la più alta poiché "ha conoscenza delle realtà belle e divine: o perché in se stessa divina, o perché è la cosa più divina di ciò che è in noi".[2] Attraverso questa virtù, che è "separata dal cor­po",[3] l'uomo si assimila al divino. Difatti, "se l’intelletto è una cosa divina rispetto all’uomo, anche la vita secondo l'intelletto sarà divina ri­spetto alla vita dell'uomo".[4] "Sicché l'attività di chi è dio, la quale eccelle per beatitudine, sarà l’attività contemplativa".[5] Non è il caso qui di entrare nei particolari circa la via "dialettica" che conduce "al di là di questo umano sapere opinabile, misto e vario" verso "l’intuizione dell’intelligibile, del non mescolato e del santo, la quale lampeggia attraverso l’anima come un fulmine";[6] è comunque evidente che tale conoscenza non ha in sé nulla di discorsivo, caratteristica questa delle dianoia, ossia della ragione intesa nella sua più ristretta accezione,[7] considerata nell’antichità una forma di sapere superiore all’opinione (doxa), ma inferiore alla conoscenza pura dell’intelletto (noesis) e quindi tutt’al più adatta a costituire il procedimento scientifico: intendendo qui "scienza" in un senso alquanto lato, poiché vera scienza è per la maggior parte dei filosofi antichi solamente l’intuizione intellettuale, ossia la noesis.[8] Infatti la dianoia, in quanto sempre utilizza immagini sensibili e deve partire da ipotesi, oltre le quali è incapace d’elevarsi, è per essi ancora chiaramente le­gata al divenire del mondo corporeo, tanto che potrebbe intendersi quasi come l’aspetto più elevato dell’opinione.

Quando invece l’anima, attraverso quel lungo processo di purificazione (katharsis) costituito dal metodo dialettico, si raccoglie in se stessa in perfetta solitudine, rompendo ogni attaccamento al mondo sensibile e ogni identificazione con esso; solo allora la sua "parte migliore"[9] s’innalza a contemplare la realtà sovraceleste,[10] immune da ipotesi (anypotheton) e principio di tutto, in un’intuizione intellettiva che coincide con la conoscenza più profonda di se stessi:[11] "l’anima, quando cerca qualcosa per mezzo del corpo, cioè con la vista o l’udito o qualsiasi altra percezione sensibile (infatti indagare per mezzo del corpo è indagare coi sensi), allora essa è trascinata dal corpo verso ciò che è mute­vole, e va errando qua e là e si confonde e barcolla come ebbra, perché tali appunto sono le cose a cui si attacca... Ma quando si può raccogliere in se stessa e si pone in contemplazione, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale e immutabile, ed essendogli affine per natura rimane in sua compa­gnia: allora cessa dal suo errare e rimane immutabile, poiché immutabile è ciò a cui è congiunta. E questo suo stato si chiama saggezza".[12]

In Kant, come sopra detto, i valori delle due funzioni conoscitive: intellet­to e ragione, sono rovesciati. La ragione "in quanto spontaneità pura... si eleva anche al di sopra dell’intelletto, perché, sebbene l’intelletto sia anche spontaneità e non contenga, come il senso, semplici rappresentazioni, che sorgono soltanto quando si è affetti dalle cose (cioè quando si è passi­vi), può tuttavia trarre dalla propria attività solo concetti che servono esclusivamente a sottoporre le rappresentazioni sensibili a regole e a riu­nirle così in una coscienza; senza questo uso che esso fa della sensibilità, l’intelletto non penserebbe assolutamente nulla; viceversa la ragione, nel campo delle idee, rivela una spontaneità così pura da innalzarsi molto al di sopra di ciò che la sensibilità fornisce all’intelletto e realizza il suo compito più elevato quando distingue l’uno dall'altro il mondo sensibile e il mondo intelligibile, assegnando così i propri limiti all’intelletto stes­so".[13]

 L’uomo inoltre, "per quanto ha attinenza alla semplice percezione e alla ricettività delle sensazioni, deve considerarsi appartenente al mondo sensibile, ma, per quanto in lui può essere attività pura (cioè per quanto accede alla coscienza non mediante l’affezione dei sensi ma immediatamente) deve considerarsi appartenente al mondo intelligibile, che egli però non conosc oltre".[14]

Ed ancora: l’uomo "è a se stesso certamente da una parte fenomeno, ma dal­l’altra, cioè rispetto a certe facoltà, un mero oggetto intelligibile, perché il suo atto non può in niun modo esser attribuito alla ricettività del senso. Noi diciamo queste facoltà intelletto e ragione; sovrattutto questa ultima è in modo affatto speciale e preminente distinta da tutte le forze empiricamente determinate, poiché essa esamina i suoi oggetti semplicemen­te secondo idee, e determina conformemente ad esse l’intelletto, che poi fa dei suoi concetti (anche puri) un uso empirico".[15] Potrebbe forse sembrare da questi passi che Kant ritenga possibile una co­noscenza immediata della realtà intelligibile svincolata dall’intuizione sensibile. In realtà bisogna tener presente che quell’"attività pura", quell’atto che "non può in nessun modo esser attribuito alla recettività del senso", cui Kant accenna, non costituisce affatto una conoscenza poi­ché per Kant: "La conoscenza comprende due punti: in primo luogo, un con­cetto per cui in generale un oggetto è pensato (la categoria), e, in secondo luogo, l’intuizione, onde esso è dato; giacché, se al concetto non potesse esser data un’intuizione corrispondente, esso, per la forma, sarebbe un pensiero, ma senza alcun oggetto, e per mezzo di esso non sarebbe punto possibile la conoscenza di una qualsiasi cosa... Ora, ogni nostra possibile intuizione è sensibile (Estetica) ; il pensiero dunque di un oggetto in generale mediante un concetto puro dell’intelletto, può in noi diventare conoscenza solo in quanto questo concetto è messo in relazione con oggetti dei sensi".[16]

Essendo dunque per Kant la conoscenza concettuale l’unica forma di conoscenza possibile all’uomo, e non potendo quest’ultimo uscire da tale condizione manchevole, anche l’idea di un mondo intelligibile, pena il restare un mero pensiero dell’intelletto e come tale insignificante, dovrebbe, per tradursi in conoscenza, determinarsi in un’intuizione sensibile e, non essendo evi­dentemente ciò possibile, Kant dichiara inattingibile la conoscenza in se stesso dell’intelligibile, che può al massimo essere colto - ma solamente attraverso concetti analogici - nel suo rapporto col mondo sensibile e con noi: "Se si può già chiamare conoscenza un semplice modo di rappresentazione (il che certo è permesso, quando essa non è un principio della determi­nazione teoretica dell’oggetto per quello che l’oggetto è in se stesso, ma un principio della determinazione pratica, per ciò che l’idea di esso deve essere per noi e pel suo uso appropriato); allora tutta la nostra conoscenza di Dio è puramente simbolica".[17]

Certo, afferma Kant, se il nostro intelletto fosse intuitivo, cioè se intuisse da se stesso direttamente i propri oggetti, senza doverli ricevere dall’intuizione sensibile, attingerebbe immediatamente alla cosa in sé, anzi: "Tanto i concetti (che concernono semplicemente la possibilità di un oggetto) che le intuizioni sensibili (che ci danno qualche cosa, senza per­ciò farcela conoscere come oggetto), scomparirebbero"[18] e rimarrebbe cosi solamente il reale, la cosa in sé (Ding an sich).

Ma, secondo Kant, un tale intelletto intuitivo e l’intuizione intellettuale che ne consegue potrebbero appartenere solo all’Essere supremo.[19] In Kant l’uomo, pur partecipando del mondo intelligibile, ossia della cosa in sé, ossia del divino, non può e non potrà mai conoscersi nella più intima natura, non potrà mai cioè vivere una vita "superiore alla condizione  del­l’uomo... in quanto in lui è presente qualcosa di divino";[20] bensì è con­dannato a conoscere se stesso non quale è, ma come appare a sé: "io non ho dunque pertanto una conoscenza di me quale sono, ma semplicemente quale ap­parisco a me stesso".[21]

 



[1] A questo riguardo già Schelling notava: "bisogna deplorare il fatto che anche il più celebre traduttore tedesco di Platone traduca ovunque nous con ‘ragione’" (Esposizione dell’empirismo filosofico).

[2] Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 a 15.

[3] Etica Nicomachea, X, 8,1178 a 20.

[4] Etica Nicomachea, X, 7, 1177 a 30.

[5] Etica Nicomachea, X, 8, 1178 b 20.

[6] Aristotele, Eudemo, fr. 10; cfr. Platone, Lettere, VII, 341 d.

[7] La difficoltà nel comprendere l’origine e la dimensione sovraindividuale, e non puramente discorsiva, della saggezza antica è spesso generata dall’evoluzione semantica subita in Occidente dal termine "ragione". Se nell’antichità greca e romana la parola "ragione" (logos, ratio) racchiudeva in sé sia l’aspetto individuale, mediato, discorsivo e calcolante (dianoia), della conoscenza umana che quello sovraindividuale o divino, immediato, intuitivo e unitivo (nous), potendo così esser usata in senso traslato per indicare la Ragione propria di Dio; se Agostino aveva ancora cura di distinguere la ratio superior (o mens) dalla ratio inferior (o cogitativa) (cft. De Trinitate, XII, 3), e se lungo tutto il Medioevo si ebbe ben chiara la differenza fra intellectus (nous) e ratio (dianoia) (cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, a. 8), benché talvolta il termine "ragione" fosse utilizzato per indicare l’insieme dell’anima razionale e non solo la sua parte individuale, a partire dal XVIII secolo questa differenziazione sarà definitivamente perduta: l’anima razionale verrà ridotta al suo aspetto calcolante, ossia alla ratio inferior agostiniana. Ragione diventerà sinonimo della facoltà individuale e discorsiva che consente all’uomo di dedurre una proposizione da un’altra, o di procedere dalle premesse alle conseguenze, e verrà considerata come il sommo organo della sua conoscenza. In tal modo potrà costituirsi come la Dea laica venerata dagli illuministi ed al mondo cristiano non resterà che contrapporre ad essa il "cuore", inteso non più come intelletto, come parte più elevata della mente (apex mentis) o mente intuitiva, organo della contemplazione per eccellenza, ma come sentimento, affettività, impulso, emozione, passione. Nasce così, accanto al razionalismo laico, il sentimentalismo religioso, che i razionalisti avranno buon gioco a squalificare come irrazionale.

[8] Cfr. Platone, Repubblica, VII, 533 d.

[9] Dai filosofi antichi l’intelletto è spesso chiamato "parte migliore dell’anima", "occhio dell’anima", "pilota dell’anima", ecc.; così come l’intuizione intellettuale è chiamata anche "scienza" (episteme), "sapienza" (sophia), "saggezza" (phronesis), ecc.

[10] "Lo spazio ultraceleste non ha ancora trovato, fra i poeti di questo nostro mondo, chi l’abbia celebrato degnamente, né lo troverà mai... Infatti l’essenza che realmente è, scevra di colore, di forma, intangibile, che sol il pilota dell’anima, l’intelletto, può contemplare e che costituisce il dominio della vera scienza, occupa questo luogo" (Platone, Fedro, 247 e).

[11] "... l’anima, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare un’anima, e soprattutto quel tratto di questa in cui si trova la virtù dell’anima, la sapienza... Questa parte dell’anima è simile al divino, e, se la si fissa si impara a conoscere tutto ciò che vi è di divino, dio e la saggezza, e si ha la possibilità di conoscere perfettamente se stessi" (Platone, Alcibiade primo, 133 b-c).

[12] Platone, Fedone, 79 c-d.

[13] Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1970, p. 93.

[14] Fondazione della metafisica dei costumi, ed. cit., p. 92.

[15] Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1966, p. 437.

[16] Critica della ragion pura, ed. cit., pp. 141-142.

[17] Kant, Critica del Giudizio, Laterza, Bari 1979, p. 217.

[18] Critica del Giudizio, ed. cit., p. 274.

[19] Cfr. Critica della ragion pura, ed. cit., pp. 91-92 e Critica del Giudizio, ed. cit., pp. 275-284.

[20] Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b 26.

[21] Critica della ragion pura, ed. cit., pp. 149-150.