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Praga 1968: la sorte di Jiri Pelikan

di Sergio Romano - 18/07/2008



Ho letto l'intervento di un lettore sulla posizione del Pci di fronte agli interventi sovietici in Ungheria e in Cecoslovacchia. A proposito dell'invasione della Cecoslovacchia, faccio presente che la posizione del Pci al riguardo fu radicalmente diversa da quella assunta 12 anni prima a proposito dell'Ungheria.
Le riporto di seguito un paio di frasi delle dichiarazioni di Ingrao nel dibattito alla Camera del 30 agosto 1968 (riportate dalla Civiltà Cattolica - Civ. Catt. 1968, III, 517-518). Dopo un attacco alla maggioranza, che aveva bollato come strumentale la condanna dell'intervento fatta dal Pci nel Comitato centrale di pochi giorni prima («la goffaggine e i richiami all'indipendenza da parte di chi ha manifestato comprensione e si è fatto corresponsabile del genocidio in Vietnam»), Ingrao proseguì (seguo il riassunto della rivista dei gesuiti) osservando che «il nuovo corso non era esente da pericoli: il dissenso manifestato dal Pci non nasceva e non nasce dall'ignorare questi pericoli, ma dalla convinzione che l'intervento militare non è la via giusta per combattere quei pericoli». Come ho detto sopra, la posizione del Pci era quindi radicalmente mutata dall'adesione acritica sull'Ungheria.
Piero Stagno

Caro Stagno,
Come ha ricordato Enzo Bettiza in occasione dell'uscita del suo recente libro sugli avvenimenti della Cecoslovacchia («La primavera di Praga», edito da Mondadori), il Pci «deplorò»: espressione ambigua che poteva valere per gli invasori come per gli invasi. La stessa ambiguità riappare nelle dichiarazioni di Pietro Ingrao alla Camera che lei ricorda nella sua lettera. Ingrao sostiene anzitutto che il corso inaugurato da Alexander Dubceck e dai riformatori «non era esente da pericoli». E non condanna l'intervento, ma sostiene che «non è la via giusta per combattere quei pericoli». Insomma i riformatori sarebbero stati troppo imprudenti e l'Urss troppo impetuosa. Lei ha ragione quando osserva che fra le posizioni del '56 e quelle del '68 corre una grande differenza. Ma non sarebbe neppure giusto dimenticare che la vicenda di Praga fu sin dagli inizi molto diversa da quella di Budapest. Si trattò di una riforma, non di una rivoluzione e, per di più, cadde in un periodo della guerra fredda durante il quale il rischio di un scontro frontale in Europa era considerevolmente diminuito. Mosca avrebbe potuto affrontare il problema cecoslovacco con altri strumenti.
Quello che maggiormente mi colpisce nelle dichiarazioni di Ingrao, caro Stagno, non è la differenza dei toni rispetto ai tempi di Budapest, ma l'evidente disagio dell'esponente del partito comunista italiano. Ingrao non può approvare la violazione della sovranità cecoslovacca, ma è costretto a trovare qualche giustificazione per l'intervento. Vi è un altro episodio, del resto, che conferma questo disagio e mette in maggiore evidenza il grande imbarazzo del Pci in quel periodo.
L'episodio concerne Jiri Pelikan, amico e collaboratore di Dubceck, direttore della televisione all'epoca degli avvenimenti, personalità di spicco del blocco riformista. Nei mesi che precedettero la crisi e nei giorni cruciali dell'invasione, Pelikan fu probabilmente la persona che maggiormente contribuì, con i suoi programmi televisivi, a riscaldare il cuore dei riformatori. I sovietici lo detestavano. Quando Dubceck ritornò a Praga dall'Unione Sovietica, dove fu sequestrato per alcuni giorni, Pelikan era già in clandestinità, ma ne uscì, come ricorda Bettiza, per registrare il discorso umiliante che il segretario generale del partito fu costretto a pronunciare in quella occasione. Il leader riformatore era «spento, svuotato, privo di energie, come se avesse subito mesi di torture». Ma prese in disparte Pelikan per dirgli che i sovietici non lo avrebbero mai perdonato per ciò che la televisione aveva fatto nei sette mesi della «primavera» e nei sette giorni dell'occupazione. Fu questa la ragione per cui Pelikan, qualche giorno dopo, arrivò in Italia. Una delle sue prime iniziative fu l'invio di una lettera a Enrico Berlinguer da cui sperava di ricevere simpatia e aiuto. Quella lettera non ebbe mai risposta. L'aiuto venne dai socialisti e in particolare da Bettino Craxi che lo volle candidato del partito socialista alle prime elezioni del Parlamento europeo.