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Un quadro al giorno: «Forni di Sotto», di Luigi Diamante (1930)

di Francesco Lamendola - 28/10/2008

Un uomo piccolo e magro entra nella classe, in un silenzio che si potrebbe tagliare col coltello. Ha la barba mal rasata, indossa una giacca di lana sportiva e i suoi occhi brillano di una luce penetrante, mobilissima. Non certo giovane - ha più di sessant'anni - si muove a scatti, con una nervosa agilità, come se il tempo non gli pesasse minimamente.
Nei banchi, i ragazzi trattengono il fiato: lo stimano, ma ne hanno anche un sacro terrore. Le sue sfuriate sono memorabili. È il professore di disegno, Luigi Diamante: un pittore che ha fatto dell'arte la sua ragione di vita e che vorrebbe trasmettere loro almeno un po' di quel sacro fuoco indomabile, che lo consuma.
Chi, come lo scrivente, ha avuto il privilegio di trovarsi seduto su quei banchi, e di farsi piccolo, come tutti gli altri, quando il professor Diamante si accingeva a interrogare qualcuno, non ha più dimenticato i suoi modi, la sua voce, la sua genialità, la sua lezione di vita.
I suoi studenti, li mandava in giro per la città armati di un blocco e una matita. Niente gomma e, soprattutto, niente strumenti: mai, per nessuna ragione. «Quattro segni!» era il suo motto, che non si stancava di ribattere loro nel cervello: intendendo dire che, per esprimere un paesaggio, non c'è bisogno di tanti particolari: bisogna saper andare all'essenziale, cogliere l'anima delle cose. Quattro segni veloci, decisi, senza ripensamenti: quattro segni di matita per catturare una casa, un cortile, una via; per dare vita e movimento a un foglio di carta.
E che scoppi d'ira, se si accorgeva che qualcuno aveva cercato di abbellire il proprio disegno con l'aiuto del righello o della squadra! Per lui, non c'era delitto peggiore di quello.
Parlava con vice intensa, coinvolgente, mentre gli occhi saettavano come dardi e trapassavano l'interlocutore: era una forza della natura; nulla avrebbe potuto resistergli. Esortava i suoi studenti a essere se stessi, a esprimersi in modo creativo e originale; detestava la piattezza, l'insulsaggine, la banalità. Detestava il conformismo. Non ammetteva furbizie e piccole scappatoie; era un puro e, forse, un puritano. L'arte, per lui, era tutto.
Era anche modesto, come quasi tutti i friulani. Non parlava mai di se stesso, delle sue opere; solo in seguito i suoi ragazzi vennero a sapere che era un pittore, e un pittore di valore; anche se, come succede, i maggiori riconoscimenti gli son venuti, purtroppo, dopo la morte.
Un brutto giorno, alcuni anni dopo, in città si sparse la notizia che il professor Diamante era morto. Si diceva a mezza voce che era morto tragicamente: togliendosi la vita sotto le ruote di un treno. Tutti coloro che gli hanno voluto bene, che lo hanno ammirato e che hanno contratto un debito di gratitudine nei suoi confronti, sono rimasti profondamente scossi.
Ma non vogliamo ricordarlo così, Luigi Diamante, quando - carico di angosce e di preoccupazioni - fu sopraffatto dal senso di impotenza e decise di farla finita. No, non così: ma come quel professore pieno di entusiasmo, come quell'uomo pieno di vita e di un'energia travolgente, irresistibile, contagiosa, che riempiva di sé tutta la scuola.
Un uomo fuori dal comune; un uomo posseduto da una sola, grande passione; un uomo raro, capace di comprendere e valorizzare le capacità dei giovani; un uomo intelligente e buono, dietro la ruvida scorza del burbero intransigente.
Un maestro non solo nell'arte, ma anche nella vita.


Un maestro che, anche a distanza di tanti anni, è rimasto nitido nella memoria di quanti l'hanno conosciuto, come se se ne fosse andato ieri, verso un paese migliore.

Luigi Diamante è nato a Udine nel 1904 ed è morto a Fossalta di Portogruaro nel 1971.
Frequenta il Liceo Artistico a Venezia e, negli anni Venti, comincia a realizzare i suoi primi disegni e a dipingere i suoi primi quadri a olio; ma è solo verso la metà degli anni Trenta che comincia a farsi conoscere dal pubblico della sua città e, poi, a livello nazionale.
Professore di disegno dal 1937, decora ad encausto l'abside della chiesa di Nogaredo di Prato; poi, nel 1943 (dopo aver prestato servizio militare nella seconda guerra mondiale), realizza una serie di pannelli per la Mostra della Propaganda a Torviscosa e, nel 1946, lavora alla decorazione della facciata delle chiese di Manzano e Soleschiano. Dal 1947 inizia ad insegnare presso la Scuola media «Alessandro Manzoni», dove resterà sino alla fine.
Esistono oltre 400 tele ad olio di Diamante e un gran numero di altre opere eseguite a tempera, acquerello, pastello, matita e carboncino; molte sono di proprietà di svariati Enti pubblici del Friuli, altre si trovano presso privati.
Il Comune di Fossalta di Portogruaro ha allestito le opere acquistate dall'artista nella Quadreria Comunale a lui intitolata, ubicata presso la Villa Mocenigo di Alvisopoli.

Il percorso artistico di Luigi Diamante è stato lungo ed intenso e copre un arco di mezzo secolo, dall'inizio degli ai Venti al principio del 1971. Nelle ultime opere, più tormentate, ma anche più complesse e strutturalmente elaborate, la tavolozza si fa più scura, il tratto più nervoso, la pennellata più densa e pastosa, quasi espressionista.
Nel «Cristo in croce» del 1970, una delle sue ultime opere, vi sono la stilizzazione, la drammaticità e la tensione proprie di una ricerca formale e contenutistica spinta fino al limite estremo della densità e della incisività espressiva: la si direbbe una sorta di testamento spirituale, l'atto finale di una vicenda artistica volta alla ricerca di una sempre maggiore coerenza ed essenzialità. È un'opera che ricorda, per l'intensità della trasfigurazione del dato realistico, il simbolismo di un Georges Rouault, la sua purezza espressiva.
Anche nei disegni, e soprattutto nei ritratti, si nota la tendenza a concretizzare il disvelamento del lato nascosto della realtà, mediante un tratto svelto ed assai vigoroso; una linea che, michelangiolescamente, sembra quasi voler sottrarre ciò che è superfluo, piuttosto che aggiungere elementi compositivi. In un certo senso, i ritratti a matita, ma anche quelli ad olio, come il notevole «Autoritratto» dallo sguardo penetrante e dalla atmosfera vangoghiana, sono anche e soprattutto degli studi psicologici, dei momenti di intensa verità interiore.

L'opera su cui vogliamo soffermare adesso la nostra attenzione, però, appartiene a una fase più serena e luminosa del percorso artistico di Luigi Diamante. Si tratta della tela a olio intitolata «Forni di Sotto» (cm. 31 x 37), del 1930, e ci immerge in un clima più disteso, dalla tavolozza schiarita e dalla linea più dolce e armoniosa.
Luigi Diamante amava la montagna, ai cui paesaggi ha dedicato parecchie opere. Al tempo stesso, gli oggetti della sua pittura - e questo vale anche per i paesaggi alpini - non hanno mai una funzione decorativa, non sono mai semplicemente descrittivi. I suoi paesaggi, come quelli di Gauguin o di Van Gogh, hanno un'anima da raccontare; o, per dir meglio, sono essi stessi "anima". Così come nei ritratti egli punta dritto verso l'anima delle persone, così nei paesaggi sa andare direttamente fino all'anima dei luoghi.
Negli anni Venti e nei primi anni Trenta - il periodo cui appartiene Forni di Sotto - i suoi paesaggi preferiti sono i poveri borghi di paese o della periferia cittadina; le giostre e i baracconi circondati dalle case popolari e da un po' di verde urbano; qualche orticello o giardinetto racchiuso nella cerchia di vecchi edifici; o, ancora, delle umili abitazioni ricoperte dalla neve, sotto un cielo livido e triste, come nella Montmartre ancor quasi rurale di Maurice Utrillo.
Da quelle tele, raramente animate dalla presenza umana, si comunica un senso di abbandono, di solitudine, di tristezza e, talvolta, di squallore; eppure, al tempo stesso, anche un senso di verità, di rude, austera semplicità e schiettezza: come se la vita avesse cose troppo importanti di cui occuparsi, che non la bellezza esteriore.
Sono opere commoventi, a loro modo: testimonianze di un tempo - che oggi sembra così lontano, ma che è trascorso tanto in fretta - in cui essere poveri non era ancora motivo di vergogna, perché era una condizione relativamente comune; e in cui il linguaggio delle cose era fatto di una sobria, pudibonda e quasi scontrosa nudità.
Vi si sentono echi crepuscolaristi: le domeniche da cane randagio di Marino Moretti, le care vecchie cose di pessimo gusto di Gozzano; un minimalismo che cerca nel mondo la massima semplicità ed essenzialità, per trarne una lezione di vita, oltre che d'arte. Eppure, più che le atmosfera tristi e nebbiose di Ottone Rosai; più che il primitivismo decadentistico di una certa provincia, dai tratti dimessi e trasognati, è a certe atmosfere di Ernst Ludwig Kircher che fa pensare la sua tavolozza a tratti vivace, la sua linea fluente e un po' naïf.
Nel quadro Forni di Sotto possiamo ammirare un momento insolitamente sereno nell'itinerario di questo artista inquieto, colto con la morbidezza cromatica e con la nitidezza formale che appartengono a certe opere della prima maniera di Eduard Munch; e con una vena sottilissima e quasi impercettibile di vaga inquietudine.
Sulla sinistra, in primo piano, una baita di legno, della quale si scorge solo uno spigolo e l'angolo del tetto: colta in controluce, spicca fortemente, col suo marrone scuro, sulle tinte più tenui del secondo piano. Al centro, una stradina che taglia per i prati, in una prevalente tonalità color ocra e marroncino: la stagione, dunque, è autunnale. Sulla destra, una casa a due piani rappresentata quasi per intero, con il duplice tetto spiovente, con il cancelletto di legno e le piccole finestre, e con l'alto camino che pare il fumaiolo d'una nave a vapore.
Sullo sfondo, una nuda montagna piramidale color indaco, che risalta contro il crema della casa e  il marroncino dei pascoli ; e, sopra di essa, un cielo azzurrino che rischiara la scena, ma senza illuminarla veramente; perché la scena è luminosa, ma di una luce diffusa e senza sole - come, appunto, nelle giornate autunnali in montagna.
Le superfici di colore sono relativamente uniformi; l'aria è nitida; i contorni degli oggetti - la strada, le due case, la montagna dominante - sono netti, senza sfumature.
L'intera scena ha la dolcezza malinconica e l'estatico raccoglimento di un'abbazia immersa nel silenzio: è una scena religiosa nella sua francescana, disadorna bellezza e nel senso di accettazione della vita che è proprio degli spiriti umili.
La si direbbe la traduzione sulla tela dei canoni della "poesia onesta" di Umberto Saba: pittura di verità, che non vuole abbellire le cose, perché esse possiedono già una soavità intrinseca e inconsapevole, come quella di una fanciulletta che non sa ancora di essere bella.

Forni di Sotto è un omaggio alla vita, ai ritmi della natura, ai silenzi carichi di musica interiore, alla struggente purezza del reale.
È l'opera di un artista puro, che vede nel mondo una finestra spalancata su noi stessi, sulla nostra verità di esseri umani.
Per questo, la montagna dipinta da Luigi Diamante non è né romantica, né eroica, né grandiosa, né sublime. È semplice e quasi dimessa, come lo sono (o, forse, lo erano) le donne del Friuli, abituate a una vita di lavoro, di sacrifici, di solitudine: con i figli e i mariti emigranti, e una casa da mandare avanti, nonostante tutto.
Eppure è una montagna colta con amore, con delicatezza, con tutto il pudore di un animo gentile; una montagna che parla al cuore, sena bisogno d'inutili discorsi. È la Carnia nobilmente povera, ma fiera, cantata da Carducci ne  Il comune rustico.
Se non siete mai stati in Carnia, guardate questo quadro di Diamante.  Quelle due case e quel monte sullo sfondo vi diranno più cose su di essa e sulla sua gente, di quante non potrebbero mai dirne più di cento discorsi.