Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La National Security Strategy dell’Amministrazione Trump: un bagno di realtà

La National Security Strategy dell’Amministrazione Trump: un bagno di realtà

di Giacomo Gabellini - 08/12/2025

La National Security Strategy dell’Amministrazione Trump: un bagno di realtà

Fonte: Giacomo Gabellini

Nei giorni scorsi, la Casa Bianca ha pubblicato la National Security Strategy of the United States of America, che ricalca le linee guida della bozza della National Defense Strategy rivelate a settembre da «Politico» e dal «Washington Post».
Il documento si apre con la premessa del presidente Trump, il quale sottolinea come «nei passati nove mesi, abbiamo risollevato la nostra nazione – e il mondo intero – dall’orlo della catastrofe. Dopo quattro anni di debolezza, estremismo e fallimenti micidiali, la mia amministrazione si è mossa con risolutezza e rapidità storica per ripristinare la potenza statunitense sia in patria che all’estero, così da portare pace e stabilità nel mondo».
Secondo Trump, «nessuna precedente amministrazione è riuscita a conseguire un cambiamento di rotta di simile portata in un lasso così ristretto di tempo». I capisaldi della svolta vengono individuati nella efficace difesa dei confini; nel blocco dei flussi migratori; nella ricostruzione delle forze armate, “depurate” dai devastanti condizionamenti woke; nella maggior contribuzione degli alleati al finanziamento delle funzioni legati alla difesa.
Trump rivendica con orgoglio che, «attraverso l’Operazione Midnight Hammer, abbiamo distrutto le capacità iraniane di arricchimento dell’uranio. Ho qualificato i cartelli della droga e i gruppi criminali stranieri come organizzazioni terroristiche. Nell’arco di otto mesi, abbiamo posto fine a otto sanguinosi conflitti – quelli tra Cambogia e Thailandia, tra Kosovo e Serbia, tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda, tra il Pakistan e l’India, tra Israele e l’Iran, tra l’Egitto e l’Etiopia, tra l’Armenia e l’Azerbaijan. Abbiamo inoltre concluso la guerra a Gaza restituendo alle loro famiglie tutti gli ostaggi vivi rimasti».
Gli Stati Uniti, sottolinea Trump, «sono tornati ad essere forti e rispettati – e grazie a questo, stiamo portando pace in tutto il mondo. In tutto ciò che facciamo, poniamo gli Stati uniti al primo posto».

I principi generali
Si passa quindi alla National Security Strategy vera e propria, che si apre con un implacabile atto d’accusa nei confronti delle élite che hanno guidato il Paese negli ultimi decenni, responsabili di aver «sovrastimato la disponibilità degli Stati Uniti ad accollarsi in pianta stabile oneri globali di cui la popolazione non intravedeva alcun collegamento con l’interesse nazionale. 
Hanno sopravvalutato la capacità degli Stati Uniti di finanziare, contemporaneamente, un enorme apparato di welfare, regolamentazione e amministrazione, insieme a un ciclopico complesso militare, diplomatico, di intelligence e di assistenza all’estero. Hanno puntato in modo enormemente sbagliato e distruttivo sul globalismo e sul cosiddetto “libero scambio”, svuotando la classe media e la base industriale da cui dipende la preminenza economica e militare statunitense.
Le classi dirigenti del passato «hanno permesso ad alleati e partner di scaricare il costo della loro difesa sulla nostra popolazione, e talvolta di trascinarci in conflitti e controversie centrali per i loro interessi ma periferici o irrilevanti per i nostri. Hanno legato la politica statunitense a una rete di istituzioni internazionali, alcune delle quali guidate da un aperto anti-americanismo e molte da un transnazionalismo che cerca esplicitamente di dissolvere la sovranità dei singoli Stati.
In sintesi, non solo le nostre élite hanno perseguito un obiettivo fondamentalmente indesiderabile e impossibile da raggiungere, ma così facendo hanno minato proprio i mezzi necessari per raggiungere tale obiettivo: il carattere della nostra nazione su cui si basava il suo potere, la sua ricchezza e la sua dignità».
La prima delle «correzioni necessarie» che l’amministrazione in carica intende apportare consiste nell’affermare i principi cardine della nuova National Defense Strategy, vale a dire:
- chiara identificazione dell’interesse nazionale;
- pace attraverso la forza;
- predisposizione al non interventismo;
- ealismo flessibile;
- priorità alle nazioni;
- sovranità e rispetto;
- equilibrio delle forze;
- costruzione di un’America pro-lavoratori;
- correttezza;
- competenza e merito.
La “pace attraverso la forza” si fonda sul presupposto che «la potenza militare rappresenta il miglior deterrente», da porre al servizio di un “interventismo temperato” incompatibile sia con la visione sposata dai neoconservatori che con l’isolazionismo predicato dai Padri Fondatori. «Per un Paese i cui interessi sono così numerosi e diversificati come i nostri, una rigida adesione al non-interventismo non è possibile. Eppure, questa predisposizione dovrebbe stabilire un limite elevato per ciò che costituisce un intervento giustificato», recita il documento.
Il “limite elevato” a cui si fa riferimento è chiaramente enunciato nel paragrafo relativo al “realismo flessibile”, in cui si spiega che «cerchiamo buone relazioni e relazioni commerciali pacifiche con le nazioni del mondo senza imporre loro cambiamenti democratici o sociali che si discostino notevolmente dalle loro tradizioni e storie».
L’attrito con l’idealismo wilsoniano che ispira a tutt’oggi le linee d’azione dei democratici è palese, e si riscontra anche nella propensione ad attribuire la priorità alle nazioni, identificate come unici soggetti titolari di una sovranità legittima insidiata dalle «organizzazioni transnazionali più invadenti». Le quali vanno adeguatamente riformate «affinché favoriscano, anziché ostacolare, la sovranità individuale e promuovano gli interessi statunitensi».
Allo stesso modo, occorre contrastare «i tentativi da parte di potenze o entità straniere di censurare il nostro dibattito o limitare i diritti di libertà di parola dei nostri cittadini, delle operazioni di lobby e influenza che mirano a orientare le nostre politiche o a coinvolgerci in conflitti stranieri, e della cinica manipolazione del nostro sistema di immigrazione per costruire blocchi elettorali fedeli a interessi stranieri all’interno del nostro Paese».
La difesa della sovranità va conciliata con l’impegno a evitare che una qualsiasi nazione straniera raggiunta una soglia di potere così elevata da minacciare gli interessi degli Stati Uniti, chiamati tuttavia a emanciparsi dallo «sfortunato concetto di dominio globale» unipolare. Occorre quindi «collaborare con alleati e partner», ma senza «sprecare sangue e denaro per limitare l’influenza di tutte le grandi e medie potenze del mondo».
Alla voce “costruzione di un’America pro-lavoratori”, si legge che: «la politica statunitense sarà a favore dei lavoratori, non solo della crescita, e darà priorità ai nostri lavoratori. Dobbiamo ricostruire un’economia in cui la prosperità sia ampiamente diffusa e condivisa, non concentrata ai vertici o localizzata in determinati settori o in poche aree del nostro Paese».
Nel punto relativo a “correttezza”, invece, il documento spiega che: «non tollereremo più, e non possiamo più permetterci, concessione gratuita di privilegi verso altre entità, squilibri commerciali, pratiche economiche predatorie e altre imposizioni sulla storica buona volontà della nostra nazione che sfavoriscono i nostri interessi. Così come vogliamo che i nostri alleati siano ricchi e capaci, allo stesso modo devono rendersi conto che è nel loro interesse che anche gli Stati Uniti rimangano ricchi e capaci. In particolare, ci aspettiamo che i nostri alleati spendano una quota molto maggiore del loro Pil per la propria difesa, per iniziare a compensare gli enormi squilibri accumulati in decenni di spesa molto maggiore da parte degli Stati Uniti».
Il merito va inoltre recuperato come unico criterio di selezione, dopo anni di marginalizzazione dovuta all’affermazione di «ideologie radicali che cercano di sostituire la competenza con l’assegnazione di privilegi a determinati gruppi».
 
Le priorità
Nell’elenco delle priorità identificate dalla National Security Strategy figurano anzitutto la difesa dei confini in un’ottica di interruzione dei flussi migratori e la protezione dei diritti e delle libertà fondamentali in patria.
Un’attenzione particolare viene tuttavia riservata alla condivisione degli oneri: «i giorni in cui gli Stati Uniti sostenevano l’intero ordine mondiale come Atlante – si legge nel documento – sono finiti. Tra i nostri numerosi alleati e partner annoveriamo decine di nazioni ricche e sofisticate che devono assumersi la responsabilità primaria delle proprie regioni e contribuire molto di più alla nostra difesa collettiva».
Il recente impegno strappato ai Paesi membri della Nato – ad eccezione della Spagna – a destinare al bilancio della Difesa il 5% del Pil viene portato come fulcro di una «rete di condivisione degli oneri, con il nostro governo come coordinatore e sostenitore». Una sorta di “decentramento amministrativo” che vincola gli alleati ad «assumersi la responsabilità primaria delle proprie regioni».
Riecheggiando il piano operativo messo a punto dall’economista Stephen Miran, il documento sostiene che una fondamentale spinta al riequilibrio dei rapporti con l’estero deve provenire dal commercio: «gli Stati Uniti daranno priorità alla riduzione dei deficit commerciali, all’eliminazione delle barriere alle nostre esportazioni, alla fine del dumping e di altre pratiche anticoncorrenziali che danneggiano le industrie e i lavoratori statunitensi. Cerchiamo accordi commerciali equi e reciproci con le nazioni che desiderano commerciare con noi sulla base di reciproco vantaggio e rispetto. Ma le nostre priorità devono e saranno i nostri lavoratori, le nostre industrie e la nostra sicurezza nazionale».
Il documento richiama esplicitamente il monito di Alexander Hamilton – ridurre al massimo la dipendenza dall’estero per le forniture critiche – per legittimare una linea d’azione volta a espandere l’accesso statunitense ai materiali fondamentali.
La comunità di intelligence è chiamata invece a «monitorare le principali catene di approvvigionamento e i progressi tecnologici in tutto il mondo per garantire la comprensione e la mitigazione delle vulnerabilità e delle minacce alla sicurezza e alla prosperità statunitense».
Il futuro, si legge nel documento, «appartiene a coloro che creano. Gli Stati Uniti reindustrializzeranno la propria economia, riporteranno in patria le produzioni di livello più basso, incoraggeranno e attireranno investimenti nell’economia nazionale e nella forza lavoro, concentrandosi sui settori tecnologici critici ed emergenti. Lo faremo attraverso l’uso strategico di dazi e nuove tecnologie che favoriscano una produzione industriale diffusa in ogni angolo del Paese, migliorino gli standard di vita dei lavoratori americani e facciano sì che il nostro Paese non dipenda mai più da alcun avversario, reale o potenziale, per prodotti o componenti critici».
La National Security Strategy riconosce che «un esercito forte e capace non può esistere senza una base industriale altrettanto forte e capace. L’enorme divario, dimostrato nei recenti conflitti, tra droni e missili a basso costo e i costosi sistemi necessari per la difesa ha messo a nudo la necessità di cambiare e adattarci. Gli Stati Uniti hanno bisogno di una mobilitazione nazionale per mettere a punto difese potenti a basso costo, produrre su larga scala sistemi d’arma e munizioni più performanti e riorganizzare le catene di approvvigionamento del settore della difesa.
In particolare, dobbiamo fornire alle nostre forze armate l’intera gamma di capacità, che vanno dalle armi a basso costo in grado di sconfiggere la maggior parte degli avversari fino ai sistemi di fascia alta necessari per conflitti con nemici sofisticati. E per realizzare la visione del presidente Trump basata sul principio di “pace attraverso la forza”, dobbiamo agire rapidamente. Incoraggeremo inoltre la rivitalizzazione delle basi industriali di tutti i nostri alleati e partner per rafforzare la difesa collettiva».
Uno dei presupposti basilari per la realizzazione del progetto consiste nel «ripristino del predominio energetico statunitense (petrolio, gas, carbone e nucleare) e il rimpatrio delle componenti energetiche chiave. Energia economica e abbondante creerà posti di lavoro ben retribuiti negli Stati Uniti, ridurrà i costi per i consumatori e le imprese, alimenterà la reindustrializzazione e contribuirà a mantenere il nostro vantaggio in tecnologie all’avanguardia come l’intelligenza artificiale.
L’espansione delle nostre esportazioni nette di energia approfondirà anche le relazioni con gli alleati, limitando al contempo l’influenza degli avversari, proteggendo la nostra capacità di difendere le nostre coste e, quando e dove necessario, consentendoci di proiettare il nostro potere. Rifiutiamo le disastrose ideologie del “cambiamento climatico” e dello “zero emissioni” che danneggiato l’Europa, minacciano gli Stati Uniti e arricchiscono i nostri avversari».
Per l’amministrazione Trump, il conseguimento di questi obiettivi centrati sull’economia reale va conciliato con la preservazione dell’egemonia statunitense in ambito finanziario.
«Gli Stati Uniti – recita il documento – vantano i principali mercati finanziari e dei capitali al mondo. Si tratta di veri e propri pilastri dell’influenza statunitense, che offrono ai decisori politici influenza e strumenti significativi per promuovere le priorità di sicurezza nazionale. Ma la nostra posizione di leadership non può essere data per scontata. Preservare e accrescere il nostro predominio implica sfruttare il nostro dinamico sistema di libero mercato e la nostra leadership nella finanza digitale e nell’innovazione per garantire che i nostri mercati continuino a essere i più dinamici, liquidi e sicuri».

La visione geopolitica
Sul piano geopolitico, il vero punto di svolta rintracciabile nella National Security Strategy verte sull’anteposizione della tutela degli interessi statunitensi nell’emisfero occidentale rispetto a qualsiasi altro obiettivo strategico, compresa la gestione della sfida cinese. In particolare, l’amministrazione Trump intende riaffermare e applicare, «dopo anni di negligenza, la Dottrina Monroe per ripristinare la preminenza statunitense nell’emisfero occidentale e proteggere la patria e il nostro accesso ad aree geografiche chiave in tutta la regione. Negheremo ai concorrenti non emisferici la possibilità di posizionare forze o altre capacità offensive, o di possedere o controllare risorse strategicamente vitali, nel nostro emisfero. Questo “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe rappresenta un ripristino efficace e ben congegnato del potere e delle priorità statunitensi, coerente con gli interessi di sicurezza nazionale».
La politica statunitense, recita la National Security Strategy, «dovrebbe concentrarsi sul reclutamento di leader regionali che possano contribuire a creare una stabilità tollerabile nella regione […]. Premieremo e incoraggeremo i governi, i partiti politici e i movimenti della regione ampiamente allineati con i nostri principi e la nostra strategia. Ma non dobbiamo trascurare i governi con prospettive diverse, con cui tuttavia condividiamo interessi e che desiderano collaborare con noi».
Va quindi attuato «un riadattamento della nostra presenza militare nel mondo» in funzione delle «minacce urgenti nel nostro emisfero». Occorre invece «allontanarsi da teatri la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale americana è diminuita negli ultimi decenni o anni».
Nell’ottica degli artefici del documento, «il rafforzamento delle catene di approvvigionamento critiche in questo emisfero ridurrà le dipendenze e aumenterà la resilienza economica statunitense. I legami creati tra gli Stati Uniti e i partner andranno a vantaggio di entrambe le parti, rendendo al contempo più difficile per i concorrenti non emisferici aumentare la propria influenza nella regione. E pur assegnando la priorità alla diplomazia commerciale, lavoreremo per rafforzare le nostre partnership in materia di sicurezza, dalla vendita di armi alla condivisione di intelligence fino alle esercitazioni congiunte».
L’approfondimento delle partnership con i Paesi dell’America Latina deve procedere di pari passo con «l’espansione della nostra rete regionale. Vogliamo che le altre nazioni ci considerino il loro partner di prima scelta e (attraverso vari mezzi) scoraggeremo la loro collaborazione con altri. L’emisfero occidentale ospita molte risorse strategiche che gli Stati Uniti dovrebbero sviluppare in collaborazione con gli alleati regionali, per rendere i Paesi vicini, così come il nostro, più prosperi. Il Consiglio per la Sicurezza Nazionale avvierà immediatamente un robusto processo inter-agenzia per incaricare le agenzie, supportate dal braccio analitico della nostra Intelligence Community, di identificare punti e risorse strategiche nell’emisfero occidentale al fine di proteggerli e svilupparli congiuntamente con i partner regionali».
I concorrenti non emisferici «hanno compiuto importanti incursioni nel nostro emisfero, sia per svantaggiarci economicamente nel presente, sia in modi che potrebbero danneggiarci strategicamente in futuro. Permettere queste incursioni senza una seria reazione è un altro grave errore strategico americano degli ultimi decenni. Gli Stati Uniti devono avere un ruolo preminente nell’emisfero occidentale come condizione per la nostra sicurezza e prosperità. Una condizione che ci consenta di affermarci con sicurezza dove e quando necessario nella regione. I termini delle nostre alleanze e le condizioni in base alle quali forniamo qualsiasi tipo di supporto devono essere subordinati alla riduzione dell’influenza degli avversari non emisferici, dal controllo di installazioni militari, porti e infrastrutture chiave all’acquisizione di asset strategici in senso lato».
Alcune influenze straniere, riconosce il documento, «saranno difficili da invertire, dati gli allineamenti politici tra alcuni governi latinoamericani e alcuni attori stranieri. Tuttavia, molti governi non sono ideologicamente allineati con le potenze straniere, ma sono invece attratti dal fare affari con loro per altri motivi, tra cui bassi costi e minori ostacoli normativi».
Soprattutto, «la scelta che tutti i Paesi dovrebbero affrontare è se vogliono vivere in un mondo guidato dagli Stati Uniti, con Paesi sovrani ed economie libere, o in un mondo parallelo in cui sono influenzati da Paesi dall’altra parte del mondo».
La macroregione dell’Indo-Pacifico, invece, deve rimanere «libera e aperta», mentre il confronto con la Cina va mantenuto sul piano strettamente economico onde evitare pericolose escalation belliche.
Occorre quindi rovesciare la politica eccessivamente accondiscendente verso l’ex Celeste Impero portata avanti dalle precedenti amministrazioni, attraverso il «bilanciamento delle relazioni sino-statunitensi», il consolidamento della deterrenza militare e il coinvolgimento dei Paesi alleati in questo sforzo concertato volto sostanzialmente a realizzare l’agognato disaccoppiamento della Cina.
Quest’ultima, si legge all’interno della National Security Strategy, «si è adattata al cambiamento della politica tariffaria statunitense iniziato nel 2017, in parte rafforzando la propria presa sulle catene di approvvigionamento, soprattutto nei Paesi a basso e medio reddito – i quali rappresenteranno tra i maggiori campi di battaglia economici dei prossimi decenni. Le esportazioni cinesi verso i Paesi a basso reddito sono raddoppiate tra il 2020 e il 2024. Gli Stati Uniti importano beni cinesi indirettamente da intermediari e fabbriche costruite in Cina in una dozzina di Paesi, tra cui il Messico. Le esportazioni cinesi verso i Paesi a basso reddito sono oggi quasi quattro volte superiori alle esportazioni verso gli Stati Uniti. Quando il presidente Trump entrò in carica nel 2017, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti erano pari al 4% del Pil, ma da allora sono scese a poco più del 2%. La Cina continua tuttavia a esportare verso gli Stati Uniti attraverso altri proxy».
Quanto all’Europa, gli Stati Uniti dovrebbero aiutarla a correggere la sua attuale traiettoria, così da «ripristinare la stabilità strategica con la Russia» e porre il “vecchio continente” nelle condizioni di «stare in piedi da solo e operare come gruppo di nazioni sovrane allineate, compresa l’assunzione delle responsabilità connesse alla propria difesa».
L’amministrazione Trump si ripromette inoltre di intensificare gli sforzi per «aprire i mercati europei alle merci e ai servizi statunitensi e assicurare un equo trattamento dei nostri lavoratori e imprese», nonché di «porre fine alla percezione, e prevenire la realizzazione, della Nato come di un’alleanza in perpetua espansione».
Come risultato della guerra russo-ucraina, «le relazioni tra Europa e Russia sono ora profondamente deteriorate, e molti europei considerano la Russia un rischio esistenziale. Riequilibrare le relazioni europee con la Russia richiederà un investimento diplomatico statunitense significativo, sia per ristabilire una condizione di stabilità strategica sulla massa territoriale eurasiatica che per mitigare il rischio di conflitto tra la Russia e gli Stati europei. È interesse centrale degli Stati Uniti quello di negoziare una rapida conclusione delle ostilità in Ucraina, così da stabilizzare le economie europee, prevenire involontarie escalation o allargamenti del conflitto e […] assicurare la ricostruzione dell’Ucraina a guerra finita garantendone la sopravvivenza come Stato autosufficiente […]. L’amministrazione Trump è in disaccordo con i governanti europei che nutrono aspettative irrealistiche sulla guerra».
Secondo fonti del Pentagono raggiunte da «Reuters» proprio nelle ore in cui la National Security Strategy veniva pubblicata, l’amministrazione Trump avrebbe richiesto all’Unione Europea di «assumere il controllo della maggior parte delle capacità di difesa convenzionali della Nato, dall’intelligence ai missili, entro il 2027».
Indicazioni analoghe sono state trasmesse alle autorità di Tokyo, cosicché il Giappone implementi, al pari della Germania, un piano di riarmo conforme alle esigenze statunitensi a ottant’anni di distanza dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
In riferimento al Medio Oriente, il documento ne attesta la decrescente rilevanza rispetto agli interessi nazionali statunitensi: «con l’abolizione o l’allentamento delle politiche energetiche restrittive che questa amministrazione intende attuare e l’aumento della nostra produzione energetica, la ragione storica che ha portato gli Stati Uniti a concentrarsi sul Medio Oriente verrà meno».
Il Medio Oriente diverrà una importante destinazione degli investimenti internazionali, e la sua centralità nel mercato mondiale dell’energia incoraggia Washington a perseguire rapporti collaborativi con i Paesi che lo compongono, nel rispetto delle loro culture e tradizioni.
Nel complesso, gli Stati Uniti «avranno sempre un interesse fondamentale nel garantire che le forniture energetiche del Golfo non cadano nelle mani di un nemico dichiarato, che lo Stretto di Hormuz rimanga aperto, che il Mar Rosso rimanga navigabile, che la regione non diventi un incubatore o un esportatore di terrore contro gli interessi statunitensi e la nostra patria, e che Israele rimanga sicuro».
L’Africa occupa un ruolo molto marginale nella National Security Strategy, che si limita a parlare di «collaborazione con alcuni Paesi selezionati per attenuare i conflitti, promuovere relazioni commerciali reciprocamente vantaggiose e passare da un paradigma di aiuti a un paradigma di investimenti e crescita in grado di sfruttare le abbondanti risorse naturali e il potenziale economico latente» del continente.

Considerazioni
La realizzazione del mutamento d’approccio delineato all’interno della National Security Strategy si colloca alla base di diverse prese di posizione e provvedimenti concreti assunti dall’amministrazione Trump, dalle rivendicazioni su Groenlandia e Panama alle ambizioni annessioniste nei confronti del Canada; dalla mobilitazione della Guardia Nazionale a sostegno delle forze dell’ordine a Washington e Los Angeles allo schieramento dell’Immigration and Customs Enforcement in Oregon; dalla militarizzazione del confine con il Messico al taglio dei fondi previsti dal programma di sostegno militare ai Paesi baltici.
Stesso discorso vale per il dispiegamento di una imponente squadra navale al largo delle coste del Venezuela, inserita sul piano ufficiale nel contesto della lotta al narcotraffico ma indubbiamente collegata all’esigenza di scalzare la presenza cinese e russa all’interno di un Paese che detiene le più grandi riserve accertate di petrolio, oltre a minerali critici di vario genere.
Segno che, nonostante le forti perplessità suscitate in seno agli apparati militari e di intelligence di Washington, il fulcro degli sforzi statunitensi sta spostandosi verso l’emisfero occidentale, conformemente a una riformulazione attualizzata della Dottrina Monroe di cui la National Security Strategy evidenzia gli aspetti fondamentali.
Ne scaturisce un ecosistema a cerchi concentrici che vincola gli Stati Uniti a porre sotto il proprio controllo i Paesi di più stretta prossimità geografica, da integrare in catene di approvvigionamento scollegate per quanto possibile da “Stati non emisferici” collocati su posizioni ostili.
Il riferimento è chiaramente diretto alla Cina, che la National Security Strategy si propone di contrastare rinsaldando lo schema di alleanza nello scacchiere asiatico e assegnando alle Us Navy il compito di presidiare le rotte commerciali nella macroregione dell’Indo-Pacifico.
Secondo Alexander Gray dell’Atlantic Council, «è importante sottolineare che la National Security Strategy cerca di tracciare una linea di demarcazione tra la sicurezza nel nostro emisfero e la deterrenza di Pechino in senso più ampio. Ciò rende esplicita una realtà di lunga data della competizione degli Stati Uniti con la Cina: Pechino cerca di distrarre gli Stati Uniti dal mantenimento dello status quo nell’Indo-Pacifico perseguendo attività antagoniste nell’emisfero occidentale».
I teatri europeo, mediorientale e soprattutto africano rivestono una rilevanza molto marginale nella visione strategica tratteggiata dall’amministrazione Trump, che focalizza invece l’attenzione sulle finalità di natura economica.
La conversione dell’intero emisfero occidentale nella sfera di influenza statunitense deve procedere di pari passo con la ricostruzione della base industriale, realizzabile canalizzando capitali sia nazionali che stranieri verso i settori di rilevanza strategica come l’intelligenza artificiale.
L’edificazione di un’industria nazionale riveste un’importanza fondamentale non soltanto in un’ottica di allentamento dei vincoli di dipendenza dall’esterno, ma anche per risollevare il tenore di vita di milioni di cittadini statunitensi.
Il documento appena pubblicato si propone di correggere storture in materia di pianificazione strategica accumulate per tre decenni. Un trentennio che ha visto gli Stati Uniti disperdere risorse ed energie in conflitti localizzati in teatri periferici, ponendo le basi per una sovraestensione ormai anacronistica perché non commisurata alle capacità reali del Paese.
Sotto questo aspetto, la National Security Strategy messa a punto dall’amministrazione Trump restringe notevolmente lo spettro degli interessi e degli obiettivi statunitensi, ancorando la sicurezza nazionale statunitense a prospettive di rilancio economico che richiedono l’efficace gestione di sfide – dalla reindustrializzazione all’acquisizione di una posizione dominante nel campo dell’intelligenza artificiale – di portata epocale.
Al netto dell’enfasi posta sistematicamente sui (presunti) punti di forza del Paese, la National Security Strategy viene a configurarsi per un verso come una presa d’atto delle difficoltà crescenti che gli Stati Uniti riscontrano nel preservare la propria posizione egemonica. Per l’altro, come un embrionale tentativo di adattamento a un assetto internazionale “post-unipolare”, caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di centri di potenza concorrenti.