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Il segreto è spalancare porte sull'infinito quando sembra di essere giunti in un vicolo cieco

di Francesco Lamendola - 08/12/2008

 

Vuoi sapere, Sabina, che cosa resta da fare quando si sente d'essere giunti in un vicolo cieco; quando davanti a noi sembrano ergersi solo muraglie nude, lisce, senza una fessura né una sporgenza per tentare di arrampicarvisi; quando le ombre del futuro sembrano farsi più fitte e minacciose di quelle del presente.
Te lo dirò volentieri.
Il segreto consiste nel non credere che quelle pareti ci possano realmente fermare; che, con esse, la strada finisca davvero; nel non lasciarci soggiogare dal senso d'impotenza e di claustrofobia, dalla convinzione che ogni sforzo ulteriore sarebbe ormai vano. Non si tratta di crearsi delle illusioni, di superare lo scacco solo mediante l'autosuggestione; ma di superarlo realmente, prendendo in mano la realtà ostile e piegandola al nostro volere, così come un bambino modella la creata con mano decisa, per trarne le figure che desidera.
Come è possibile?, mi chiedi.
Non lo so: so solo di averlo, più volte, sperimentato; anzi, di averne fatto esperienza così spesso e in modo così completo, da credervi con lo stesso grado di certezza con cui credo al sorgere del sole o allo spuntare delle gemme sui rami degli alberi.
Pertanto, non te lo so spiegare; posso dirti, però, come avviene. È come se si aprisse, ad un certo punto, un terzo occhio: un occhio che vede la luce, là dove prima non vi era che tenebra; un occhio che spalanca gli orizzonti, là dove la prospettiva pareva chiudersi irrimediabilmente; un occhio che permette alla seconda vista di spingersi lontano, là dove non era dato di scorgere nulla oltre la nuda muraglia posta a sbarrare la via.
Non saprei dirti come avviene; ma so che avviene. Non pretendo di studiarlo e misurarlo o, magari, di poter riprodurlo in laboratorio; lascio un simile esercizio a menti più sottili e più esigenti della mia; menti che non trovano pace o riposo se non dopo avere tutto sterilizzato, imbalsamato, etichettato e catalogato. Quanto a me, pur essendo curioso di ogni fenomeno e di ogni mistero, non provo né mai ho provato un tal genere di curiosità.
Dunque, le cose stanno così. Un momento tu sei spinto nell'angolo, ti trovi bloccato, paralizzato, disarmato; non puoi procedere né retrocedere; non puoi alzarti né abbassarti: sei circondato dal nulla, dal buio, dallo sconforto. Un momento dopo, ti trovi immerso nella luce, nell'aria fresca, nel rigoglio di un meraviglioso giardino primaverile, con il cielo azzurro sopra la testa e il richiamo armonioso di cento uccelli tra le fronde, mentre un ruscello taglia il prato fra l'erba soffice e scorre mormorando e riflettendo in superficie scaglie di sole.
Non credere, però, che sia così facile come può sembrare, né che basti stare ad attendere, perché il miracolo si verifichi spontaneamente.
Se qualcosa ho compreso di tutto questo - e bada che ho detto "se" -, allora devo subito aggiungere che il prodigio benefico ha cominciato a manifestarsi solo dopo aver fatto molta strada, molti errori e aver provato molta incertezza e solitudine; solo dopo molto riflettere e interrogarmi e guardarmi dentro e intorno; solo dopo essere stato messo e rimesso alla prova e dopo avere fallito non una volta, ma parecchie.
Credo, pertanto, che l'apparente naturalezza con cui si spalancano, ora, le porte dell'infinito, quando mi sembra d'essere giunto in fondo ad un vicolo cieco, non sia altro che il risultato di mille precedenti sconfitte e di anni ed anni di angosce e timori.
In un certo senso, è come se tornassi dopo avere a lungo vissuto in una regione stralunata e deserta, dove non abita nessuno, con la sola compagnia del vento fischiante e ululante fra le rocce di un'arida pietraia.
Sì, credo che il segreto sia questo.
Le porte dell'arcobaleno non si spalancano sempre e comunque; ma solo dopo che ciascuno è stato messo alla prova, lungamente e dolorosamente. Né bisogna aspettarsi che, d'ora in avanti, esse torneranno ad aprirsi ogni volta che noi ci troveremo sospinti nell'angolo: no, nulla va dato per scontato, nulla è da considerarsi acquisito una volta per tutte.
Il pellegrino dev'essere sempre pronto a rimettersi in viaggio: mai deve lasciarsi inebriare dalla illusoria certezza di essere giunto alla meta, di aver superato la prova. Anche se è arrivato a sedere al posto d'onore, alla tavola riccamente imbandita e con paggi e fanciulle sfarzosamente vestiti, pronti a servirlo, il suo cuore di pellegrino deve essersi conservato umile e puro, come quando vagava sulle strade polverose, con i piedi sanguinanti e le membra rotte dalla fatica.
In qualunque momento, quando sente il corno risuonare giù nella valle, egli dev'essere pronto ad alzarsi dalla tavola riccamente imbandita, a deporre le sue vesti sontuose e a salutare, forse per sempre, gli amici più cari. Deve riprendere in mano il bordone da pellegrino, calzare i sandali di quando era giovane e inesperto e rimettersi in via, senza rimpianti e senza recriminazioni. Solo a quel patto, forse, le porte dell'arcobaleno torneranno ad aprirsi davanti a lui, quando si troverà nella tristezza e nel bisogno.
La sua figura non è né può essere quella del Mago, del Bagatto, dell'uomo che confida nelle proprie forze, stringendo con orgoglio gli strumenti del suo sapere e del suo valore; no: ma avrà l'apparenza del povero viandante che non confida in altro potere che quello della Luce, che non gli appartiene e di cui egli non è che un cercatore fragile e indigente.
Nel suo occhio non brilla la fierezza superba di chi si sente superiore alla media degli uomini, ma la scintilla di stupore per l'incanto del mondo, propria di chi non cessa di stupirsi, di lodare e di ringraziare l'Essere che tali meraviglie gratuitamente dispiega.
L'occhio altero e dominatore è l'espressione dell'orgoglio puerile; l'occhio gioiosamente stupito è la manifestazione di una incessante preghiera di lode e di ringraziamento.
Abbiamo già visto anche troppe volte, nella storia, quell'occhio altero e dominatore; abbiamo assistito alle inconcepibili crudeltà e ai folli disegni di conquista che da esso promanano, cospargendo il mondo di sofferenza e di sangue.
E non vorremmo più vederlo, perché odiosa è la sua luce e malvagie sono le opere che da esso si dispiegano nel mondo.

Questo è quanto posso dirti, Sabina.
Credo che ciascuno di noi sia chiamato alla gioia degli orizzonti che liberamente si spalancano sull'azzurro infinito, dopo le tenebre della prova e dell'angoscia; ma sono giunto alla conclusione che, per ottenere questo, ce ne dobbiamo - almeno in parte - rendere degni.
Tutte le cose preziose sono il frutto di molta ricerca e di molta fatica; spesso, di prove non lievi né indolori.
Tuttavia, animi volgari che non esitano a sobbarcarsi pene e tribolazioni per ghermire beni illusori e grossolani, tremerebbero di spavento e di orrore all'idea di dover sottoporsi a una prova per diventare degni di accedere a una saggezza superiore; per meritarsi - almeno un poco - di vedere il meraviglioso arcobaleno distendersi avanti a sé, nei momenti difficili.
Ecco: questo, forse, è il segreto: si perviene al prodigio delle porte sull'infinito, solo quando si ha imparato a distinguere l'oro dalla pula; a riconoscere ciò che è prezioso da ciò che è brillante, ma di natura vile.
Di nuovo, è il mistero della seconda vista o, se si preferisce, del terzo occhio. Perché, affermava Platone, il fatto è che noi cominciano realmente a vedere, solo quando gli occhi del corpo si chiudono.
Ma se noi non impareremo a sviluppare questa seconda vista, il mondo, per noi, continuerà ad essere soltanto il palcoscenico di una tragicommedia di dubbio gusto e dal significato incomprensibile; il teatro delle nostre vanità, delle nostre illusioni, dei nostri egoismi in perenne conflitto con le vanità, le illusioni e gli egoismi degli altri esseri umani. La sua bellezza rimarrà muta per noi; e nessuna porta ci si spalancherà innanzi, quando ne avremo bisogno.

Mi chiedi, Sabina, se questa rivelazione si sia verificata d'un tratto o se si sia annunciata da lontano, gradualmente, nel corso del tempo.
Credo, volgendomi indietro a guardare il passato, che si sia manifestata gradualmente, ma che essa sia sempre stati lì, sfolgorante di bellezza e di luce; è la vista umana che solo a poco a poco, raffinandosi, diviene capace di scorgerla.
Credo che, sostanzialmente, avesse ragione Kierkegaard, anche in questo: dapprima è la vita estetica; poi, quella etica; infine, la religiosa. E anche la rivelazione dell'Essere si manifesta così, grado a grado, accompagnando l'evoluzione dell'anima.
In un primo tempo, dunque, la seconda vista si apre confusamente nella dimensione estetica dell'esistenza.
Ricordo una sera di molti anni fa. Ero militare - negli alpini: specialità, artiglieria da montagna; e la mia anima vagava in una umida e fredda sera d'inverno, intirizzita e piena di nostalgia. D'un tratto, un balcone di legno - un balcone di legno, con le scale esterne, pure di legno, e i vasi di gerani dietro i vetri: ed ecco il prodigio: il calore della bellezza, della poesia che incendia le cose coi suoi colori incandescenti e riscalda il cuore, inesplicabilmente.
Ma si tratta di una rivelazione esile, momentanea, circondata minacciosamente da densi strati di oscurità, di sconforto e di tristezza. E così è sempre stato: dipingevo, allora, e scrivevo poesie; ma sempre il dono della bellezza è stato fuggevole, sempre in procinto di dileguarsi.
Poi, la seconda vista inizia a svilupparsi nella sfera della vita etica. E, come giustamente ha osservato Kierkegaard, l'impegno che due persone stringono fra loro, nella solitudine dell'esistenza, specialmente allorché si rendono disponibili a trasmettere, a loro volta, il mistero della vita, ne è l'emblema e, forse, la più alta manifestazione.
In quella fase, accade talvolta di ritrovare il prodigio dell'arcobaleno di luce, degli orizzonti che si spalancano liberi e gioiosi; ma, ancora, si tratta di momenti di grazia, intervallati da un lungo e faticoso andare a tentoni nel buio.
Infine, un bel giorno, il viandante riprende il bordone e si rimette sulla via: non è più giovane, molte illusioni ha visto tramontare all'orizzonte della propria vita; ma, nel cuore, lo incendia ancora la febbre della scoperta, lo riscalda come non mai la fiamma dello stupore.
Ecco: è allora, quando impara a fidarsi sempre meno di se stesso e sempre più del potere benefico che scende dall'alto; quando recide gli ultimi legami con la smania del possesso, del controllo sugli altri, del dominio sulle cose; quando apprende a fare di sé un organo di silenzio, di ascolto e di fiduciosa apertura al richiamo dell'Essere: allora - non come una retribuzione dovuta, ma come un dono assolutamente gratuito - gli verrà offerto l'arcobaleno di luce.
Nemmeno adesso potrà disporne in maniera totale e definitiva; nemmeno adesso potrà dirlo suo per sempre, e allontanare una volta per tutte il buio dell'incertezza e del timore; ma, d'altra parte, non si tratterà più di rari momenti d'estasi, ma di un compagno di viaggio che, pur non mostrandosi sempre, sappiamo esserci accanto, fedele e premuroso.
Si tratta solo di chiamarlo nella maniera giusta: con umiltà, con fiducia, con gioia. E lui verrà, e ci darà il braccio nei momenti difficili.
Questo solo posso dirti, Sabina; non so come avvenga, né perché.
So soltanto che accade: e credo che tutti possiamo farne esperienza, se soltanto impariamo a spogliarci del nostro piccolo Io, volubile, capriccioso e tirannico, per aprirci al mistero dell'Essere.