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Guerra liquida: benvenuti nel Pipelineistan

di Pepe Escobar - 02/04/2009

 


 


Quello che accade sull'immenso campo di battaglia per il controllo dell'Eurasia fornirà gli elementi decisivi nella corsa sfrenata verso un nuovo, policentrico ordine mondiale, il cosiddetto Nuovo Grande Gioco.

La cara vecchia insensata “ guerra globale al terrore” che il Pentagono ha astutamente ricommercializzato come “la guerra lunga”, ha una gemella ben più importante anche se semi-nascosta: una guerra globale per l'energia. Mi piace definirla la Guerra Liquida, perché il suoi vasi sanguigni sono gli oleodotti e i gasdotti che attraversano i potenziali campi di battaglia imperiali del pianeta. In altre parole, se la sua assediata e cruciale frontiera in questi giorni è il Bacino del Caspio, la sua scacchiera è la totalità dell'Eurasia. La definiremo, geograficamente, Pipelinestan.

Tutti i drogati di geopolitica hanno bisogno della loro dose. Io ho la fissa di gasdotti e oleodotti fin dalla seconda metà degli anni Novanta. Ho attraversato il Caspio su un cargo azero solo per seguire l'oleodotto da 4 miliardi di dollari Baku-Tblisi-Ceyhan, meglio noto in questo gioco degli scacchi con l'acronimo BTC, nel Caucaso. (Oh, a proposito, la mappa del Pipelineistan pullula di acronimi, fateci l'abitudine!)

Ho anche percorso alcune delle moderne e accavallate Strade della Seta, o forse Pipeline della Seta, i possibili flussi energetici futuri da Shanghai a Istanbul, prendendo nota delle mie rotte fai-da-te per il GNL (gas naturale liquefatto). Seguivo avidamente, manco fosse un eroe conradiano, le avventure del già Re Sole dell'Asia Centrale, l'ora defunto Turkmenbaši o “capo dei turkmeni”, Saparmurat Nijazov, il presidente della Repubblica del Turkmenistan immensamente ricca di gas.

Ad Almaty, allora capitale del Kazakistan (prima che la capitale fosse spostata ad Astana, nel mezzo del mezzo del nulla), la gente del posto era disorientata quando esprimevo l'impulso irrefrenabile di andare ad Aktau, la boomtown del petrolio. (“Perché? Lì non c'è niente”) Entrare nella stanza delle mappe in stile 2001 Odissea nello Spazio della sede del gigante energetico russo Gazprom a Mosca – con la dettagliata rappresentazione digitale di ogni singolo gasdotto e oleodotto in Eurasia – o nel quartier generale della Compagnia Petrolifera Nazionale iraniana a Teheran, con le sue file ordinate di esperte in chador, era per me come entrare nella grotta di Aladino. E non leggere mai le parola “Afghanistan” e “petrolio” nella stessa frase è ancora per me fonte di inesauribile divertimento.

Lo scorso anno il petrolio costava una follia. Quest'anno è relativamente a buon mercato. Ma non lasciatevi ingannare. Il punto qui non è il prezzo. Che piaccia o no, l'energia è ancora quello su cui vogliono mettere le mani tutti quelli che contano. Dunque considerate questo articolo semplicemente la prima puntata di un lungo, lungo resoconto delle mosse che sono state, o saranno, fatte nell'esasperante complessità del Nuovo Grande Gioco, che continua incessante a prescindere da quello che riesce a finire sulle prime pagine.

Dimenticatevi l'ossessione dei grandi media per al-Qaeda, Osama “vivo o morto” bin Laden, i taliban – neo, light, o classici – o la “guerra il terrore”, comunque la chiamino. Sono solo dei diversivi, se paragonati al gioco geopolitico dalla posta altissima che segue ciò che passa per i gasdotti e gli oleodotti del pianeta.

Chi lo dice che il Pipelineistan non può essere divertente?

Citofonare Dottor Zbig
Nel suo fondamentale libro del 1997, La grande scacchiera, Zbigniew Brzezinski – teorico straordinario della realpolitik ed ex consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, il presidente che avviò gli Stati Uniti alle loro moderne guerre per l'energia – espose piuttosto dettagliatamente come poteva essere conservato il “primato globale” americano. In seguito il suo piano sarebbe stato diligentemente copiato da quel mucchio letale di Dottor No riuniti nel Project for a New American Century (PNAC, nel caso aveste dimenticato l'acronimo quando i suoi creatori e il sito web sono tramontati) di Bill Kristol.

Per il Dottor Zbig, che come me si procura le dosi in Eurasia – e cioè pensando in grande – tutto si riduce a promuovere la giusta serie di “partner strategicamente compatibili” per Washington in luoghi dove i flussi energetici sono più forti. Questo, come disse allora molto garbatamente, servirebbe a plasmare “un sistema di sicurezza trans-eurasiatico più collaborativo”.

Ormai il Dottor Zbig – tra i cui ammiratori spicca il Presidente Barack Obama – deve essersi accorto che il treno eurasiatico che doveva consegnare le forniture energetiche è stato leggermente dirottato. Il settore asiatico dell'Eurasia, a quanto pare, si permette di dissentire.

Crisi finanziaria globale o no, il gas naturale e il petrolio sono le chiavi a lungo termine di un trasferimento inesorabile di potere economico dall'Occidente all'Asia. Chi controllerà il Pipelineistan – e, nonostante tutti i suoi sogni e i suoi piani, è improbabile che si tratti di Washington – avrà la meglio in tutto ciò che accadrà poi, e non un solo terrorista al mondo, né una “guerra lunga”, potranno cambiare questa realtà.

L'esperto di energia Michael Klare è stato fondamentale per identificare i vettori chiave nella lotta selvaggia e globale per il potere attualmente in corso sul Pipelineistan. Questi vettori vanno dalle sempre più scarse (e difficili da raggiungere) forniture di energia primaria allo “sviluppo dolorosamente lento di alternative energetiche”. Anche se non ve ne siete accorti, le prime schermaglie della Guerra Liquida del Pipelineistan sono già cominciate, e perfino nel momento peggiore per l'economia il rischio è sempre più alto, data la feroce competizione tra l'Occidente e l'Asia, che si svolga in Medio Oriente o nel teatro caspico o negli stati africani ricchissimi di petrolio come l'Angola, la Nigeria e il Sudan.

In queste prime schermaglie del XXI secolo, la Cina ha reagito prontamente. Già prima degli attacchi dell'11 settembre 2001, i suoi leader formulavano una risposta a ciò che vedevano come una strisciante intrusione dell'Occidente nei territori del petrolio e del gas dell'Asia Centrale, soprattutto nella regione del Mar Caspio. In particolare, nel giugno del 2001 i suoi leader formarono insieme alla Russia la Shanghai Cooperation Organization, Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, nota come SCO: altro acronimo che vi conviene memorizzare, perché ne sentiremo parlare per un bel po'.

All'epoca i membri minori della SCO erano, significativamente, gli “Stan”, cioè le ex repubbliche dell'Unione Sovietica ricche di risorse – Kirghizistan, Uzbekistan, Kazakistan e Tagikistan – su cui l'amministrazione Bill Clinton e poi la nuova amministrazione George W. Bush, guidate da uomini che avevano fatto i soldi con l'energia, avevano messo gli occhi. L'organizzazione doveva essere una società di cooperazione regionale economica e militare a vari livelli che, negli intenti dei russi e dei cinesi, avrebbe funzionato come una sorta di coperta di sicurezza attorno all'estremità superiore dell'Afghanistan.

L'Iran è, naturalmente, un nodo energetico cruciale dell'Asia Occidentale, e anche i suoi leader hanno dimostrato di saper darsi da fare nel Nuovo Grande Gioco. Servono almeno 200 miliardi di dollari in investimenti stranieri per modernizzare concretamente le favolose riserve iraniane di gas e petrolio, e dunque vendere molto di più all'Occidente di quanto ora lo consentano le sanzioni imposte dagli Stati Uniti.
Non sorprende che l'Iran sia stato presto preso di mira da Washington. Non sorprende che un attacco aereo contro quel paese sia ancora il sogno bagnato definitivo di vari likudnik assortiti come dell'ex vice presidente Dick (“Lenza”) Cheney e i suoi ciambellani e compagni di merende neo-conservatori. Dal punto di vista delle dirigenze da Teheran a Delhi a Pechino e a Mosca, un simile attacco, ora probabilmente escluso almeno fino al 2012, sarebbe una guerra non solo contro la Russia e la Cina, ma contro tutto il progetto di integrazione asiatica che la SCO si propone di rappresentare.

BRIC-a-brac globale
Nel frattempo, mentre l'amministrazione Obama tenta di mettere a punto le sue strategie iraniana, afghana e centro-asiatica, Pechino continua a sognare una versione energetica sicura e veloce della vecchia Strada della Seta che si estenda dal Bacino del Caspio (gli Stan ricchi di energia più l'Iran e la Russia) fino alla provincia dello Xinjiang, il suo Far West.

Dal 2001 la SCO ha ampliato i suoi obiettivi e il suo ambito. Oggi l'Iran, l'India e il Pakistan godono dello status di “osservatori” in un'organizzazione che mira sempre più a controllare e proteggere non solo le forniture energetiche regionali, ma il Pipelineistan in tutte le direzioni. Questo, naturalmente, è il ruolo che nelle intenzioni della dirigenza di Washington dovrebbe spettare all'Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico in Eurasia. Visto che la Russia e la Cina si aspettano che la SCO svolga un ruolo simile in Asia, sono inevitabili scontri di vario tipo.

Consultate qualunque esperto dell'Accademia Cinese di Scienze Sociali di Pechino, e vi dirà che la SCO dovrebbe essere intesa come un'alleanza storicamente unica tra cinque civiltà non occidentali – russa, cinese, musulmana, hindu e buddhista – e grazie a questo in grado di fare da base per la creazione di un sistema di sicurezza collettivo in Eurasia. È certamente un'idea destinata a contrariare gli strateghi globali dell'establishment americano come il Dottor Zbig e il consigliere per la sicurezza nazionale di George H. W. Bush Brent Scowcroft.

Dal punto di vista di Pechino, il nascente ordine mondiale del XXI secolo sarà determinato in misura significativa da un quadrilatero di paesi del BRIC – per quelli di voi che fanno collezione di acronimi da Nuovo Grande Gioco, BRIC sta per Brasile, Russia, India e Cina – più il futuro triangolo islamico di Iran, Arabia Saudita e Turchia. Aggiungeteci un Sudamerica unificato, non più schiavo di Washington, e avrete una SCO-plus globale. Almeno sulla carta, è un sogno ad alto numero di ottani.

La chiave di tutto è la continuazione dell'intesa cordiale sino-russa.

Già nel 1999, osservando l'aggressiva espansione nei Balcani della NATO e degli Stati Uniti, Pechino identificò questo nuovo gioco per quello che era: l'evoluzione di una guerra per l'energia. E la posta in gioco erano i giacimenti di petrolio e di gas naturale di quello che gli americani avrebbero presto cominciato a chiamare “arco di instabilità”, cioè un arco di territori che si estendeva dal Nordafrica alla frontiera cinese.

Non meno importanti sarebbero state le rotte seguite da oleodotti e gasdotti per portare all'Occidente l'energia sepolta in quelle terre. I luoghi in cui sarebbero state costruite e i paesi attraversati avrebbero determinato molte cose, in futuro. E qui l'impero delle basi militari degli Stati Uniti (pensate, per esempio, a Camp Bondsteel in Kosovo) incontrava il Pipelineistan (rappresentato, nel 1999, dall'oleodotto AMBO).

L'AMBO, cioè Albanian Macedonian Bulgarian Oil Corporation (Corporazione Petrolifera Albanese Macedone Bulgara), società registrata negli Stati Uniti, sta costruendo un oleodotto da 1,1 miliardi di dollari, il “Trans-Balkan”. La fine dei lavori è prevista per il 2011. Porterà il petrolio del Caspio all'Occidente senza farlo passare né per la Russia né per l'Iran. Come oleodotto, l'AMBO rientrerà alla perfezione nella strategia geopolitica di creare una griglia di sicurezza energetica controllata dagli Stati Uniti, idea che fu sviluppata per la prima volta dal segretario all'energia del presidente Bill Clinton, Bill Richardson, e in seguito da Cheney.

Dietro l'idea di quella “griglia” c'era la militarizzazione a tutti i costi di un corridoio energetico che si sarebbe esteso dal Mar Caspio in Asia Centrale, attraverso una serie di ex repubbliche sovietiche ora indipendenti, fino alla Turchia, e da lì nei Balcani (e in Europa). Era pensato per sabotare i più ambiziosi piani energetici di Russia e Iran. L'AMBO avrebbe portato il petrolio dal bacino caspico a un terminal nell'ex repubblica sovietica della Georgia, nel Caucaso, da lì il greggio sarebbe stato trasportato in petroliera attraverso il Mar Nero fino al porto bulgaro di Burgas, dove un altro oleodotto lo avrebbe portato in Macedonia e poi al porto albanese di Vlora.

Per quanto riguarda Camp Bondsteel, era la base militare “duratura” che Washington aveva guadagnato dalle guerre per le spoglie della Jugoslavia. Sarebbe stata la più grande base su territorio straniero costruita dagli Stati Uniti dai tempi della Guerra del Vietnam. La controllata della Halliburton Kellogg Brown & Root l'avrebbe costruita, con il Corpo dei Genieri dell'esercito statunitense, su 400 ettari di terra agricola nei pressi del confine con la Macedonia nel Kosovo meridionale.

Immaginate una versione a cinque stelle di Guantanamo con incentivi per il personale che comprendevano massaggi thailandesi e cibo spazzatura a volontà. Bondsteel è l'equivalente balcanico di una gigantesca portaerei immobile, capace di sorvegliare non semplicemente i Balcani ma anche la Turchia e la regione del Mar Nero (considerata nella lingua neocon degli anni di Bush “la nuova interfaccia” tra la “comunità euro-atlantica” e il “Grande Medio Oriente”).

Come potevano la Russia, la Cina e l'Iran non interpretare la guerra in Kosovo e poi l'invasione dell'Afghanistan (dove in precedenza Washington aveva cercato di far coppia con i taliban e di incoraggiare la costruzione di un altro di quegli oleodotti che escludessero l'Iran e la Russia), l'invasione dell'Iraq (paese dalle vaste riserve petrolifere) e infine il recente scontro in Georgia (snodo cruciale per il trasporto energetico) come esplicite guerre per il Pipelineistan?

Anche se raramente i nostri media hanno valutato le cose da questo punto di vista, le dirigenze russa e cinese hanno visto una chiara “continuità” tra l'imperialismo umanitario di Bill Clinton e la “guerra globale al terrore” di George W. Bush. Il contraccolpo, come ricordò pubblicamente l'allora presidente russo Vladimir Putin, era inevitabile. Ma questa è un'altra storia, in questa grotta ci entreremo un'altra volta.

Notte di pioggia in Georgia
Se volete comprendere la versione americana del Pipelineistan dovete cominciare con la Georgia, un paese dominato dalla Mafia. Benché il suo esercito sia stato travolto nel recente conflitto con la Russia, la Georgia resta fondamentale per la politica energetica di Washington in quello che è ormai diventato un vero arco di instabilità, parzialmente per l'ossessione di escludere l'Iran dal flusso energetico.

La strategia americana si è coagulata attorno all'oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), come ho osservato nel mio libro del 2007, Globalistan. Lo stesso Zbig Brzezinski volò a Baku nel 1995 come “consulente per l'energia”, a meno di quattro anni dall'indipendenza dell'Azerbaigian, e illustrò l'idea alla dirigenza azera. Il BTC doveva andare dal terminale di Sangachal, a circa mezz'ora a sud di Baku, e passare attraverso la vicina Georgia per arrivare al terminal marino nel porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo.

Ora operativo, quel serpente di acciaio lungo 1767 chilometri e largo 44 metri attraversa non meno di sei zone di guerra, in corso o potenziale: il Nagorno-Karabach (enclave armena in Azerbaigian), la Cecenia e il Daghestan (entrambe regioni di conflitto della Russia), l'Ossezia del Sud e l'Abchazia (su cui si è incentrata la guerra russo-georgiana del 2008) e il Kurdistan turco.

Da un punto di vista puramente economico, il BTC non aveva senso. Un oleodotto “BTK” da Baku all'isola iraniana di Kharg attraverso Teheran sarebbe costato, relativamente, quasi niente – e avrebbe avuto anche il vantaggio di escludere la Georgia corrosa dalla mafia e l'instabile Anatolia orientale popolata dai curdi. Quello sarebbe stato il modo più economico per portare in Europa il petrolio e il gas del Caspio.

Il Nuovo Grande Gioco fece sì che ciò non fosse, e quella decisione ebbe molte conseguenze. Anche se Mosca non aveva mai inteso occupare a lungo termine la Georgia nella guerra del 2008, né assumere il controllo dell'oleodotto BTC che la attraversa, l'analista energetico di Alfa Bank Konstantin Batunin ha osservato l'ovvio: interrompendo brevemente il flusso di petrolio che passa per il BTC, l'esercito russo ha fatto capire sin troppo chiaramente agli investitori globali che la Georgia non era un paese di transito energetico affidabile. In altre parole, i russi si sono presi gioco del mondo di Zbig.

Fino a poco tempo fa l'Azerbaigian aveva rappresentato un successo nella versione statunitense del Pipelineistan. Consigliato da Zbig, Bill Clinton letteralmente “sottrasse” Baku alla sfera russa promuovendo il BTC e le ricchezze che ne sarebbero derivate. Adesso, invece, interiorizzato il messaggio della guerra russo-georgiana, Baku si concede nuovamente di farsi sedurre dalla Russia. E poi il presidente azero Ilham Alijev non sopporta lo spavaldo presidente della Georgia Michail Saakašvili. E questo non sorprende. Dopo tutto, le avventate mosse militari di Saakašvili hanno fatto perdere all'Azerbaigian almeno 500 milioni di dollari quando il BTC è stato chiuso durante il conflitto.

Il blitzkrieg di seduzione energetica della Russia punta anche sull'Asia Centrale. (Ne parleremo nella prossima puntata sul Pipelineistan) Si incentra sull'offerta di acquistare gas kazako, uzbeko e turkmeno a prezzi europei anziché ai precedenti e molto più bassi prezzi russi. I russi, di fatto, hanno fatto la stessa proposta agli azeri: dunque ora Baku sta negoziando un accordo che comporta una maggiore capacità per l'oleodotto Baku-Novorossijsk, diretto verso le coste russe del Mar Nero, e sta prendendo in considerazione l'ipotesi di pompare meno petrolio per il BTC.

Obama deve capire le spaventose implicazioni di tutto questo. Meno petrolio azero nel BTC – la sua capacità massima è di 1 milione di barili al giorno, per la maggior parte diretti in Europa – significa che l'oleodotto rischia il fallimento, il che è esattamente ciò che vuole la Russia.

In Asia Centrale alcune delle poste più alte ruotano attorno al mostruoso giacimento petrolifero di Kashagan nel “leopardo delle nevi”, il Kazakistan: è l'indiscutibile gioiello della corona caspica con le sue riserve di 9 miliardi di barili. Come sovente accade nel Pipelineistan, tutto dipende da quali rotte consegneranno il petrolio di Kashagan al mondo dopo l'inizio della produzione nel 2013. Questo significa, naturalmente, Guerra Liquida. L'astuto presidente kazako Nursultan Nazarbajev vorrebbe usare il Caspian Pipeline Consortium (CPC) controllato dalla Russia per pompare il greggio di Kashagan verso il Mar Nero.

 

In questo caso i kazaki sono i padroni del gioco. La rotta che seguirà il petrolio di Kashagan deciderà se il BTC – un tempo spacciato da Washington come la via di fuga definitiva dalla dipendenza dal petrolio del Golfo Persico – dovrà vivere o morire.

Benvenuti, allora, nel Pipelineistan! Che ci piaccia o no, nella buona o nella cattiva sorte, possiamo ragionevolmente scommettere che diventeremo tutti turisti dell'oleodotto. Dunque seguite la corrente. Imparate gli acronimi cruciali, tenete d'occhio quello che succede a tutte quelle basi americane nelle heartland petrolifere del pianeta, fate caso a dove vengono costruiti oleodotti e gasdotti, e fate del vostro meglio per osservare attentamente il prossimo pacchetto di mostruosi contratti energetici cinesi e le favolose mosse della russa Gazprom.

E, già che ci siete, ricordate che questa è solo la prima cartolina dal Pipelineistan: torneremo (per adattare una battuta di Terminator). Immaginate una porta che si apre su un futuro in cui le direzioni dei flussi energetici e i loro beneficiari potrebbero rivelarsi la questione più importante del pianeta.


Gaasitoru/Gaspipe, l'installazione estone alla Biennale di Architettura di Venezia 2008


 

Originale: Liquid war: Welcome to Pipelineistan 

Articolo originale pubblicato il
26/3/2009

L’autore

Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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