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Avanzare nella terra di nessuno alla ricerca della propria anima

di Francesco Lamendola - 04/08/2009


A tutta prima, questo titolo potrebbe sembrare bizzarro: che cosa significa avanzare alla ricerca dell'anima? Occorre forse andare alla ricerca di qualcosa che già si possiede? E poi, che cosa mai sarebbe questa inconsueta «terra di nessuno»?
Cominciamo dalla prima domanda.
L'espressione «anima» è molto meno autoevidente di quel che non si creda; occorre, pertanto, adoperarla con un minimo di consapevolezza. Senza volerci addentrare in una dissertazione storica e filologica, poiché non sarebbe questa la sede più adatta, è necessario almeno ricordare che la parola «anima» traduce, approssimativamente, il vocabolo greco «psyché», che sta per il nostro «soffio vitale»; e non è molto lontana dal senso di «pneuma» (generalmente reso in italiano con «spirito»).
Di conseguenza, per gli antichi Greci, tutti gli esseri viventi possedevano un'anima; che quella degli umani fosse immortale in senso strettamente individuale, era opinione sostenuta da alcuni, come Platone, e revocata in dubbio da altri, come Aristotele. Per quest'ultimo, «psyche» era più o meno sinonimo di «bios» («vita»); l'anima, per lui, è la sostanza del corpo, e sta ad esso così come la vista sta all'organo visivo. Impossibile, dunque, immaginare un atto visivo privo del relativo organo; e impossibile pensare un'anima priva di corpo, che sopravviva alla morte del corpo o che preesista alla sua nascita.
Aristotele era in linea con il naturalismo del pensiero greco classico. In Omero, la «psyché» non è un principio distinto dal corpo, ma è il soffio vitale che se ne fugge via quando la morte tronca la vita di esso.
Platone ha introdotto una concezione dualista, per cui corpo e anima sono concepiti come due entità autonome: l'anima è legata temporaneamente al destino del corpo, ma viene da un principio immateriale ed eterno; vive nel corpo come in un carcere o in una tomba, da cui aspira ad evadere; e, al momento della morte di questo, riacquista vita autonoma, in attesa della sua prossima reincarnazione.
La cultura romana, pur non avendo sviluppato una propria tendenza filosofica originale (Lucrezio, Cicerone, Seneca e Marco Aurelio non hanno fatto altro che mediare spunti della filosofia greca), ha tuttavia svolto una importante operazione concettuale: quella di riprendere il dualismo platonico e, di conseguenza, di concepire l'anima come qualcosa distinta dal corpo, indipendentemente dal fatto se la si voglia considerare immortale, oppure no.
Nella cultura giudaico-cristiana, dalla quale proveniamo e nella quale viviamo (sia pure avendone ormai smarrito il principio vitale), la parola e il concetto di «anima» derivano appunto dalla concezione romana, ovviamente sostanziata dalla filosofia del cristianesimo: secondo la quale ogni essere umano, fin dal momento del concepimento, riceve un'anima immortale, che sopravviverà alla morte del corpo e che sarà giudicata in base alla condotta morale tenuta in vita.
Si tratta, evidentemente, di una concezione estranea alla cultura greca classica, secondo la quale la vita dell'anima dopo la morte era una diafana e umbratile continuazione di quella corporea, e in cui la nozione di premio (nei Campi Elisi) e di castigo (nel Tartaro) si impose solo gradualmente, come risulta evidente da un confronto fra la concezione dell'Ade quale appare nell'«Iliade» e quella, molto più articolata, ma ancora straordinariamente rozza e generica, dell'«Odissea».
Per la cultura occidentale moderna, dominata da un materialismo esasperato e da un rabbioso nichilismo, la parola «anima» è divenuta tabù, tanto è vero che nessuno studioso oserebbe più adoperarla in ambito scientifico e accademico, pena subire l'irrisione e l'ostracismo dei suoi più evoluti colleghi, decisi a relegarla fra le anticaglie del passato.
E così, una volta stabilito che la scienza moderna è il sapere per antonomasia, è stato relativamente semplice dapprima espellere il concetto di anima dall'ambito delle singole scienze (biologia, psicologia, sociologia), infine dalle sue ultime roccaforti «umanistiche», la filosofia e la pedagogia; lasciandolo sopravvivere, come in una riserva indiana accuratamente controllata dalle autorità governative, nell'ambito della sola teologia, vero e proprio fossile vivente.
Le correnti esoteriche dello spiritualismo, a loro volta, hanno reagito all'offensiva del materialismo differenziando sempre più e graduando, per così dire,  i vari livelli di realtà tra la dimensione corporea e quella spirituale. Così, ad esempio, nell'antroposofia di Rudolf Steiner, si enumerano ben sette gradi di realtà, che vanno dal corpo fisico, al corpo etereo, al corpo astrale, all'io, all'io spirituale, allo spirito vitale, e, finalmente, all'uomo-spirito. Ciò dà la sensazione di una suddivisione tattica, il cui scopo sembra essere quello di eludere più facilmente l'offensiva devastante delle concezioni materialiste: come un esercito sconfitto e in ritirata che, per meglio sfuggire all'inseguimento del nemico, sceglie di suddividersi in tanti reparti isolati.
Sulla base di questa frammentazione, alcuni ricercatori sono giunti a mettere in forse, almeno a livello teorico, il concetto che tutti gi esseri umani, in quanto tali, siano dotati di un'anima, e ad ipotizzare che potrebbero anche darsi delle persone parzialmente prive di anima, ovvero animate solo da impulsi di natura neuronale, simili ad automi o alle creature aliene di certi film di fantascienza (ipotesi, sia detto per inciso, di per sé tutt'altro che peregrina, e meritevole, anzi, di essere presa seriamente in considerazione).
Quanto all'esoterismo classico, esso è sempre stato convinto che la sopravvivenza dell'anima individuale alla morte del corpo non sia affatto un dato scontato e generalizzato, distribuito, per così dire, in maniera democratica a tutti gli esseri umani; ma una difficile e ardua possibilità, che solo alcuni individui, eccezionalmente dotati e particolarmente preparati, sarebbero in grado di percorrere. Tale, ad esempio, è  la concezione di Julius Evola, che riprende il filone classico dell'esoterismo occidentale e la grande tradizione alchemica medievale.
Questo rapidissimo «excursus» era necessario per cercare di rispondere, con maggior fondamento, alla domanda iniziale che ci eravamo posta: perché è evidente che, se l'anima è una realtà complessa, elusiva, le cui possibilità di sopravvivenza dipendono almeno in parte dal grado individuale di consapevolezza, di esercizio e di potenziamento, allora essa non deve più essere concepita come un dato di fatto statico e immutabile, ma come una realtà in divenire, con la quale l'essere umano può anche, in una certa misura, perdere il contatto o, addirittura, trascurarne di fatto l'esistenza.
Si tratta di semplici ipotesi: nessuno - crediamo -, in questa materia, ha il diritto di parlare con un tono di certezza dogmatica, che non ammette repliche. Poco sappiamo, e mai riusciremo a sapere tutto: questa è la premessa mentale indispensabile per accostarsi a un mistero così grande, come quello dell'anima.
Dunque: abbiamo detto che l'essere umano può anche ignorare la propria anima; che può anche comportarsi come se, in pratica, non l'avesse; e non è affatto escluso che un tale atteggiamento possa realmente condurre alla sua atrofia e, forse, al suo progressivo decadimento, ovvero alla sua  consunzione. L'anima, in questa prospettiva, sarebbe qualcosa di dinamico, soggetta ad espansione e a contrazione.
Né si dica che questa è una concezione corporea, e quindi materialista, dell'anima stessa; perché anche un principio spirituale soggiace alla legge dell'uso: ciò che viene messo in movimento, si vivifica, mentre ciò che viene abbandonato all'inerzia, si consuma. Certo, continua ad esistere allo stato di pura potenzialità: ma, nel livello ordinario dell'esistenza (cui noi tutti siamo legati dalla nostra dimensione corporea), cioè è praticamente irrilevante
Dunque: l'anima è la nostra parte più profonda; ma, se noi siamo soliti vivere ai livelli più superficiali dell'esistenza, potremmo anche ignorarla o dimenticarla. Del resto, anche chi sia ben consapevole della sua esistenza, non può mai dire di averla interamente conosciuta, esplorata, compresa: essa eccede sempre le misure della nostra dimensione finita.
Ma che cosa significa che, per trovare la propria anima, è necessario attraversare una «terra di nessuno?
La terra di nessuno è ciò che sta oltre la dimensione immediata e ben nota dell'esistenza; e che, al tempo stesso, sta al di qua della dimensione ulteriore, della dimensione vera.
Ora, se - come abbiamo più volte cercato di mostrare, in numerosi precedenti lavori - la realtà ultima di tutto ciò che esiste è l'Essere, ne consegue che l'anima - che per convenzione immaginiamo come la nostra parte più profonda, mentre è vero che siamo noi una parte di essa - ha la sua dimora nell'Essere.
Il nostro viaggio alla ricerca dell'anima sarà, quindi, un viaggio alla ricerca dell'Essere: e sarà un viaggio nella terra di nessuno, perché abitato dalla solitudine di ciò che si trova - o, più esattamente, crede di trovarsi - al di qua o al di là dell'Essere, dunque al di fuori di esso.
Fra il nostro io ordinario - quello che ama e che odia, che desidera e che teme, che prende e che lascia - e la nostra dimora dell'Essere, vi è la terra di nessuno dei falsi desideri e dei falsi timori, delle ingannevoli aspettative e delle paure infondate, popolata dalla folla stranita e solitaria che, ubriacandosi di rumori e di azioni, cerca di stordire la propria nostalgia originaria: la nostalgia dell'Essere.
Ma nessuno può giungere all'Essere, se non rientra nella propria anima: perché l'anima è la via per giungere all'Essere; e lo strumento a ciò necessario, è l'amore.
L'amore è il bordone del viaggiatore spirituale in cerca della propria anima, in cerca dell'Essere. Sprovvisto di esso, nessun viaggiatore potrà arrivare alla meta: si perderà lungo le strade del mondo, nel deserto della terra di nessuno.
Mediante l'amore, l'anima rientra in possesso di se stessa e ripristina la consapevolezza del proprio radicamento nell'Essere; mediante l'amore, l'anima può attingere a riserve inesauribili di forza, di coraggio, di perseveranza; laddove il cammino di chi è incapace di vero amore si trasforma in un vagare penoso e privo di senso, in un brancolare nelle tenebre.
Noi sappiamo che, al di là del flusso illusorio degli inutili rumori e delle false immagini di bene, vi è un immenso oceano di pace e di armonia; e siamo protesi verso di esso, con tutta la nostalgia dell'Essere che ci portiamo dentro, come un bagaglio inseparabile. Siamo nel fitto delle tenebre, ma intuiamo che, al di là di esse, vi è la luce. Siamo, appunto, impegnati nell'attraversamento della terra di nessuno.
L'esploratore spagnolo Vasco Nuñez de Balboa, sbarcato nel Darién, sulle coste del Mar dei Caraibi, aveva avuto notizia dagli indigeni che, a molte giornate di cammino da lì, oltre le montagne ammantate da foreste fittissime di quello che noi sappiamo essere l'Istmo di Panama, si apriva un mare inesplorato, di cui nessuno conosceva i confini. Era il settembre del 1513 ed egli si mise coraggiosamente in marcia, attirato con forza irresistibile da quel sogno, da quel miraggio; fu così che fu il primo uomo bianco ad avvistare, dall'alto di una collina, lo scintillio delle acque dell'Oceano Pacifico.
Ciascuno di noi si trova in una situazione analoga a quella dell'intrepido esploratore spagnolo: sappiamo che vi è, al di là della terra di nessuno, la nostra vera dimora; o, se non lo sappiamo con certezza, ne abbiamo tuttavia significativi indizi.
A noi sta la scelta se avanzare in quella terra di nessuno, o se accontentarci di rimanere sulle spiagge conosciute, vivendo nel rammarico di non aver osato, di aver disatteso la parte più nobile della nostra natura.
Il paradosso della situazione sta nel fatto che rimanere presso i lidi ben noti, vuol dire continuare ad ignorare la nostra stessa anima; mentre porsi all'avventura, senza alcuna garanzia di successo, significa compiere il movimento decisivo per la reintegrazione di noi stessi. Pertanto, attaccarsi alle proprie timide sicurezze, equivale a perdersi; mettersi a repentaglio, a ritrovarsi.
Noi abbiamo bisogno di ritrovarci, per vivere bene; e di amare, per poterci ritrovare.
Tale è il paradosso, tale la natura della scelta che siamo chiamati a compiere; e che, di fatto, compiamo, in ogni giorno e in ogni ora della nostra vita, pur se non ne siamo pienamente e perfettamente consapevoli.