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La felicità non coincide col piacere, ma è l'innalzamento della coscienza verso l'Assoluto

di Francesco Lamendola - 25/10/2009

 

La felicità, per i buoni, può prescindere da uno stato di benessere fisico o, quanto meno, da una assenza di dolore? È possibile essere felici mentre ci si trova sottoposti alla tortura della ruota - si domanda Aristotele -, ammettendo che si possegga un animo buono?
E la sua risposta è negativa: per lui, come in genere per il pensiero antico (ma con la notevole eccezione di Platone), felicità e piacere sono praticamente un binomio inscindibile, se non, addirittura, sinonimi.
Vale la pena di riportare nella sua interezza il ragionamento del filosofo greco, sviluppato nella "Etica Nicomachea" (VII, cap. XI, 1152 b 8; traduzione di Ferruccio Franco Repellini, in: "Il "Flebo" di Platone e la questione del piacere nel IV secolo a. C.", Milano, Principato Editore, 1971, pp. 144-148):

"Alcuni dunque ritengono che nessun piacere è un bene, né di per sé, né per accidente, in quanto il bene non è identico al piacere.
Secondo altri, poi, alcuni piaceri sono un bene, ma la maggior parte di essi è cattiva.
Vi è inoltre una terza opinione d questo tipo: anche se si ammette che tutti i piaceri sono un bene, non è tuttavia possibile che il piacere sia il sommo bene.
Anzitutto, dell'opinione che il piacere non sia in nessun caso un bene vengono date queste ragioni: ogni piacere è processo percepito dai sensi verso lo stato naturale; ma nessun processo è dello stesso genere dei fini (nessuna costruzione di case, per esempio, è dello stesso genere della casa). Inoltre: il moderato fugge i piaceri. Inoltre: il saggio ricerca ciò che non comporta pena, non ciò che è piacevole. Inoltre: i piaceri sono un impedimento al pensiero, e quanto più uno prova piacere, tanto più lo sono (valga ad esempio il piacere dell'amore, durante il quale nessuno potrebbe pensare alcunché). Inoltre: non vi è nessuna tecnica del piacere, mentre ogni bene è opera di una tecnica. Inoltre: i fanciulli e le bestie ricercano i piaceri.
In secondo luogo, prova dell'opinione che non tutti i piaceri sono buoni sarebbe che ve ne sono anche di turpi e biasimevoli, e che ve ne sono di nocivi: infatti alcune cose piacevoli sono dannose alla salute.
Quanto poi alla terza opinione, si afferma che il piacere non è il sommo bene in quanto non è fine, ma processo. Queste dunque sono all'incirca le affermazioni che s fanno; ma che con esse non si giunga né alla conclusione che il piacere non è un bene, né che non è il sommo bene, è evidente dagli argomenti seguenti.
Anzitutto: il termine "buono" viene detto in due sensi (talvolta infatti in senso assoluto, talvolta relativamente a qualcuno), perciò anche le nature e gli abiti e di conseguenza anche i mutamenti e i processi volti al ristabilimento dell'abito secondo natura: prova ne è che vi sono anche dei piaceri che non si accompagnano a pene e desiderio (le attività della contemplazione, per esempio): in questi piaceri la natura non è mancante di nulla. Ne è un indizio il fatto che,  quando la natura si riempie, ciò per cui si prova piacere non è lo stesso di quando la natura è ormai ristabilita; ma quando è ristabilita si prova piacere di cose piacevoli in senso assoluto, quando invece si va riempiendo si prova piacere anche di cose contrarie: si gode infatti di cose aspre e amare, delle quali nessuna è piacevole per natura, né è piacevole in senso assoluto. Ne segue che questi non sono nemmeno dei piaceri: infatti i piaceri stanno tra di loro nel medesimo rapporto in cui stanno tra di loro le cose piacevoli da cui derivano.
Inoltre: non c'è necessità che vi sia un qualcosa d'altro che sia un bene maggiore del piacere, non diversamente - come affermano alcuni - del rapporto tra il fine e il processo: infatti i piaceri non sono processi e non tutti si accompagnano a un processo, ma sono delle attività e un fine; e non avvengono in quanto vi è n noi un processo, ma in quanto si adopera qualcosa; e non tutti  piaceri hanno un qualche cosa d'altro come fine, ma solo quelli che ci conducono alla perfezione della natura. Quindi è anche non corretto dire che il piacere è "un processo percepito dai sensi", ma bisogna piuttosto dirlo "attività dell'abito secondo natura", e invece di "percepito dai sensi" bisogna dire "non impedita". Alcuni poi ritengono che il piacere sia processo proprio perché è un bene; ritengono infatti che l'attività sia processo, mentre è altra cosa.
Il dire poi che alcune cose piacevoli sono cattive perché dannose alla salute, equivale a dire che alcune cose  che ci danno la salute sono cattive perché  dannose alla borsa. Ora, sotto questo rapporto le une e le altre sono cattive, ma in base a ciò soltanto non sono cattive in senso assoluto: prova ne è che anche la contemplazione talvolta è dannosa alla salute.
Non è poi di ostacolo all'intelligenza né a nessun altro abito il piacere che deriva da ciascun abito; di ostacolo sono invece i piaceri estranei; prova ne è che i piaceri che derivano dalla contemplazione e dall'apprendimento fanno ancor più contemplare ed apprendere.
Si può poi convenire che nessun piacere è opera di una tecnica, dato che di nessun'altra attività vi è una tecnica. La tecnica è invece relativa allo stato potenziale di ogni attività; e davvero sono relative al piacere, a quanto pare, sia la tecnica del profumiere che quella del cuoco.
Che poi il moderato fugga il piacere e il saggio ricerchi la vita che non comporta dolore,  e che i fanciulli e le bestie ricerchino i piaceri, tutto ciò si risolve con la medesima argomentazione. Si è detto infatti in che senso i piaceri siano buoni assolutamente:, e in che senso non tutti siano buoni assolutamente: quest'ultimo tipo di piaceri è ricercato dai fanciulli e dalle bestie; il saggio poi ricerca l'assenza dei dolori  che sono provocai dai piaceri che si accompagnano a desiderio  e dolore, cioè quelli corporei (i quali infatti sono di questo tipo) e i loro eccessi, per i quali l'intemperante è intemperante. Sono questi quindi i piaceri che il moderato fugge, giacché vi sono anche piaceri propri di chi è moderato. Ma c'è pi accordo sul punto che il dolore sia un male e cosa da fuggirsi: infatti il dolore è un male talora in senso assoluto, talora in quanto ci è di ostacolo in qualche modo. Ma il contrario di ciò che è da fuggirsi, in quanto è un qualcosa da fuggirsi e un male, è un bene. Conclusione necessaria è dunque che il piacere è un bene. Infatti il moo in cui Speusippo respinge l'argomento (invocando cioè il caso del più grande, che è il contrario sia al più piccolo sia all'uguale) non porta a un'effettiva risoluzione: di fatto Speusippo non può dire che il piacere è nella sua essenza un male.
Quanto poi al sommo bene, niente impedisce che sia un determinato piacere, anche se alcuni piaceri sono cattivi  (così come nulla impedisce che lo sia una determinata scienza, anche se alcune scienze sono cattive). E se  è vero che di ogni abito vi sono delle attività non impedite, e se l'attività di tutti gli abiti, o anche di uno di essi  (purché non impedita) è la felicità, si deve forse di necessità concludere che questa attività è al più alto grado desiderabile: ora, ciò è un piacere. Quindi il sommo bene sarebbe un piacere, anche se molti piaceri possono essere cattivi in senso assoluto.
Ed è per questo che tutti ritengono che la vita felice comporti piacere, e fondono assieme il piacere e la felicità: hanno ragione, poiché nessuna attività è perfetta se impedita, ma la felicità è del genere di ciò che è perfetto. Perciò chi è felice ha bisogno dei beni del corpo e dei beni esteriori e che vengono dalla sorte, per non avere ostacoli relativi a questi. Quelli che affermano che chi è sottoposto alla tortura della ruota e chi cade in grandi disgrazie, se è buono, è felice, che lo vogliano o no fanno un'affermazione senza senso. E per il fatto che per essere felici c'è bisogno della sorte, alcuni pensano che il favore della fortuna sia la stessa cosa che la felicità, mentre non lo è, perché anche il favore della fortuna, se è in eccesso, è di impedimento; forse non è più neppure corretto chiamarlo "favore", dato che la sua definizione è relativa alla felicità, E il fatto che tutti, sia bestie che uomini, perseguono il piacere, è un indizio che il piacere è in un certo senso il sommo bene:
"non è del tutto vana quella fama, che molte genti" (Esiodo, "Le opere e i giorni, 763)
Tuttavia, poiché né la stessa natura né lo stesso abito non sono né sembrano per tutti la natura e l'abito migliore, non tutti perseguono lo stesso piacere: tutti però perseguono il piacere. E si può forse dire che perseguono non quel piacere che credono e dicono di perseguire, ma il medesimo piacere: ogni essere infatti ha in sé per natura un elemento divino."

Aristotele, dunque, è dell'opinione che definire felice la persona buona che soffre dolori e tribolazioni, sia una cosa priva di senso: perché, a suo giudizio, disporre della salute del corpo e di beni esteriori, in misura tale da non incontrare ostacoli al proprio progetto di vita, siano requisiti indispensabili alla felicità.
L'esempio dell'individuo sottoposto alla tortura della ruota è, chiaramente, un paradosso e una provocazione, e non ci vuole molto a leggerlo, in filigrana, come una frecciata contro la concezione platonica della felicità, a suo parere troppo viziata di idealismo.
D'altra parte, i paradossi e i casi limite, pur esasperando un determinato ragionamento, indubbiamente presentano il vantaggio di ridurlo al suo nucleo essenziale (almeno finché non giungono a travisarlo); pertanto sarà giusto accogliere la sfida e porsi onestamente la domanda di Aristotele: si può essere felici anche sotto tortura, purché si possieda un animo buono e una coscienza libera da rimorsi per le cattive azioni?
Prima di rispondere a questo caso particolare, vediamo di ricondurlo a un quadro di riferimento complessivo. La domanda, posta in termini generali, è se le circostanze esterne possano, oppure no, influire sullo stato di felicità di un essere umano; ben inteso, di un essere umano che viva secondo virtù e che non abbia alcuna azione malvagia da rimproverarsi, ma che, al contrario, si sforzi di praticare la virtù in ogni circostanza.
Ebbene, ci sembra difficile negare che, se si ammettesse che la nostra felicità personale è legata ai capricci della fortuna, essa sarebbe una ben misera cosa; ma, in tal caso, non potremmo neanche chiamarla felicità, se per felicità si intende - come comunemente lo s'intende - uno stato dell'anima distaccato dalle ansie e dalle preoccupazioni, dai timori e dalle brame, e in piena armonia con se stessa e con gli altri esseri viventi (tutti, e non solo i propri simili).
Quando l'anima raggiunge una tale condizione, infatti, essa si proietta sui sentieri della luce, dove non hanno più potere le visioni ingannevoli di male e di bene, che rendono così tormentata la vita nello stato di coscienza ordinario. La felicità, infatti, corrisponde al raggiungimento di uno stato straordinario della coscienza: di uno stato di beatitudine che proviene dal senso di apertura cosmica e di fusione con l'Essere.
Si dirà che la felicità, descritta in questi termini, può essere solamente quella del mistico, non dell'uomo comune; e che perfino il mistico non potrebbe vivere permanentemente in essa, ma potrà goderne, al massimo, qualche raro squarcio e qualche preziosa, ma fugace, illuminazione. Noi non lo crediamo: l'illuminazione e l'estasi mistica sono una cosa; la felicità, teoricamente a portata di mano di qualsiasi essere umano, è un'altra cosa. La felicità è uno stato durevole dell'anima che, una volta raggiunto, può essere temporaneamente eclissato, ma difficilmente potrebbe essere distrutto da circostanze esterne, proprio per la sua natura di conquista spirituale.
Una conquista spirituale è per sempre. Esattamente come l'amore: l'amore è per sempre. È un equivoco e un errore di prospettiva, pensare che l'amore possa finire: può nascondersi, talvolta, magari per ani; ma continuerà sempre a bruciare sotto le ceneri, come un fuoco inestinguibile. E la stessa cosa è per la felicità: chi riesca a raggiungerla, attraverso un lungo e duro tirocinio, fatto anche di molte amarezze e di molte sconfitte, poi non la perderà più: non a causa di circostanze esterne, comunque. È come imparare ad arrampicare in montagna: quando si è imparato, non si disimpara più, anche se si smette di andare in montagna.
Come potrebbero le circostanze occasionali, dall'esterno, incrinare e spezzare un equilibrio spirituale, che è stato raggiunto esclusivamente per via di crescita interna? I due ordini di fenomeni giacciono su piani di realtà ben distinti: il piano fisico, che è inferiore, non può alterare quello spirituale, che gli è superiore.
Ma le circostanze esterne, si obietterà, non sono solamente di natura fisica (fame, malattie, ecc.); ed è vero. Tuttavia, ciò che viene dall'esterno fa parte di una dimensione che non appartiene, in se stessa, alla sfera del nostro controllo: noi posiamo padroneggiare solo ciò che è dentro la nostra anima.
Ebbene, quando una circostanza esterna bussa alla porta del nostro essere, per entrare, bisogna che i nostri sensi e la nostra anima le diano l'assenso. I nostri sensi, in circostanze particolari, possono essere obbligati a ciò: se siamo sottoposti a tortura, non possiamo non ricevere le percosse o altri atti di violenza fisica, e subirne le conseguenze. Ma l'assenso della nostra anima, è tutta un'altra faccenda. La nostra anima sa di essere altro dal corpo che soffre; sa che la sua natura è spirituale; sa, quindi, che non deve commettere l'errore di identificarsi con la sofferenza fisica.
Invero, e parlando in termini generali, noi tutti siamo un po' male abituati, a questo riguardo; noi tutti abbiamo contratto delle cattive abitudini, a cominciare dal linguaggio che adopriamo nelle piccole cose di ogni giorno. In presenza di un male di testa, ad esempio, siamo soliti dire: "Quest'oggi ho un terribile mal di testa". Errore: dovremmo invece dire (e pensare, e sentire): "Quest'oggi un male di testa sta disturbando le mie normali funzioni": dovremmo, cioè, innanzitutto stabilire una distanza fra esso e noi.
Noi non siamo il nostro dolore, la nostra sofferenza, la nostra infelicità; noi non siamo la nostra angoscia e la nostra disperazione. Noi siamo un'altra cosa; la nostra anima è un'altra cosa. E tutto l'equivoco ha origine da quella funesta illusione che si chiama "io" e nella quale finiamo per identificarci, totalmente e incondizionatamente, senza residui (cfr. il nostro recente articolo  "Dobbiamo liberarci dall'inganno dell'io, centro illusorio della nostra persona", inserto alcuni giorni fa sul sito di Arianna Editrice).
Noi non siamo l'io, né potremmo esserlo, perché non abbiamo un io; abbiamo un'anima, che è una cosa completamente diversa. L'io è l'illusoria identificazione dell'anima con la coscienza e di questa con il corpo: ma sarebbe come se il contenuto volesse identificarsi con il contenitore; come se il tutto volesse identificarsi con la parte. Con l'aggravante che il tutto, in questo caso, è eterno, e la parte è transitoria. Perché mai la farfalla immortale dovrebbe volersi identificare con il bruco che è stata ieri, ma che non sarà mai più?
Dunque: l'anima dovrebbe sempre ricordarsi della propria natura: spirituale e immortale. Anche in mezzo ai dolori, anche in mezzo alle angosce: non dovrebbe mai e poi mai identificarsi con essi. La felicità cui l'anima tende, è altra cosa dal piacere del corpo; e, senza voler negare che il piacere del corpo possa contribuire alla felicità, certamente non ne è condizione indispensabile; né lo è l'assenza di dolori o la presenza di beni esteriori. Tanto è vero che l'anima può essere profondamente infelice, anche se il corpo sta godendo  e i beni di fortuna abbondano; ma il piacere del corpo può facilmente mutarsi in amarezza e dolore, mentre la felicità dell'anima non può mutarsi nel suo contrario, ma solo - al massimo - vedersi oscurata temporaneamente, come il sole può vedersi oscurato dalle nubi, ma finisce poi per riemergere irresistibilmente, più splendente di prima.
La concezione della felicità di Aristotele vorrebbe essere realista, contrapponendosi all'idealismo di Platone; vorrebbe essere equilibrata e razionale, contrapponendosi al supposto estremismo platonico. Ma essa è semplicemente una concezione materialista, visto che fa dipendere la felicità dalle circostanze esteriori e non dalla propria interna dinamica.
Tutto nasce dall'equivoco di pensare alla felicità in termini materiali, quantitativi, come una sorta di estensione del piacere dal corpo all'anima. Invece non è così: il piacere del corpo può accompagnarsi alla felicità dell'anima, ma non è ad essa indispensabile. Si può essere felici in mezzo ai dolori e perfino all'angoscia, se l'anima non smarrisce il proprio legame con la sorgente inesauribile da cui discende: lo splendore dell'Essere.
Sì: è un discorso duro, questo, per molti orecchi, e altamente impopolare. La mentalità comune non riesce a separare l'idea di felicità da quella di benessere fisico. Ma lo scopo della filosofia è precisamente quello di innalzare lo sguardo al di sopra del sentire comune, che possiede solo il peso inerte della maggioranza, per cogliere almeno qualche bagliore o riflesso dell'Essere; e trovarvi la pace.
La pace dell'anima risiede nella contemplazione dell'Essere: quella è la sua meta, la sua dimora.
Quella è tutta la sua felicità.