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Pil, una medaglia alla memoria

di Giorgio Ruffolo - 29/10/2009

  
 
Ancora ieri, un anatema. Oggi, un luogo comune. Il Pil (prodotto interno lordo) è un indice falso e (talvolta) bugiardo. Insomma, un Pirl. Oggi lo dicono un po' tutti, non c' è più gusto a parlarne male e viene la voglia di difenderlo. Perché il Pil ha i suoi meriti. È l' orologio del nostro tempo, il tempo dell' economia. Il tempo della ricchezza. Una misura, per quanto approssimativa, di quella. È stato un atto di genio l' idea di condensare in una sola cifra la somma di tutte le transazioni che avvengono nel corso di un anno: il loro volume moltiplicato per i loro prezzi. Si capisce che in un tempo nel quale l' economia ha sopravanzato la potenza e la gloria quella cifra fosse assurta a segno di gloria e di potenza. E però, divenuto troppo insignificante rispetto al suo vero significato. Con il tempo il Pil si è svalutato: ha mostrato le sue lacune e i legacci rozzi che tenevano insieme i suoi pezzi. È inutile ripercorrere se non per memoria la lista dei suoi vizi. La pretesa di dare un qualunque significato positivo a un accumulo di beni e di mali. L' assurdità di lasciar fuori del conto tanta parte del lavoro e della ricchezza che non possono essere conteggiati in moneta. La pretestuosità con la quale si conteggiano come beni gli stipendi pagati ai pubblici impiegati. E tante altre manifeste incongruità. Tanto da far dire a un grande economista, Oscar Morgenstern, che il Pil è la misura più stupida inventata dagli economisti. Sentenza ingiusta: perché, se ridotto alla sua essenza reale, il Pil offre una dimensione significativa di un aspetto fondamentale dell' economia: la portatae l' estensione del mercato: non però del benessere, perché include la droga; non del lavoro, perché esclude quello non retribuito in moneta; non dell' efficienza, perché non tiene conto dei servizi della pubblica amministrazione; tanto meno della giustizia e della felicità.

Occorre quindi depilizzare il Pil. Ridurlo alla sua dimensione significante. Con il che saremo liberati dall' ansia di chiedere all' Istat le cifre del nostro destino. Di gioire o di disperarci per qualche frazione del Pil in più o in meno. Certo, per molti politici economisti e giornalisti la dissacrazione del Pil non è una buona notizia. Ma non bisogna preoccuparsi troppo: chi sa per quanto tempo ancora faranno finta di niente. E un po' di ragione l' avranno. Perché non basta parlar male del Pil. Il problema vero è come e con che cosa sostituirlo. E qui non siamo affatto a zero. Fior di economisti e sociologi si sono da tempo misurati con il problema di costruire indicatori del benessere più significativi del Pil. Un approccio ben noto è quello dei bisogni sociali fondamentali. Anziché identificare il benessere con lo sviluppo economico, si è proposto di misurarlo con indici specifici (indicatori sociali) di sei grandi bisogni fondamentali: nutrimento, salute, acqua, abitazione, educazione, sostenibilità ambientale. Questo approccio non è oggettivo come (sembra) quello del Pil: E non è, come quello, sintetico. Non esprime il benessere sociale, come fa il Pil, con un solo numero. Inoltre, esso individua i beni sociali, ma non la capacità di usarli. Queste due obiezioni hanno indotto Amartia Sen e altri a suggerire la costruzione di un Indice dello Sviluppo umano basato su tre aspetti essenziali: la durata della vita, la conoscenza e l' accesso alle risorse economiche. L' economia rientra nel conto, ma come accesso alle risorse, non come semplice produzione: come mezzo e non come fine. Rappresentati da tre indicatori sintetici, questi aspetti centrali del benessere vanno combinati tra loro con una semplice media aritmetica, l' Indice dello Sviluppo Umano (Isu).

L' Isu è stato effettivamente adottato dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite. Dunque il problema sembrerebbe risolto. Non lo è per una semplice ragione. Chi decide che quelli sono effettivamente i bisogni sociali fondamentali? Si può delegare ad esperti, per quanto prestigiosi, questo giudizio essenzialmente politico? Il Pil è presentato come una misura oggettiva, non come un giudizio e questo, anche se come sappiamo non è vero, appare come un suo vantaggio. È merito di due giovani studiosi italiani, Salvatore Monnie Alessandro Spaventa, di avere,a mio parere, affrontato e risolto questo problema rovesciandone i termini. Anziché affidare la scelta delle priorità sociali agli esperti, costruendo su questa gli indicatori, desumerla da esplicite opzioni politiche democratiche dei paesi interessati. Gli autori, a mo' di esempio, hanno tratto dalle decisioni politiche di Lisbona dell' Unione europea le scelte essenziali di obiettivi di benessere sociale, sulle quali hanno costruito un sistema di indicatori sociali che comprende tre aspetti centrali del benessere: la competitività, la coesione sociale e l' ambiente. Ecco un modo, non soltanto per misurare correttamente il nostro benessere, ma per dare all' Europa la possibilità, finalmente, di esprimersi su ciò che vuole realmente essere.