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Gaza, Stati Uniti e Cina: il futuro della guerra e la fine della civiltà

di Roberto Iannuzzi - 07/05/2025

Gaza, Stati Uniti e Cina: il futuro della guerra e la fine della civiltà

Fonte: Roberto Iannuzzi

Avevo scritto più volte in precedenti articoli che la portata della tragedia di Gaza va ben al di là degli angusti confini di questa martoriata striscia di terra sulle coste del Mediterraneo: Ciò che sta avvenendo a Gaza non resterà confinato a Gaza, si potrebbe dire, perché è il sintomo di un malessere più generale che sta erodendo la civiltà occidentale.

Avevo scritto già in passato che Sotto le macerie di Gaza rischiano dunque di rimanere sepolti anche l’ordine internazionale che l’ONU ha rappresentato dal 1945, e il ruolo di garante della legalità internazionale di cui gli USA si sono sempre fregiati.

Ora un’inchiesta della rivista americana The New Yorker dal titolo “What’s Legally Allowed in War”, passata perlopiù sotto silenzio, aiuta a chiarire meglio la pericolosità del “precedente” rappresentato dallo sterminio in corso a Gaza. Il reportage a firma di Colin Jones racconta come gli esperti giuridici dell’esercito americano si stiano confrontando con l’operazione militare israeliana nella Striscia, considerandola una sorta di “prova generale” per un possibile conflitto con una potenza come la Cina.

L’articolo esordisce descrivendo due visite compiute nella Striscia da Geoffrey Corn, professore di legge presso la Texas Tech University ed ex consulente senior delle forze armate USA sulle leggi di guerra, altresì note come Diritto Umanitario Internazionale (DIU) o Diritto Internazionale dei Conflitti Armati (DICA). Per spiegare il livello di distruzione di cui è stato testimone a Gaza, Corn lo ha paragonato a quello di Berlino al termine della seconda guerra mondiale. Egli non è stato né il primo né l’unico a proporre un simile confronto.

Già nel dicembre 2023, ad appena due mesi dall’inizio del conflitto, esperti militari consultati dal Financial Times avevano equiparato la distruzione di Gaza nord a quella di città tedesche come Dresda, Amburgo e Colonia a seguito dei bombardamenti alleati. La seconda guerra mondiale fu il primo scontro armato durante il quale l’evoluzione dell’aeronautica militare rese possibile il bombardamento di civili su vasta scala. I massacri della popolazione inerme furono utilizzati in maniera deliberata per indurre il nemico alla resa (spesso senza esito). Jones ricorda che solo nel 1977 i Protocolli Aggiuntivi delle Convenzioni di Ginevra proibirono in modo esplicito azioni militari volte a colpire intenzionalmente i civili. Ma l’operazione israeliana a Gaza ha messo a nudo l’inefficacia di questo regime giuridico.

Non è questa però la conclusione a cui sono giunti gli esperti militari americani. A Rafah, al confine fra l’enclave palestinese e l’Egitto, ufficiali delle forze armate israeliane hanno mostrato a Corn video che secondo loro dimostravano la presenza di uomini di Hamas nell’area prima dell’inizio dell’offensiva israeliana. Nella sua indagine Corn, malgrado il paragone tracciato con la Berlino del secondo conflitto mondiale, ha concluso che la presenza di Hamas trasformava quei luoghi in “obiettivi militari”. Di conseguenza, i civili rimasti uccisi nell’operazione non sarebbero stati obiettivi intenzionali, ma “morti accidentali”.

Uno sterminio “accidentale”?

Attualmente il bilancio ufficiale (probabilmente sottostimato) nella Striscia supera le 52.000 vittime, mentre vi sono più di 420.000 sfollati, su una popolazione complessiva di circa 2,3 milioni di persone all’inizio del conflitto. Nella sua azione militare, Israele ha bombardato indiscriminatamente abitazioni, scuole, ospedali, luoghi di culto, fabbriche, università, biblioteche, centri culturali. I bulldozer israeliani hanno raso al suolo e devastato terreni agricoli, serre, frutteti, cimiteri. Le forze armate di Tel Aviv hanno distrutto serbatoi, condutture idriche, pozzi, e hanno messo fuori uso gli impianti di desalinizzazione.

Come ho scritto in un precedente articolo, nel 2024

si sono accumulati i rapporti, redatti dall’ONU, e da organizzazioni come Amnesty InternationalHuman Rights Watch, e Médecins Sans Frontières (MSF), secondo i quali ciò che Israele sta compiendo nella Striscia va classificato come “genocidio”. Essi si aggiungono al verdetto provvisorio della Corte Internazionale di Giustizia, risalente allo scorso gennaio, che definiva “plausibile” l’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica nei confronti di Israele.

Da allora le condizioni a Gaza sono spaventosamente peggiorate. Accademici ebrei, esperti di Olocausto, come Omer Bartov e Raz Segal, hanno parlato apertamente di “genocidio” a proposito dello sterminio in corso a Gaza. Tuttavia, come già accennato, non solo Corn, ma anche altri esperti militari dell’esercito USA, sono giunti a conclusioni del tutto differenti, come precisa Jones nella sua inchiesta.

In un rapporto redatto per il Jewish Institute for National Security of America (JINSA), Corn e un gruppo di generali in congedo hanno concluso che l’applicazione da parte delle forze armate israeliane di “misure di mitigazione del rischio per i civili” riflette “un impegno in buona fede” a rispettare le leggi di guerra. Hamas le avrebbe invece violate in maniera pervasiva e intenzionale.

Intervistato da Jones, Corn ha affermato che, malgrado l’impressionante livello di distruzione a Gaza, del quale egli stesso era rimasto colpito, le accuse rivolte contro Israele erano affrettate. “Ciò che posso dire è che i sistemi e i processi implementati dalle IDF [Israeli Defense Forces] sono molto simili a quelli che adotteremmo noi in un simile teatro di guerra”, ha dichiarato Corn. Le sue valutazioni e quelle dei generali che hanno redatto il rapporto del JINSA non sono un’eccezione.

Come scrive Jones nel suo reportage, l’idea “che la condotta di Israele a Gaza sia in linea con l’interpretazione che l’esercito USA dà dei propri obblighi giuridici [in un contesto di guerra] è consensualmente accettata presso i legali militari americani, e i loro associati nell’accademia, negli ultimi anni”.

Prepararsi a una guerra con la Cina

A conferma di ciò, Jones cita un recentissimo studio di Naz Modirzadeh, professoressa presso la Harvard Law School e fondatrice del programma di diritto internazionale e conflitti armati presso quell’università. Modirzadeh scrive che il governo degli Stati Uniti è stato evasivo nel giudicare se Israele abbia violato le leggi di guerra. Ciò non sarebbe dovuto a ipocrisia o calcolo geopolitico, quanto piuttosto ad “una trasformazione più profonda all’interno dell’esercito americano e del suo apparato giuridico”.

Negli ultimi anni, il Dipartimento della Difesa si è concentrato sempre più insistentemente su come gli USA potrebbero combattere un conflitto su vasta scala contro un avversario in grado di rivaleggiare con l’esercito americano per tecnologia e forza militare. In un simile scenario, denominato in gergo tecnico “large-scale combat operation” (LSCO), uno scontro militare violentissimo avverrebbe in molteplici domini (aereo, terrestre, marittimo), la superiorità aerea non sarebbe garantita, le perdite sarebbero centinaia di migliaia, intere città verrebbero rase al suolo. “In pratica”, afferma Modirzadeh, l’esercito americano ha cominciato a “prepararsi per una guerra totale con la Cina”. Avendo in mente una conflagrazione di tale portata, gli esperti giuridici dell’esercito stanno reinterpretando le leggi di guerra.

“Da questo punto di vista”, scrive Jones, “Gaza non solo sembra una prova generale del tipo di combattimento che i soldati statunitensi potrebbero dover fronteggiare. È anche un banco di prova per la tolleranza del pubblico americano ai livelli di morte e distruzione che tali tipi di conflitto armato comportano”. Un’affermazione doppiamente inquietante, in primo luogo perché quella di Gaza non è una guerra contro un esercito regolare di pari livello, ma contro una formazione di guerriglia ed una popolazione inerme. E secondariamente perché prefigura la Striscia come una sorta di “laboratorio” per testare le reazioni dell’opinione pubblica occidentale di fronte a quella che di fatto è un’operazione di sterminio. A destare ulteriore sconcerto sono gli scenari futuri che simili considerazioni comportano.

A partire dal 2018, scrive Jones, la National Defense Strategy del governo americano ha elevato la competizione fra grandi potenze (con Cina e Russia in prima fila) a principale preoccupazione per la sicurezza nazionale al posto del terrorismo. Sulla base di questo segnale, l’imponente burocrazia del Pentagono ha avviato un gigantesco processo di riorganizzazione, volto a ridefinire bilancio della difesa, manuali di addestramento, contratti per gli armamenti, e strategia militare, avendo come obiettivo principale il teatro del Pacifico. Un promemoria del Dipartimento della Difesa, reso noto dal Washington Post, conferma questa tendenza rivelando le direttive dell’attuale Segretario alla Difesa Pete Hegseth volte a preparare gli Stati Uniti ad una potenziale guerra con la Cina.

Nel 2024, gli USA hanno installato il loro sistema di missili Typhon, con una gittata di circa 2.000 km, nelle Filippine, dove l’esercito americano ha accesso ad almeno nove basi militari. Questi missili sono in grado di colpire città e basi sul territorio cinese.

L’era della “moderazione” è tramontata

Intanto, nel 2021 usciva su The Military Review un articolo a firma di due importanti esperti giuridici dell’esercito statunitense secondo il quale le forze armate USA avrebbero seguito tecniche di combattimento all’insegna di un’eccezionale moderazione negli ultimi vent’anni. Ciò sarebbe stato possibile grazie ad una serie di circostanze – basi sicure, superiorità tecnologica, supremazia aerea e marittima – che avrebbero consentito un’eliminazione metodica e “non affrettata” del nemico. Questa pratica avrebbe raggiunto il suo culmine con gli attacchi condotti da droni comandati a distanza.

La tesi degli autori dell’articolo è che gli Stati Uniti dovranno combattere sulla base di regole molto più permissive, se vorranno vincere una guerra su vasta scala. Non solo le conclusioni, ma i presupposti stessi di una simile affermazione appaiono sconcertanti. Basterebbe ricordare la criminale imprecisione (riconosciuta in passato perfino da fonti militari USA) degli attacchi con droni, che hanno provocato centinaia di vittime civili in paesi come Afghanistan, Pakistan, Somalia e Yemen. O anche le migliaia di vittime civili causate dai pesantissimi bombardamenti USA volti a “liberare” dalla presenza dell’ISIS le città di Raqqa e Mosul, rispettivamente in Siria e Iraq, in anni più recenti.

Resta il fatto, scrive Jones, che al pezzo apparso su The Military Review sono seguiti una sequela di altri articoli, discorsi ufficiali e conferenze, che hanno sostenuto la stessa argomentazione, e cioè che l’esercito USA dovrà combattere il prossimo conflitto ad alta intensità sulla base di regole meno restrittive. La tendenza è chiaramente riscontrabile già nella campagna israeliana a Gaza, dove i vertici delle forze armate di Tel Aviv hanno ampliato la lista degli obiettivi consentiti e allentato in maniera impressionante le restrizioni sulle vittime civili.

Jones cita un video risalente ad aprile che dimostra quanto siano diventate permissive le regole d’ingaggio dell’esercito israeliano. Nella clip, un comandante di battaglione istruisce i propri soldati in vista di un’operazione di recupero ostaggi a Rafah. “Chiunque incontrate è un nemico”, dice il militare, “chiunque vediate, aprite il fuoco, neutralizzate la minaccia, e continuate a muovervi”. Gli esperti giuridici dell’esercito USA spingono nella medesima direzione: regole più “indulgenti” per massimizzare la letalità della macchina bellica americana.

Le direttive politiche accentuano questa tendenza. Appena nominato alla guida del Pentagono, Hegseth ha affermato in un messaggio ufficiale di voler far “rivivere lo spirito guerriero” dell’esercito americano, concentrandosi sulla “letalità” delle forze armate. “Siamo guerrieri americani; difenderemo il nostro paese”, ha dichiarato Hegseth, come se gli Stati Uniti dovessero prepararsi a un’imminente invasione militare. L’arrivo del nuovo segretario alla Difesa ha portato alla cancellazione dei programmi del Pentagono finalizzati alla prevenzione delle vittime civili nelle operazioni dell’esercito USA.

“Bunker mentality” e ridotto controllo democratico

Come ha scritto Modirzadeh,

Hegseth riduce la guerra a una brutale, inevitabile lotta di distruzione, liquida i vincoli giuridici ed etici come pericolosi ostacoli alla vittoria, e descrive le moderne regole di ingaggio – in particolare quelle che enfatizzano la protezione dei civili – come ingenue concessioni all’opinione pubblica globale che indeboliscono l’efficacia militare degli Stati Uniti contro avversari che non rispettano tali restrizioni.

Questa percezione riflette peraltro una visione della competizione internazionale intesa come un “gioco a somma zero”, in cui si domina o si è sopraffatti, anch’essa prevalente nell’establishment americano soprattutto negli ultimi anni.

I vertici politici di un paese che, pur essendo in declino, rimane tuttora la principale superpotenza mondiale, sono affetti in maniera crescente da una “bunker mentality” sempre più affine a quella israeliana. In base a tale mentalità, gli USA sono circondati da nemici e – come scrive Wess Mitchell, altro influente stratega statunitense – devono “gestire il divario tra i [loro] mezzi finiti […] e le minacce virtualmente infinite a cui essi devono far fronte”. Una possibilità di coesistenza con le altre potenze internazionali nel contesto di un mondo multipolare viene perlopiù scartata.

Due ultime considerazioni possono essere fatte sulla base di quanto scritto fin qui. Come ha osservato Modirzadeh, la reinterpretazione giuridica delle leggi di guerra non è un’operazione meramente speculativa, bensì ha ricadute concrete di ampia portata. Sebbene ci si possa augurare che una guerra aperta fra USA e Cina non si verificherà mai, la trasformazione che una simile prospettiva determina nell’approccio complessivo dell’esercito USA ai conflitti armati (in termini giuridici, di addestramento militare, di definizione delle strategie belliche) è reale. Essa è destinata ad avere conseguenze concrete sulla distruttività dell’azione militare americana nei futuri conflitti.

Il pensiero va poi alla crescente fragilità del controllo democratico sull’azione dei governi occidentali. Basti pensare, trasferendoci in ambito europeo, a come la presidente della Commissione UE abbia scavalcato l’Europarlamento nell’approvare la proposta legislativa Safe per l’istituzione di prestiti fino a 150 miliardi di euro per il riarmo del vecchio continente. Alla luce di tale fragilità e, conseguentemente, della ridotta vigilanza civile anche sugli apparati militari, la deriva verso una crescente letalità dell’azione bellica e una diminuita attenzione per danni collaterali e vittime civili risulta ancor più allarmante.

Ecco dunque un’altra ragione per cui la catastrofe di Gaza, lungi dall’essere una crisi circoscritta a un’area lontana di conflitti endemici che non ci riguardano (come i nostri mezzi di informazione vorrebbero farci credere), rappresenta invece un sintomo tragico quanto pericoloso della crisi di civiltà in cui sta sprofondando l’Occidente.