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Cosa sostiene Ernst Nolte?

di Martino Mora - 16/11/2009

Sono passati pochi giorni dalla contestazione organizzata a Trieste contro Ernst Nolte, invitato dal Comune  a tenere una conferenza per il ventennale della caduta del Muro.
Non è certo la prima volta che Nolte viene contestato, ma è la prima volta, a memoria mia, che viene accusato da politici locali e da siti internet di “negazionismo”, perlomeno in Italia.
Si tratta di un'etichetta che gli viene affibbiata per diffamarlo da individui ignoranti e in malafede. Nolte non ha mai negato o ridimensionato numericamente lo sterminio degli ebrei. Al massimo ha affrontato l'opera di alcuni “negazionisti” in un suo libro, “Controversie” (1993-'94), analizzando criticamente le loro tesi, senza peraltro sposarle. Tanto bastò perché l'uscita di quel libro, come ha detto l'autore in un'intervista, lo facesse diventare “un cane morto” in Germania.
In realtà, Nolte è uno storico discusso, diffamato e persino minacciato fisicamente (gli fu incendiata un'automobile e gli fu spruzzato del gas lacrimogeno in faccia) da più di vent'anni. Almeno da quando uscì, il 3 giugno 1986, sulla “Frankfurter allgemeine zeitung”, diretta da Jioachim Fest, importante biografo di Hitler, un suo articolo intitolato “Il passato che non passa”.
Nolte, che dal 1963, anno della pubblicazione de “Il fascismo nella sua epoca” (in italiano tradotto con “I tre volti del fascismo”), era considerato uno dei maggiori storici tedeschi, proponeva ora apertamente un nesso causale tra le due grandi ideologie totalitarie del Novecento: il comunismo e il nazionalsocialismo.
Inaugurava così quell'interpretazione storico-genetica del totalitarismo, che si differenziava dalla classica interpretazione politologico-strutturale inaugurata  dal libro di Hannah Arendt “Le origini del totalitarismo” (1951) e poi dagli studi di Carl Friedrich e Zbigniew Brzezinski. Se i libri della Arendt, di Friedrich e Brzezinski non avevano avuto timore di accomunare sin dagli anni Cinquanta lo stalinismo e il nazionalsocialismo, secondo Nolte non avevano però spiegato storicamente la genealogia del fenomeno totalitario. E soprattutto non avevano individuato il nesso tra l'affermazione del bolscevismo nel 1917 e la successiva affermazione dei fascismo italiano e del nazionalsocialismo (che altro non è, per lo storico tedesco, che “fascismo radicale”).
Nella spiegazione del fenomeno totalitario che Nolte anticipa nel giugno 1986 sul giornale francofortese e che poi presenta l'anno successivo nell'imponente volume “Bolscevismo e nazionalsocialismo. La guerra civile europea 1917-1945”, il comunismo sovietico precede il fascismo, sia nella sua versione italiana, sia in quella “radicale” di  Adolf Hitler. Lo precede non solo dal punto di vista storico, ma ne è anche la premessa, la condizione necessaria. Il fascismo può affermarsi perché si oppone come controrivoluzione militante alla rivoluzione bolscevica, che dall'ex impero russo minaccia di diffondersi ovunque, a cominciare da quella che fu la patria di Marx: la Germania. Il nazionalsocialismo è per Nolte una forma di fascismo particolarmente radicale, perché adotta i metodi violenti dell'avversario e persino la sua pratica sterminazionista. Il gulag precede il lager e ne è anche, in un certo senso, la premessa indispensabile.
L'articolo  di Nolte fu all'origine della “controversia degli storici”, il cui principale protagonista, oltre al Nolte, fu in realtà un filosofo, il più celebre filosofo tedesco: Jurgen Habermas.  L'esponente della scuola di Francoforte accusò lo storico dell'università di Berlino di praticare una sorta di “giustificazionismo”, di chiara impronta conservatrice, della recente e tragica storia tedesca.
Altri storici, come Hans Ulrich Wehler (che ricostruì poi l'intero dibattito in un suo libro) e Jurgen Kocka, insieme alla maggior parte dei giornalisti tedeschi, si schierarono con Habermas. Storici altrettanto illustri, come Andreas Hillgruber, Klaus Hildebrand e lo stesso Joachim Fest (autore della seconda biografia davvero essenziale su Hitler, dopo quella di Alan Bullock e prima di quella di Ian Kershaw), si schierarono con Nolte.
Da allora Ernst Nolte è considerato lo storico “revisionista” per eccellenza, demonizzato non solo dai politici, dai giornalisti o dagli ideologi progressisti, ma anche da molti suoi colleghi storici, come l'italiano Enzo Traverso, che è arrivato a paragonarlo a Joseph Arthur de Gobineau, il teorico del razzismo ottocentesco. Traverso forse non sa che certi paragoni squalificano molto più chi li propone di chi li subisce.
Quando, nel 1995, Francois Furet pubblicò  “Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel XX secolo”, fu aspramente rimproverato dai colleghi Tony Judt ed Eric Hobsbawm per aver citato, in una lunga e approfondita nota del libro, l'interpretazione noltiana della “guerra civile europea”. Lo racconta lo stesso Furet nell'interessantissimo scambio epistolare con Nolte, pubblicato in Italia col titolo “XX secolo”.

A me sembra che il nodo del pensiero di Nolte stia nella contrapposizione tra universalismo e particolarismo. Il bolscevismo ha rappresentato, secondo lo storico tedesco, l'universalismo politico più brutale e irrispettoso delle realtà nazionali e culturali, oltre che una pratica sterminazionista di classe. Ancora più dell'opera politica del presidente americano Wilson, il leninismo ha incarnato lo spettro della civilizzazione universale livellatrice di ogni particolarità, in nome di un modello unico di uomo e di società. I fascismi, al contrario, sono stati, secondo lo storico dell'università di Berlino, la forma estrema di particolarismo patriottico e nazionale, che nella loro forma più radicale  (quella del nazionalsocialismo) sono giunti ad identificare nell'ebreo la quintessenza dello sradicamento e dell'universalismo, e quindi il nemico mortale. Il biologismo di Hitler si sovrappone dunque a questo aspetto, identificando la soluzione definitiva del “problema bolscevico” con quella del “problema ebraico”.
E' questo, quindi, semplificando, il noltiano “nocciolo razionale della Soluzione finale”, che lo storico tedesco certo non nega né minimizza (quindi non può essere definito in alcun modo un “negazionista”), ma che rifiuta di considerare unico nella storia. Nolte riconosce al cosiddetto Olocausto la particolarità e la singolarità storica che ne fa, al pari di altri avvenimenti storici, qualcosa di unico e irripetibile, ma che non deve impedire il paragone tra lo sterminio degli ebrei e, per esempio, quello dei milioni di kulaki eliminati da Stalin.
Così Nolte rifiuta di definire “male assoluto” il nazismo, perché ciò renderebbe incomprensibile il Novecento europeo e non permetterebbe alcun paragone tra il male assoluto nazista e il bolscevismo, divenuto così  un male minore. Se infatti nella storia vi è un male assoluto, tutti gli altri fenomeni sterminazionisti diventano necessariamente “mali relativi”. Il nazismo uscirebbe così dalla storia, per diventare un fenomeno metafisico che non sarebbe più possibile indagare con l'oggettività dello storico, ma soltanto con l'occhio del teologo o del moralista.. Lo storico, invece,  deve comprendere e far comprendere, non sacralizzare o demonizzare, perché questo non è il suo compito.

Conseguenza essenziale della interpretazione che Nolte dà della guerra civile europea che ha coinvolto l'Europa fino al 1945, è la centralità dell'Ottobre Rosso, dell'Ottobre 1917, nella storia del Novecento. In questa prospettiva, all'origine del totalitarismo non sta tanto la deflagrazione mondiale della Grande Guerra,  e nemmeno l'incubazione ideologica del nazionalismo e del pensiero antidemocratico (come nell'interpretazione di Zeev Sternhell), ma la rivoluzione bolscevica. L'inizio della guerra civile tra ideologie totalitarie e sterminazioniste non avrebbe avuto inizio senza l'impresa di Lenin. Certo, il 1917 è anche per Nolte la conseguenza del 1914, cioè della guerra mondiale, ma è solo a partire dal 1917 che la faccenda diventa maledettamente seria. Senza l'avvento del bolscevismo, quindi, non vi sarebbe stata la “guerra civile europea”.
Può sembrare strano, ma  “Il fascismo nella sua epoca”(1963) era stato ben accolto dagli storici e dall'opinione pubblica progressista, forse perché riabilitando la categoria di “fascismo” come concetto storiografico portante (nelle tre versioni del “pre-fascismo” dell'Action francaise di Charles Maurras, del fascismo di Mussolini e del “fascismo radicale” di Hitler) era sembrato uscire dal coro della Arendt, di Friedrich e Brzezinski, di Jacob Talmon, accusati da sinistra di insistere sul concetto di “totalitarismo” in omaggio al clima da guerra fredda degli anni Cinquanta e in funzione anticomunista.
Anche allora, però, la sua la sua interpretazione del fascismo si distaccava parecchio da quelle che negli stessi anni davano storici come Eugene Weber e George Mosse. A parte il gergo filosofico spesso impiegato (Nolte ha studiato con Heidegger), la differenza sostanziale con Weber, Mosse, Payne, Paxton, De Felice sta nel fatto che il fascismo, per lo storico tedesco, è l'erede della controrivoluzione ottocentesca, tanto che egli identifica l'essenza dell'Action francaise di Charles Maurras con il “pre-fascismo”. Perché il pre-fascismo di Maurras diventi fascismo mussoliniano e hitleriano occorre la presa del potere, nella Russia degli zar, del partito di Lenin.
Questa interpretazione del fascismo come contro-rivoluzione non è forse assai simile a quella che ne hanno sempre dato la Terza internazionale e i partiti comunisti e socialisti? Quello che cambia - soprattutto per il Nolte più maturo- è il giudizio di valore. Il fascismo e il nazismo non sono più l'espressione della più brutale reazione anti-proletaria, ma la reazione eccessiva, fanatica  e totalitaria al fanatismo ideologico e allo sterminazionismo bolscevico.

Nel loro scambio epistolare, Francois Furet rimprovera a Nolte di non aver compreso che la guerra del 14-18, l'interventismo e la nascita del fascismo italiano hanno significato una rottura epocale all'interno della destra europea, che esce così dalle secche della controrivoluzione in cui si trovava immersa dalla Rivoluzione francese, dalle quali il monarchico Maurras non può uscire. Furet tiene assai più di Nolte all'autonomia del fascismo come ideologia e movimento politico rispetto al bolscevismo o, più in generale, al marxismo. Quindi valorizza maggiormente il ruolo della Prima guerra mondiale e il retroterra ideologico già formatosi nella cultura politica europea, rispetto  alla Rivoluzione d'ottobre.  Inoltre, Furet sottolinea la comune avversione del nazionalismo e del socialismo, poi del fascismo e del bolscevismo, per il liberalismo, l'economia di mercato e l'utilitarismo individualistico della borghesia.
E' il deficit politico che sta alla base della cultura politica liberale che rende detestabili le democrazie moderne alle estreme di destra e sinistra. Il liberale Furet ammette che l'individuo moderno, post-rivoluzionario, che nasce libero e uguale a tutti gli altri, che non è più sottomesso a vincoli gerarchici, è incapace di costruire un legame sociale che vada oltre il calcolo razionale degli interessi. Davanti a questo dramma dell'individualismo moderno, i rivoluzionari di destra e sinistra danno delle risposte che offrono l'illusione - soltanto l'illusione - di ricreare una comunità reale, un legame sociale su basi nuove, rifiutando il gretto egoismo della  borghesia, l'ideologia dei diritti e la democrazia liberale.
Come gli ha rimproverato Hans Ulrich Wehler, Nolte è meno attento al ruolo delle democrazie occidentali nella prima metà del Novecento. Per lui lo scontro reale è tra i sostenitori della  “trascendenza pratica”, cioè dell'universalismo livellatore (e qui vi include anche il wilsonismo, riecheggiando Heidegger, che negli anni Trenta parlava del popolo tedesco, “popolo metafisico”, preso nella morsa del bolscevismo ad Est e dell'americanismo ad Ovest) e i sostenitori dell'identità nazionale tedesca, che sposando il nazismo si sarebbero spinti troppo oltre, rifiutando il buono (il “sistema liberale europeo”) insieme al meno buono, e che attraverso l'idea della purezza razziale avrebbero tradito le loro premesse, giungendo al crimine dello sterminio di massa degli ebrei, che Nolte si guarda bene di giustificare ( pur considerandolo speculare allo sterminio di classe messo in pratica prima da Lenin, poi da Stalin).

E' certo che l'uso di alcuni termini utilizzati da Nolte in un'accezione  diversa dall'usuale significato del termine ( “sistema liberale”, “liberismo”, “trascendenza teoretica”, “trascendenza pratica”), hanno nuociuto alla corretta interpretazione del suo pensiero da parte di chi non ha familiarità con la sua opera.
Inoltre, non mi convince il suo rifiuto di fare i conti con la modernità del nazionalismo e dello Stato-nazione, della statolatria e dei miti biologisti e social-darxinisti. Ossimori come “rivoluzione conservatrice (Armin Mohler) o “modernismo reazionario” (Jeffrey Herf), non mi hanno mai convinto, se riferiti alla cultura fascista o pre-fascista. Perché non esiste, storicamente parlando, mito della Nazione senza la Rivoluzione francese. Tanto meno esiste mito della Razza prima dello scientismo e del biologismo ottocenteschi. Dietro gli attacchi di facciata alla modernità e alla Rivoluzione francese, il fascismo nelle sue varie versioni è un fenomeno “moderno”, anzi “ultramoderno”.
Per Nolte si tratta di un fenomeno antiuniversalista, di conseguenza antimarxista, antibolscevico, antiliberale, antisemita (perché il fascista identifica nell'ebreo finanziere-cosmopolita, o nell'ebreo militante socialista, un corpo estraneo, antinazionale). Ma il nazionalismo è davvero un particolarismo, come sostiene lo storico tedesco? Addirittura un particolarismo estremo, nel caso dei fascismi?  Possiamo dubitarne, se teniamo conto che gli  Stati-nazione si sono affermati contro   ogni particolarismo naturale, locale,  regionale e alle spese dei corpi intermedi di Antico regime. Hanno fatto macerie dei particolarismi tradizionali.
Possiamo nutrire quindi delle riserve sull'interpretazione noltiana del fascismo e del nazismo, ma guardiamoci  bene dal ritenerla “pericolosa”. Non esistono interpretazioni storiografiche pericolose. E' tipico dei sostenitori del “politicamente corretto”, o di certi militanti della sinistra, ritenere pericolose e magari punibili per legge le opinioni, non solo quelle storiografiche. Al contrario, dovremmo finalmente capire che le interpretazioni storiografiche sono soltanto condivisibili o meno. E profonde o superficiali. Al di là di ogni dubbio, l'interpretazione noltiana del Novecento e della “guerra civile europea”  è straordinariamente suggestiva e profonda.