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Chiare fresche dolci acque pubbliche. Addio

di miro renzaglia - 23/11/2009

acqua_fondo magazineCe la stanno dando a bere. L’acqua privata, intendo. Liscia, gasata, ferrarelle o pubblica? Cancellate l’ultima opzione: anche quella che vi sgorgherà dal rubinetto o dal soffione della doccia, sarà cosa loro. Loro chi? Loro: i soliti noti delle imprese a profitto. Eh! qualcuno obietterà: “ma pure fino ad oggi l’acqua l’abbiamo sempre pagata…”. Sì, certo: abbiamo pagato il servizio pubblico, che non prevedeva profitto. Adesso pagheremo anche quello. E il profitto si fa solo in un modo: o alzando le tariffe, o abbassando la qualità del servizio. Il terzo non è dato.

Tanto per fare un sempio, in Sicilia la privatizzazione è già realtà essendo la gestione degli impianti affidata ad una società spagnola: chiedete ai vostri amici siciliani come vanno le cose laggiù…

E, però, il 4 novembre scorso, il senato ha approvato l’Art.15 del DL 135/09. Il 18 novembre è passato pure alla camera dei deputati. Ma mica è passato con voto normale, macché!!! Il governo, a scanso di eventuali e sgradite sorprese, ha chiesto addirittura il voto di fiducia, come dire: “Non facciamo scherzi: se non passa questo decreto, andiamo tutti a casa…”. All’ignaro bisogna forse spiegare che la richiesta del voto di fiducia annulla tutti gli emendamenti correttivi alla proposta di legge: o così o niente… La Camera ha detto: “così”… Amen.

La questione, non è da poco: privatizzare significa cedere la gestione di un bene pubblico, di un bene, cioè, patrimonio dello stato, a imprese che lo gestiranno secondo fini che rispondono a scopi di puro capitale senza, o quasi, possibilità di controllo. C’era un tempo che lo stato gestiva persino industrie produttive di panettoni (quelli “Motta”, per esempio…): cederle a privati poteva addirittura essere un vantaggio e, comunque, è dubbio che il panettone statale fosse preferibile a quello privato.

Dunque, la nostra obiezione non è di mero principio ideologico: ci sono imprese che è addirittura conveniente privatizzare, anche se preferiremmo fosse fatto in un sistema di partecipazione sociale del lavoratore e di controllo e garanzia dello stato.

Il fatto è che, tra il 1993 e i primi mesi del 2001, in Italia sono state effettuate cessioni di proprietà del Ministero del Tesoro, come: Telecom, Seat, Ina, Imi, Eni, Enel, Mediocredito Centrale, Bnl; dell’Iri come Finmeccanica, Aeroporti di Roma, Cofiri, Autostrade, Comit, Credit, Ilva, Stet; dell’Eni: come Enichem, Saipem, Nuovo Pignone; dell’Efim e di altri enti a controllo pubblico, come: Istituto Bancario S. Paolo di Torino e Banca Monte dei Paschi di Siena; di enti pubblici locali, come Acea: Aem, Amga.

Cosa restava da privatizzare? Ce lo dice un rapporto della Confindustria del 2001:

«Occorre inoltre considerare che è stata avviata, ma non completata, l’operazione di privatizzazione dei servizi di pubblica utilità in ambito locale, dove aziende pubbliche, nella forma di imprese municipalizzate, controllano servizi di rilevante impatto sociale ed economico, come la distribuzione dell’acqua…».

Ma il comando a procedere alla cessione di questo servizio non viene dalla Confindustria, anche se è evidente il suo interesse alla cosa, ma da molto più lontano. E non è farina del sacco del ministro Ronchi, del quale la legge porta il nome e neanche del primo ministro Berlusconi: basta far mente locale al fatto che la cessione del liquido era già in agenda dell’ultimo governo Prodi, con analogo disegno di legge che portava le illustri firme degli allora ministri Bersani e Di Pietro

Il problema è il solito: quando qualcuno è indebitato deve vendere i gioielli di famiglia, a prescindere da chi sia in quel momento il capo-famiglia. L’Italia è indebitata fino al collo e deve rispettare i decreti di ingiunzione per la restituzione del credito. Non può andare oltre il pagamento della rata degli interessi annui, lasciando intatto e irrisolto il capitale debitorio? Restituirà in altro modo: privatizzando tutto, il privatizzabile e il non.

E con chi siamo indebitati principalmente? Con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Guarda caso, gli stessi enti che stanno spingendo da anni i governi dei paesi terzomondisti, strangolati dai loro prestiti, a svendere la loro acqua alle multinazionali, tutte incluse nella Commissione mondiale dell’acqua, sotto controllo dell’amministrazione della Banca mondiale. Con il bel risultato di assetarli fino alla disidratazione senza che il capitale debitorio abbia subito la benché minima regressione. E noi siamo avviati alla stessa sorte.

 

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