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A farci volare basso sono l’ignoranza e la viltà di fronte alla nostra verità interiore

di Francesco Lamendola - 14/02/2010

 

La nostra anima aspira alla verità, sia quando ne è consapevole, sia quando non lo è: tale è la sua natura, tale il suo destino.
Vi sono anime che ne hanno una consapevolezza piena e completa, altre che sembrano totalmente sprofondate nella più grossolana inconsapevolezza; ma, per la maggior parte, le anime oscillano fra questi due estremi, alternando momenti di risveglio e di chiarezza ad altri di ottundimento e di pesante inerzia.
Ora, la verità corrisponde alle altezze: nel duplice significato del vocabolo latino “altus”, che indica sia la dimensione verso l’alto (altezza in senso proprio), sia quella verso il basso (e quindi profondità); significato che si è parzialmente conservato, nell’italiano moderno, in espressioni come “alto mare” per indicare il mare profondo, oppure “alto ingegno” per indicare una profonda intelligenza.
L’anima umana è fornita degli strumenti necessari sia per volare verso l’alto, sia per immergersi nelle abissali profondità di se medesima. Ma il grande segreto è che le due cose, solo apparentemente opposte, in ultima analisi diventano una cosa sola: perché, scendendo nelle profondità della verità interiore, si finisce per cadere nel cuore stesso della Verità, vale a dire nell’Essere incorruttibile, luminoso e supremamente cosciente e beato.
Eppure, noi facciamo l’esperienza quotidiana della nostra penosa insufficienza, della nostra lamentevole inadeguatezza; ogni giorno, ogni ora - si può dire - noi tocchiamo con mano l’enorme divario, la sproporzione incolmabile che separa ciò che siamo da ciò che potremmo essere; la palude stagnante nella quale sguazziamo con fatica ed il mare aperto, limpido, tranquillo di cui ci giunge il lieve fruscio delle onde.
Che cosa è, dunque, questa contraddizione insanabile che ci fa volare basso, mentre la nostra parte divina vorrebbe slanciarsi verso l’alto; che ci trattiene amaramente in superficie, mentre la scintilla celeste che è in noi vorrebbe calarsi nelle abissali profondità dell’anima? A che cosa dobbiamo questa situazione di stallo a somma zero, per cui, come presi tra due forze contrapposte, non riusciamo né a progredire, né a rassegnarci?
Crediamo che una osservazione il più possibile spassionata ed equanime del comportamento umano, sia nostro che altrui, finirà per condurci alla conclusione che il principale fattore responsabile di ciò ha a che fare con la nostra profonda ignoranza e con la nostra ancor più profonda vigliaccheria morale. Noi aspiriamo alla verità, ma non lo sappiamo; o - il che è peggio - lo sappiamo, ma non vogliamo saperlo, e facciamo di tutto per strangolare tale esigenza con la forza cieca del nostro egoismo, come una madre dalla mente ottenebrata che strangola il suo bambino nella culla.
È un delitto contro noi stessi quello che commettiamo quotidianamente, ogni qual volta non sappiamo o non vogliamo riconoscere che il richiamo alla nostra verità interiore è una esigenza fondamentale della nostra anima, ignorando il quale essa finisce per intristire e per spegnersi lentamente, ma inesorabilmente.
Conosciamo persone che vivono così: esse hanno ucciso la propria verità interiore, hanno strangolato il proprio bambino nella culla; e continuano a vivere, così, miseramente mutilate, mutilate dalle loro stesse mani; ma vivono una vita che non è realmente vita, è soltanto una pallida contraffazione della vita, è un inganno e una menzogna continua, una intollerabile finzione e una lunga, segreta agonia.
Ne conosciamo; e forse ciò vale anche per una parte di noi stessi; e, forse, ognuno di noi conosce tali situazioni e sa bene di che cosa stiamo parlando.
Ma che cosa intendiamo, esattamente, quando parliamo di ineludibile richiamo alla nostra verità interiore? Nulla di generico o, peggio, di retorico: ma la concreta, quotidiana verità delle emozioni, dei sentimenti, dei pensieri.
La nostra intima verità, in un certo senso, è più grande di noi: il nostro io quotidiano, il nostro piccolo io fondato sul falso Ego è un contenitore troppo esiguo per contenere la sua forza luminosa e prorompente; per cui facciamo come l’avaro, che chiude a chiave il forziere dei propri tesori: chiudiamo a chiave le porte della nostra anima.
Intendiamoci bene: non tutto ciò che sale alle profondità delle nostra anima è buono in se stesso; non tutto deve essere accolto e portato alla luce; è giusto e doveroso che noi operiamo una selezione, guidati dal nostro istinto morale e dalla nostra ragionevolezza. Ciò non significa, tuttavia, che noi siamo esonerati dal sacrosanto dovere di guardare in faccia i contenuti della nostra anima, la verità che emerge da essa: che la guardiamo in faccia, che la riconosciamo e che la accettiamo. Dopo di che, decideremo quali contenuti dovranno guidare il nostro cammino esistenziale, e quali no, perché ci porterebbero fuori strada: ma abbiamo il dovere imprescrittibile di essere leali e onesti con noi stessi, di non barare al gioco.
Chi bara al gioco con sé stesso, lo farà anche con gli altri; procurerà sofferenza a se stesso e al suo prossimo: sarà simile ad una mina vagante, capace di esplodere e di distruggere tutto ciò che le sta all’intorno - e, quel che è peggio, senza averne una piena e profonda consapevolezza. Sarà un’anima persa, nel senso letterale della parola.
Sono molte le ragioni per cui gli esseri umani sono tentati di barare al gioco; ma tutte, più o meno, riconducibili ad un elemento comune: l’ignoranza di se stessi e la vigliaccheria davanti a sé e agli altri. La paura di essere giudicati - in primo luogo da noi stessi, in secondo luogo dalla società - li paralizza e li fa venire a patti con la propria coscienza; li abitua al quotidiano tradimento della propria anima, al quotidiano assassinio della propria verità.
La verità che giace in noi stessi ha qualcosa di divino: perché in noi stessi, nelle nostre insondabili profondità, giace una scintilla della luce divina. Quindi ignorare, tradire e soffocare la nostra verità significa ignorare, tradire e soffocare la nostra parte divina. Non è solamente un delitto contro noi stessi quello che compiamo, quando cediamo alla viltà, ma anche e soprattutto un delitto contro l’Essere, di cui noi siamo una parte o un riflesso o una emanazione.
Emozioni, sentimenti, pensieri: cose concrete, che emergono dalle nostre profondità, chiamate da una domanda da noi stessi formulata e poi subito, magari, soffocata e respinta. Vi sono persone, ad esempio, le quali, dopo aver evocato un sentimento di amicizia o di amore, se ne pentono, perché lo trovano inconciliabile con la propria posizione sociale.
Pentirsi di un sentimento è sempre esecrabile e indice di un basso livello morale; tuttavia, è vero che non tutti i sentimenti possono essere vissuti e che, per un complesso insieme di ragioni, talvolta risulta necessario rinunciarvi. Ciò non significa che li si possa trattare come dei clandestini indesiderati, perché siamo stati noi stessi ad evocarli; quindi, essi vanno riposti in una piega della nostra anima con la massima cura e con il massimo rispetto.
Non solo. Se, nella fase in cui abbiamo civettato con i nostri sentimenti, altre persone sono state coinvolte nel gioco, noi abbiamo contratto un debito d’onore nei loro confronti: non è lecito coinvolgere altre persone nelle nostre contraddizioni, lusingarle, illuderle, e poi voltare loro bruscamente le spalle, sbattendo loro la porta in faccia.
Si dirà che chi agisce in tal modo, lo fa perché sconvolto dalla paura e non per cattiveria: per la paura di perdere se stesso, per la paura di non riuscire più a controllare la situazione. Questo è vero, ma non attenua la responsabilità morale di un tale comportamento. Ciò che sarebbe perdonabile in un bambino, non lo è più quando si tratta di un adulto, pienamente responsabile delle proprie azioni perché in grado di comprenderne la portata e le possibili conseguenze.
La verità è che, troppo spesso, noi tendiamo a giustificarci e ad autoassolverci invocando la paura come causa di forza maggiore: ma la paura è figlia della viltà, e quest’ultima non ci piomba addosso alle spalle, a tradimento: siamo proprio noi, invece, con i nostri comportamenti e con i nostri pensieri quotidiani, a permetterle di stabilirsi nella nostra dimora, di invadere la nostra dimensione interiore, di ricattarci come miseri burattini e, in conclusione, di insignorirsi della nostra anima e di averci completamente in sua balia.
Don Abbondio giustificava con se stesso la propria viltà, dicendosi che, se uno non nasce con un cuor di leone, non se lo può dare da sé: ma è una giustificazione troppo comoda e troppo sbrigativa. Sarebbe plausibile se noi fossimo soli e abbandonati alle nostre misere risorse individuali; ma non è così. Siamo molto più forti di quel che crediamo: e non perché ci sostiene - come ritengono alcuni filosofi - un cieco attaccamento alla vita; ma perché le radici dell’Essere, che affondano negli abissi della nostra anima, non ci permettono di subire gli assalti di forze più grandi e potenti di noi, senza fornirci, al tempo stesso, un sostegno adeguato.
Noi lo sappiamo, lo sentiamo, lo intuiamo; ma il punto è che preferiamo fare finta di ignorarlo, per la semplice ragione che, se nella nostra lotta contro la viltà potremmo ricevere un tale sostegno, nondimeno dovremmo impegnarci con tutte le nostre forze: come un inesperto rocciatore che, nel tratto più difficile dell’ascensione, riceve bensì l’aiuto dell’esperto alpinista, ma deve tuttavia dare fondo a tutte le proprie risorse, perché solo così potrebbe avanzare, invece di rinunciare e tornare mestamente sui propri passi.
E questo, molto spesso, noi non lo vogliamo: non ci piace fare fatica, specialmente se non vediamo a portata di mano una sostanziosa ricompensa.
In questo caso, l’unica ricompensa è il senso di giustizia morale che si pone sia come esigenza del nostro agire, sia come premio ai nostri sforzi: troppo poco per dei ghiottoni incorreggibili, per dei furbastri che sempre vorrebbero ottenere almeno il doppio di ciò che hanno investito. Siamo abili ad inventarci mille scuse per giustificare la nostra viltà: ma il fatto è che essa ci fa troppo comodo perché siamo disposti a rinunziarvi.
Combattere e vincere la nostra viltà, infatti, comporterebbe delle ulteriori responsabilità: e la prima fra tutte sarebbe la responsabilità di sentirci chiamati a rispondere, davanti a noi stessi, delle nostre scelte esistenziali, senza accampare scuse di alcun tipo.
Quanti di noi sono veramente disposti a farlo?
Quanti di noi sono capaci di vivere così, di adottare questo stile di vita, e non solamente di farlo a sprazzi, quando un soprassalto di orgoglio o di consapevolezza ci sferza e ci obbliga, quasi, a ritrovare un minimo di lealtà e di onestà con noi stessi, per poi subito ricadere nell’inerzia e nell’ignavia consuete?
Non molti, se vogliamo essere sinceri.
E tuttavia, è davvero il caso di chiedersi se valga la pena di cedere alla viltà e di accettare una vita mancata: perché questo, e non altro, è il prezzo che si paga, allorché deliberatamente si mette a tacere la propria verità interiore.
Se non abbiamo il coraggio dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, non troveremo mai nemmeno il coraggio di affrontare la verità ultima della nostra anima: vale a dire l’aspirazione a fare ritorno all’Essere.
E una vita mutilata di questa esigenza fondamentale non è più vita, ma una misera parodia di essa; un surrogato triste e deludente.
È così che vogliamo vivere: con l’eterno rimorso di aver mancato la nostra vita, il nostro scopo, la nostra ragione di essere?
Contare gli anni, i giorni, le ore del nostro tradimento verso noi stessi, della nostra infedeltà alla chiamata?
Se potessimo vedere con chiarezza e mettere sui due piatti della bilancia i pro e i contro di una simile scelta, non ci sono dubbi che resteremmo colpiti dall’assurdità e dall’autolesionismo del nostro comportamento: perché vivere come stiamo vivendo ora, significa punirci molto più duramente di quanto potrebbe mai farlo il più severo dei giudici.
Perché non tentare, dunque, di restituire alla nostra vita tutta la sua bellezza e tutto il suo splendore, liberandoci dal falso Ego e ritrovando la felicità cui siamo stati destinati fin dall’inizio?