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Prosperità senza crescita

di Pietro Greco - 16/03/2010

 

 

Da tempo ha un nome, economia dello stato stazionario. Ma non ha ancora una chiara definizione. Per alcuni significa che, per essere ecologicamente sostenibile, la ricchezza di un paese e del mondo intero, misurata attraverso quello strumento a sua volta piuttosto rozzo che è il Pil (prodotto interno lordo), non deve più crescere e, anzi, deve diminuire: si parla, dunque, di economia della decrescita.

Per altri economia dello stato stazionario ecologicamente sostenibile significa che a non dover crescere e, magari, a iniziare a diminuire non è la ricchezza in assoluto, ma l'uso non rinnovabile di materia e di energia. Si parla in questo caso di sviluppo, anche economico, senza crescita, dell'inquinamento e dei consumi di risorse naturali.

Lo sviluppo, economico, senza crescita può essere realizzato, in teoria, attraverso due diverse modalità. Da un lato attraverso il disaccoppiamento tra Pil e consumo di risorse naturali. Dall'altro attraverso un diverso tipo di sviluppo che non è fondato sui parametri misurati dal Pil.
Un po' tutti si pongono la domanda: come raggiungere un'economia dello stato stazionario? Non è possibile rispondere a questa domanda se prima non chiariamo cosa intendiamo per economia dello stato stazionario.

Senza questa preventiva definizione ci troveremo necessariamente di fronte alle due obiezioni che è possibile rivolgere a Philip Lawn, della Faculty of social sciences della flinders university, di Adelaide, che sull'ultimo numero di Ecological economics ha provato a rispondere alla domanda di cui sopra.
Il ricercatore australiano non ha dubbi. Sono gli stati che possono e devono favorire la transizione da un'economia fondata sulla crescita (del Pil) a un'economia di stato stazionario. Lo possono fare attingendo a due loro poteri: quello di spesa e quello di tassazione.

Attraverso la spesa, oculata, che non crea inflazione, possono e devono costruire una società a basso consumo. Attraverso le tasse possono e devono impedire l'espansione sia delle attività private che generano inquinamento sia delle attività private che consumano risorse naturali.

Non entriamo nel merito della ricetta di Lawn, che ri-affida (giustamente) allo stato un ruolo guida in economia. Non è cosa da poco, la riscoperta della guida pubblica dell'economia. Chi comunque volesse approfondire l'argomento può leggersi l'articolo Facilitating the transition to a steady-state economy: Some macroeconomic fundamentals.

Proviamo, tuttavia, a discutere i due tipi di obiezioni che l'articolo non risolve. La prima obiezione è che un'economia dello stato stazionario o, anche, della decrescita (una società dove il Pil non cresce o addirittura diminuisce) non è di per sé un'economia ecologicamente più sostenibile. Lo dimostra proprio l'Italia. L'economia del nostro paese è cresciuta meno che nel resto d'Europa negli ultimi venti anni e, lo scorso anno, è addirittura diminuita in termini di PIL di oltre il 5%. Eppure la sostenibilità ecologica della nostra «economia della decrescita infelice» non è migliorata. Due dati per tutti, lo dimostrano. Malgrado il Pil non sia aumentato - o sia aumentato poco - sono aumentate le emissioni assolute di anidride carbonica. L'intensità di energia (la quantità di energia per unità di reddito prodotto, una misura dell'inefficienza del sistema) è rimasta stazionaria, mentre nel resto d'Europa è decisamente diminuita.

La seconda obiezione riguarda il tema su cui si sofferma, tra gli altri, l'inglese Tim Jackson, docente di Sviluppo sostenibile presso la University of Surrey, in un libro pubblicato di recente: Prosperity without Growth: Economics for a Finite Planet, pubblicato a Londra presso l'editore Earthscan. Il tema affrontato da Jackson è quello della povertà e della disuguaglianza. Che non può essere ignorato, anche e soprattutto in un modello di economia ecologica sostenibile. Sia per motivi di giustizia sociale, sia di realismo politico.

Il tema sollevato da Jackson è quello della povertà e della disuguaglianza. Come battere la povertà e diminuire la disuguaglianza dentro e tra le nazioni in un'economia dello stato stazionario? Se non si risponde a questa domanda, la proposta di un modello di stato stazionario o di decrescita è destinato a fallire per una intrinseca debolezza. Per battere la povertà, sostiene Jackson, occorre incrementare la prosperità. Occorre dunque creare un nuovo modello economico fondato sulla «prosperità senza crescita» (che dal punto di vista della percezione di massa e dell'accettabilità sociale suona meglio di "economia della decrescita").

Non è (non deve essere) solo possibile, ma è assolutamente necessario assicurare l'aumento della prosperità anche in un quadro di stato stazionario della crescita.
Per farlo occorre riuscire a disaccoppiare - magari agendo sulla spesa pubblica e la tassazione - l'aumento della prosperità dal consumo di risorse naturali. Sapendo che questo non basta - anzi è del tutto irrealistico - in un modello in cui la ricchezza viene misurata attraverso i parametri cui è sensibile il Pil. Nell'attuale modello economico aumenta, è vero, il tasso di de-materializzazione e di de-energizzazione dell'economia. Ma questo aumento è inferiore al tasso di crescita del PIL. Cosicché i consumi assoluti di materia e di energia aumentano.

Occorre allora che la prosperità sia misurata da strumenti più raffinati del PIL e dunque fondata sulla produzione di beni - pubblici e immateriali - ben diversi dai beni di consumo individuali su cui si fonda l'attuale modello economico. Occorre un nuovo modello. Che preveda lo sviluppo, ma non la crescita.