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Il “caso” Cantalamessa mostra nel modo più evidente l’eterna arroganza dei rabbini

di Francesco Lamendola - 06/04/2010


Un’altra bufera sul Vaticano; un’altra serie di formidabili bordate contro la Chiesa cattolica da parte delle comunità ebraiche di mezzo mondo, Europa e America in particolare: siamo arrivati ormai alla paranoia più totale.
Chi non è cristiano, in questo momento, se ha un briciolo di senso dell’onore e un minimo di comprensione di quello che sta accadendo dietro le quinte di tutti questi attacchi martellanti e concentrici - dalla mancata visita di papa Ratzinger all’Università La Sapienza, alle rinnovate recriminazioni sul “silenzio” di Pio XII per la sorte degli Ebrei durante la seconda guerra mondiale, allo scandalo dei preti pedofili e, ora, alle polemiche sull’omelia di padre Cantalamessa - non può non sentirsi cristiano; così come un uomo d’onore e di retto sentire, nell’ora più buia dell’antisemitismo, non avrebbe potuto non sentirsi ebreo.
Ecco, ci è sfuggito - e non intenzionalmente - esattamente lo stesso paragone, sia pure nella consapevolezza dei diversi contesti storici, fra l’antisemitismo e gli attacchi portati alla Chiesa di papa Ratzinger da ambienti ben precisi della stampa e della politica internazionale: ambienti estremamente potenti, che sfiorano e oltrepassano le stanze delle massime istituzioni mondiali - la Casa Bianca di Washington, per dirne una; o la City londinese  e la Banca di Wall Street, per dirne altre.
Ma che cosa è successo, in definitiva, di così grave, da scatenare la reazione furibonda, rancorosa, isterica, di tante comunità giudaiche sparse nel mondo?
Proviamo a considerare serenamente i fatti.
Nel corso della messa della Passione, celebrata venerdì 2 aprile 2010 in San Giovanni in Laterano, il predicatore Raniero Cantalamessa, frate cappuccino, a un certo punto ha citato la lettera ricevuta da un amico ebreo, nella quale si esprimeva solidarietà alla Chiesa cattolica per le recenti campagne scandalistiche lanciate da più parti con il pretesto degli abusi sessuali venuti in luce; e si paragonavano tali campagne all’antisemitismo di funesta memoria.
Apriti cielo: è stato tutto un fuoco di fila di indignate proteste; di rabbini che si stracciavano le vesti e gridavano allo scandalo, all’obbrobrio, alla provocazione.
Ne scegliamo alcune a caso.
Il Centro Simon Wiesenthal ha tuonato: «Queste affermazioni ingiuriose sono state fatte in presenza del papa e il papa stesso deve chiedere scusa.»
Il «New York Times» cita la reazione «incredula» del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, il quale così si è espresso: «Con un minimio di ironia potrei dire che, visto che oggi è il Venerdì Santo, quando la Chiesa prega il Signore che illumini i nostri cuori perché riconosciamo Gesù, che anche noi preghiamo il Signore perché illumini i loro cuori.»
Elain Steinberg, vice-presidente della associazione americana «Superstiti dell’Olocausto e loro discendenti»: «Padre Cantalamessa si dovrebbe vergognare. Il Vaticano ha il diritto di difendersi, ma il parallelo con la persecuzione anti-semita è insultante e insostenibile. Siamo dolorosamente dispiaciuti.»
Gary Greenbaum, direttore americano delle Relazioni inter-religiose dell’«American Jewish Committee»: «Fare questo parallelo è una scelta infelice di parole perché la violenza collettiva contro gli ebrei ha provocato la morte di sei milioni di persone, mentre la violenza collettiva di cui si parla qui [ossia le critiche al Vaticano] non hanno causato alcun omicidio o distruzione».
David Clohessy del gruppo «Survivors Network of those Abused by Priests»: «Spezza il cuore vedere un altro esponente  vaticano di alto rango fare delle osservazioni così insensibili. Le persone che nascondono in modo deliberato e prolungato i crimini sessuali contro i bambini non sono assolutamente delle vittime. Paragonare la richiesta di un pubblico esame di tali azioni con gli atti orribili di violenza commessi contro gli ebrei non potrebbe essere più sbagliato.»
Il Consiglio Ebraico della Germania: «Il sermone di Cantalamessa è stato insolente, osceno e offensivo nei riguardi delle vittime degli abusi e delle vittime dell’Olocausto.»
Potremmo continuare, a e a lungo: ma crediamo di aver reso l’idea.
Davanti a una siffatta, becera arroganza, perfino il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, non ha trovato di meglio che battere frettolosamente in ritirata e dissociarsi dal paragone tra l’attacco alla Chiesa per la vicenda dei preti pedofili e l’antisemitismo: anche se è chiaro come il sole - beninteso se si è in buona fede - che il paragone non riguardava i campi di sterminio, ma solo una certa modalità di diffamazione sistematica; e che, soprattutto, non si trattava d’altro che della solidarietà espressa da un Ebreo (da un Ebreo!) nei confronti della Chiesa cattolica, e non di una opinione “ufficiale” di quest’ultima.
Un episodio altrettanto clamoroso dell’arroganza anticristiana, camuffata “semplicemente” da anticlericalismo, si ebbe all’epoca in cui fu sindaco di Roma l’ebreo Ernesto Nathan (1907-1913), Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1896 al 1904 e dal 1917 al 1919.
Nel commemorare il quarantesimo anniversario della breccia di Porta Pia, Nathan, fra l’altro, fece queste dichiarazioni in un comizio pubblico alla cittadinanza:

«… Davanti alla volontà del popolo, all’opra dei grandi fautori, l’Apostolo, il Guerriero, il Re, lo Statista, dinanzi al prode esercito, ai valorosi volontari, ai cittadini, quanti oprarono, soffrirono, morirono, per la prescienza che talvolta illumina uomini e assemblee, così allora statuì quell’illustre patriottico consesso, e così, nella maturità degli eventi, fu. Conferma di quel voto solenne, noi siamo qui oggi; e domani il mondo intero, nelle molteplici sue rappresentanze, qui converrà per constatare come la Roma dell’oggi, la Roma della Terza Italia, riprenda il cammino dal destino assegnatole, riassuma in sé la volontà e le aspirazioni di un grande popolo, varchi le frontiere, e nelle estrinsecazioni della vita, nelle manifestazioni del pensiero, attraverso i monti, s’affratelli con gli altri popoli. Tale è la Roma ch’é onorato mio ufficio rappresentare, vindice della libertà del pensiero, entrata in una con la bandiera tricolore; una altra Roma, prototipo del passato, si rinchiude entro un perimetro più ristretto delle mura di Bellisario, intesa a comprimere nel brevissimo circuito il pensiero, nella tema che, come gli imbalsamati cadaveri del vecchio Egitto, il contatto con l’aria libera abbia a risolverla in polvere. Di lì, dal pregiudizio del dogma, ultimo disperato sforzo per eternare il regno dell’ignoranza, scende, da un lato, l’ordine ai fedeli di bandire dalle scuole la stampa periodica, quella che narra della vita e del pensiero odierno; dall’antro risuona tonante - elettricità negativa senza contatto con la positiva - la proscrizione contro gli uomini e le associazioni desiderosi di conciliare le pratiche e i dettami della loro fede, con gli insegnamenti dell’intelletto, della vita vissuta, delle aspirazioni morali e sociali della civiltà. Ritornate, o cittadini, alla Roma di un anno prima della breccia, nel 1869. Convennero allora in pellegrinaggio i fedeli di tutte le parti del mondo, qui chiamati per una grande solenne affermazione della cattolicità regnante. San Pietro, nella monumentale sua maestosità, raccoglieva nell’ampio grembo i rappresentanti dei dogma, in Ecumenico Concilio; vennero per sancire che il Pontefice, in diretta rappresentanza e discendenza di Gesù, dovesse, come il Figlio, ereditare onnisciente illimitato potere sugli uomini, e da ogni giudizio morali i decreti sui sottrarre, in virtù della infallibilità proclamata, riconosciuta, accettata. Era l’inverso della rivelazione biblica del Figlio di Dio fattosi uomo in terra; era il figlio dell’uomo fattosi Dio in terra! Vi fu chi, forte nella storia dei Pontefici attraverso i secoli, reagì alla bestemmia rivolta a Fio e agli uomini. Doellinger rimase solo! Revocare in dubbio, discutere i decreti dal Capo della Chiesa per la gerarchia era il primo passo per sottometterli, al libero esame; era il forellino attraverso cui passava l’aria ossigenata della scienza, del progresso civile. E però sulle vecchie mura del dogma si sovrappose l’intonaco della infallibilità per unanime consenso. Fu l’ultima grande affermazione dinanzi al mondo, della Roma prima della Breccia, era l’ultimo pellegrinaggio al Pontefice Re. Confrontate il fatto di allora con quello che ora si prepara, e misurate il cammino percorso in quaranta anni, un giorno nella vita della Città Eterna! Guardatela nelle nuove forme, nei nuovi atteggiamenti. Le mura di Bellisario trapassate da ogni lato, come le mura di Servio Tullio, stanno là a determinare il circuito della vecchia Roma, coi suoi orti si protendono verso il colle e il mare, senza soluzioni di continuità, e appena qualche albero, fra le nuove, larghe, illuminate vie, fra le case moderne, delle altre ricorda l’esistenza. Il Gesù è diventato un archivio nazionale, archivio anche di tristi memorie; Castel Sant’Angelo, la tomba del morto imperatore romano, ridotta poi a tomba dei viventi sudditi papali, è un museo di ricordi medioevali, per insegnamento e raffinamento dei cittadini; l’insigne e colossale monumento della grandezza romana, le Terme di Diocleziano, ridotte a fienili, magazzini e sconci abituri, ora si circonda di giardini e ritorna in vita, degna vita, grande, impareggiabile museo nazionale di arte antica. E potrei continuare; mostrarvi le scuole elementari, il Lungo Tevere, là dove si ergeva, monumento di stolta intolleranza, il Ghetto; i bagni pubblici in recinti ove la tolleranza consentiva la corruzione dei costumi; riassumo: nella Roma di un tempo non bastavano mai le chiese per pregare, mentre invano si chiedevano le scuole; oggi le chiese sovrabbondano, esuberano e le scuole non bastano mai! Ecco il significato della Breccia, o cittadini. Nessuna chiesa senza scuola! Illuminata coscienza per ogni fede, ecco il significato della Roma d’oggi.» (cit. da l’«Avanti!» dell’11/01/2010).

Come si vede, mescolando nazionalismo e culto positivistico della modernità, laicismo e secolarizzazione, Nathan non si limita a parlare da sindaco di una capitale e da pubblico amministratore, né solo da politico; egli entra direttamente nel cuore della religione cristiano-cattolica, che definisce «il regno del dogma, del pregiudizio e dell’ignoranza»; offende direttamente il capo riconosciuto di una grande religione (fra parentesi, quella allora professata dalla stragrande maggioranza degli Italiani, Romani compresi); ed eleva una sorta di carducciano «Inno a Satana», cioè al Progresso, contro il vecchio mondo papalino e reazionario.
Fino ad oggi gli storici che si sono occupati di questo episodio si sono limitati ad inquadrarlo nel generale contesto dei difficili rapporti fra Stato e Chiesa ai primi del ‘900 e a leggerlo nella chiave dell’acceso mazzinianesimo e anticlericalismo del Nathan; ma forse sarebbe più giusto tener conto anche della tendenza anticattolica propria del giudaismo, tendenza che lo caratterizza sin dalle origini, vale a dire sin da quando il cristianesimo nacque come un’eresia del giudaismo stesso, nel quadro dell’Impero Romano ancora pagano.
L’incidente del 1910 è ricordato da Vittorio Facchinetti nel suo libro «L’anima di Pio X» (Milano, Società Editrice “Vita e Pensiero”, 1935, pp.306-307); e, se il tono generale dell’Autore è quello del sacerdote cattolico che risente del clima culturale di un secolo fa (e non esente - perciò - da pie esagerazioni, ma più di forma che di sostanza), il brano è ugualmente interessante, anche perché contiene alcune frasi di commento dello stesso Pio X:

«Ma se, ai tempi di papa Sarto, c’erano - dicevamo - dei Ministri deferenti e bene intenzionati verso la Santa Sede, c’erano pure dei pubblici funzionari che, anche nel’esercizio del loro mandato, non si peritavano di insultare volgarmente alla Chiesa ed al papa. È il caso del’ebreo Ernesto Nathan, Sindaco di Roma, il quale, il 20 settembre 1910, commemorando l’anniversario della breccia di Porta Pia, si permetteva (quasi anticipo per i, cinquantesimo della proclamazione del Regno d’Italia, con Roma capitale), di attaccare direttamente la giurisdizione spirituale del Pontefice, esponendo al ridicolo e al disprezzo la sua autorità e coprendo di vituperio gli atti del suo apostolico ministero. Eppure quel Governo che aveva, parecchi anni prima, richiamato all’ordine, con inusitata energia, un altro Sindaco dell’Urbe, il principe Torlonia, per una frase cortese verso il papa, non ebbe neppure una parola di biasimo aperto per il foglio prediletto della Massoneria che violava, in modo così volgare, le leggi della prudenza e del galateo. Certo non era questo disporre gli animi ad una mutua intesa e preparare la via alla conciliazione.
Ci vorremo, dunque stupire della fiera ed accorata protesta formulata dal Servo di Dio in una lettera che comincia con le parole: “Quasi non bastasse” del 22 settembre al Cardinal Vicario, che commosse, con l’Italia il mondo intero?
Rievocato il sacrilego oltraggio, Pio X prosegue: “Per questo cumulo di empie affermazioni, quanto gratuite, altrettanto blasfeme, non possiamo non levare alta la voce di giusta indignazione e di protesta e richiamare in pari tempo, per mezzo di Lei, Signor Cardinale, la considerazione dei nostri figli di Roma, sulle offese continue ed ognor maggiori alla religione cattolica, anche per parte di pubbliche autorità, nella sede stessa del Romano Pontefice”. Invita quindi i fedeli “ad innalzare con fervore le loro preghiere all’Altissimo, affinché sorga a difesa della sua Sposa divina, la Chiesa…”. Infine fa voti che “per l’onore stesso della Città Eterna”, non abbiano più a rinnovarsi questi intollerabili assalti, pieni di violenza e di baldanza.»

In quella occasione, egli poté spingersi a offendere pesantemente Pio X appoggiandosi sulla Massoneria e sulle tendenze anticlericali ancora molto forti negli ambienti della Corona e dell’amministrazione statale, nel contesto più ampio del gelo che era sceso nei rapporti fra lo Stato italiano e la Santa Sede fin dal 1870 e dalla presa di Roma.
Ma oggi, quale forma di pavidità è quella che spinge il portavoce vaticano a dissociarsi da frate Cantalamessa e, quasi quasi, ad accogliere l’incredibile invito di Simon Wiestenthal affinché il papa Benedetto XVI si scusi per l’omelia del Venerdì Santo?
E quale forma di pavidità è quella che induce al silenzio non solo gli intellettuali dell’area cattolica, ma tutti quelli che possiedono ancora il senso delle proporzioni e che si rendono conto della palese strumentalità degli attacchi lanciati dai rabbini e dalle organizzazioni ebraiche mondiali, servendosi della stampa e delle televisioni da essi controllate?
C’è qualcuno che si immagina che cosa sarebbe successo se le parti si fossero rovesciate e se fosse stato un esponente della Chiesa cattolica (uno solo, non tutta una batteria) a interloquire nei contenuti di una funzione religiosa ebraica e a polemizzare duramente con il rabbino di una qualche importante comunità giudaica, in merito a delle parole pronunciate nel corso della più solenne liturgia di tutto il calendario sacro di quella religione?
Siamo onesti; riconosciamolo: sarebbe scoppiato il finimondo.
Perché, dunque, tanta prevaricazione viene sempre supinamente tollerata da tutti, allorché proviene dagli esponenti di quella tale parte; mentre le più fiere reazioni si scatenerebbero, ad ogni livello, se fosse un esponente della Chiesa cattolica a permettersi la centesima parte di essa?