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Un'altra Europa

di Fabio Falchi - 20/05/2010

 

Soggiogata dal dominio culturale capitalista, l'Europa deve ritrovare il "Politico" se vuole una vera prosperità.


Ha scritto recentemente Massimo Fini che la crisi finanziaria della Grecia ci dovrebbe far riflettere sul fatto che il modello sociale occidentale, pur avendo sacrificato ogni valore e ogni esigenza umana all'Economico, non può non fallire proprio sul terreno economico, dato che l'aberrante sviluppo del capitalismo finanziario è non solo una delle condizioni necessarie ma anche la logica conseguenza del capitalismo industriale: «Prendersela col capitalismo finanziario, sottacendo di quello industriale, è come meravigliarsi che avendo inventato la pallottola si sia arrivati al missile» (M.Fini, “Atene, la Grecia e il denaro fantasma”, articolo disponibile sul sito Arianna Editrice). Si tratta di un giudizio che non può sorprendere se si conoscono le opere del grande  antropologo e storico dell'economia Karl Polanyi (un autore sovente citato dallo stesso Massimo Fini), a cui si deve la vigorosa dimostrazione della struttura paradossale e perfino contraddittoria della società di mercato. E' nota infatti la tesi fondamentale dell'illustre studioso ungherese, secondo cui l'Economico può scorporarsi dal tessuto sociale solo se si "finge" che la terra, il lavoro e la moneta siano merci, sebbene non siano, ovviamente, tali per il semplice fatto che non sono prodotti per la vendita: la terra non è che un nome per la natura; la moneta è un simbolo del potere d'acquisto che dovrebbe svilupparsi secondo il meccanismo della finanza di Stato; il lavoro è una attività dell'uomo, che non può distaccarsi dal resto della vita, la quale, in ogni caso, non è certamente un prodotto da consumare. Ciononstante, questi devono essere considerati merci, venduti e comprati, altrimenti sarebbe impossibile l'autoregolazione del sistema economico. Perciò, Karl Polanyi (che si avvale, tra l'altro, della collaborazione di famosi specialisti di storia antica per dimostrare il carattere eccezionale del capitalismo nella storia plurimillenaria dell'umanità) critica il capitalismo non tanto sotto il profilo etico od economico (come invece pensano alcuni economisti di formazione marxista, più interessati agli aspetti strettamente economici del capitalismo), quanto piuttosto sotto il profilo antropologico e "ontologico", poiché il difetto principale del capitalismo consiste nel "fondarsi" su un'ontologia sociale radicalmente falsa, anche se "produttiva". Sicché, trattando il lavoro solo come se fosse una merce, poiché l'uomo "sente, immagina, vuole e pensa", questo "essere differente” non viene cancellato e, prima o poi, non può non manifestarsi, causando una crisi, più o meno grave a seconda della situazione storica, dell'apparato tecnico-produttivo e dell'intera società (e analogo discorso naturalmente  si può fare, mutatis mutandis, per la moneta e per la terra). Il paradosso di una "finzione produttiva" (niente affatto incomprensibile dal punto di vista epistemologico, dato che ormai è convinzione diffusa che sia la "scala" che, in un certo senso, genera il fenomeno e che la “tecnoscienza” sia in grado di "pro-durre" e controllare determinati insiemi di oggetti, grazie ai linguaggi artificiali) non potrebbe tuttavia "funzionare", se non vi fosse una "copertura culturale": «Privati della copertura protettiva delle istituzioni culturali, gli esseri umani perirebbero per gli effetti stessi della società, morirebbero come vittime di una grave disorganizzazione sociale, per vizi, perversioni, crimini [...] La natura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l'ambiente e il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la sicurezza militare messa a repentaglio [...] Infine, l'amministrazione da parte del mercato del potere d'acquisto [cioè della moneta] liquiderebbe periodicamente le imprese commerciali poiché le carenze e gli eccessi di moneta si dimostrerebbero disastrosi [...] per il commercio» (K.Polanyi, “Il mercato autoregolato”, in "Economie primitive, arcaiche e moderne", Einaudi, Torino, 1980, p. 33).


Quindi, pare evidente che solo il Politico, anche nell'attuale società di mercato, in quanto articola una molteplicità di istituzioni culturali, può impedire la dissoluzione della struttura sociale. Si tratta però di un rimedio che agisce più sugli effetti che sulle cause della crisi, come dimostra il fallimento (a medio termine) delle politiche socialdemocratiche. Il "welfare" (che non a caso non è mai stato attuato negli Usa, se non in misura assai limitata) ha certo arginato "la marea capitalistica" ma quest'ultima, come si è assisitito negli ultimi decenni, non appena si è dissolta l'Urss, ossia il "pericolo" comunista, ha potuto avanzare nuovamente incontrastata, spazzando via in un arco di tempo assai breve gran parte dello Stato sociale. E oggi il ritorno a politiche socialdemocratiche è considerato anacronistico, dato che non è più possibile  utilizzare il  mercato (quasi fosse un "docile strumento" a disposizione della politica e dei burocrati!) per realizzare obietttivi di equità sociale. Del resto, è proprio il Politico che, almeno in Europa, si mostra drammaticamente carente, vuoi per lacune di carattere strutturale (ché i partiti sono diventati perlopiù comitati di affari e di fatto sono il maggiore ostacolo ad una reale partecipazione, libera e responsabile, dei "governati" alla vita politica e sociale del proprio Paese; inoltre,la corruzione e il malaffare sono così estesi e radicati in ogni settore della sfera pubblica da minare le stesse fondamenta del sistema  sociale, proprio come Karl Polanyi aveva lucidamente previsto); vuoi per il ruolo sempre più decisivo dell'ideologia capitalistica, di stampo angloamericano (cioè l'american way of living), nell'orientare le scelte delle masse. Tanto è vero che si è giunti persino a ritenere -  anche per la subalternità alle logiche di potere d'Oltreoceano della stragrande maggioranza dell'intellighenzia, vieppiù mercenaria e disposta alle peggiori e più basse forme di compromesso, e delle classi dirigenti europee -  la società di mercato come una sorta di fatalità social-teconologica.


Cionondimeno, la fine dell'unipolarismo atlantista lascia intravedere nuovi spiragli e nuove opportunità, anche se si è ben lungi dal vedere la fine della "civiltà del mercante". Paesi come la Russia e l'Iran, in particolare, non sono solo potenze che contrastano l'egemonia della talassocrazia angloamericana sul piano economico o politico, ma soprattutto - pur non sottraendosi alle sfide della cosiddetta "modernizzazione" - sembrano difendere anche una "diversa" identità culturale, una visione del mondo che non è facilmente conciliabile con l'ideologia economicistica dell'Occidente. E sembra essere anche della massima importanza il fatto che il multipolarismo attuale sia assai differente da quello che contrassegnò, tragicamente, la storia dell'Europa nella prima metà del secolo scorso, non fosse altro perché si è in presenza di "modelli culturali" non esportabili, cioè non "imperialistici", sebbene possano e debbano essere compresi tramite un processo di arricchimento e riconoscimento reciproci. Solo gli europei disinformati o in malafede possono credere che la Russia o l'Iran siano una minaccia per l'Europa (in realtà, sarebbero i migliori alleati di quella Europa che non ha alcuna intenzione di svellere le proprie autentiche radici spirituali per convertirsi all'idolatria del mercato), mentre è anche per questa “differenza culturale” che i circoli atlantisti e filosionisti europei non possono non demonizzare e criminalizzare la Russia di Putin o l'Iran di Ahmadinejad, ricorrendo ad ogni tipo di disinformazione e di "manipolazione mediatica".


D'altra parte, si deve tener conto che l'Europa difficilmente può sfruttare gli "spazi" che la nuova fase multipolare può offrire per "smarcarsi” dagli Usa. Si è visto infatti che Karl Polanyi mette bene in luce come siano indispensabili le istituzioni culturali per evitare che la società di mercato collassi. Solo che se ciò oggi non avviene, pare dipendere essenzialmente (anche se non soltanto) da fattori ideologici, che ostacolano ogni tentativo di superamento della barbarie capitalistica e addirittura un corretto e libero confronto intellettuale. Se da un lato, il venir progressivamente meno di ogni istituzione culturale necessaria per la regolazione dei mercati (sì che sono i mercati stessi a stabilire quali devono essere gli scopi sociali da perseguire e la cultura da promuovere o da "bocciare") genera squilbri economici gravissimi e distrugge ogni forma di etica pubblica, accelerando enormemente fenomeni di disgregazione sociale (tanto che le società occidentali appaiano  sempre più come macchine criminogene), dall'altro l'ideologia capitalistica "made in Usa" agisce come un collante sociale (sia pure paradossale), dato che impedisce alle masse di prendere coscienza delle cause della dissoluzione del legame sociale e della crisi economica, di cui sono le prime vittime. D'altronde, è innegabile che l'odierna società capitalistica occidentale  si caratterizzi, in primo luogo, come una società della "comunicazione di massa"  e che di conseguenza la "battaglia" politica e culturale, in Occidente, si svolga soprattutto sul "terreno" della informazione e della comunicazione (ciò che spiega per quale motivo la totalità dei cosiddetti "media mainstream" siano di proprietà o comunque siano controllati dai potentati economici).


Certo, nessuno potrebbe seriamente sostenere che conoscere la "finzione" su cui si basa la società di mercato o sapere che per millenni gli uomini sono riusciti a vivere senza questa "finzione" (e si badi che le comunità antiche, ovverosia nell'età precapitalistica, non erano affatto immobili, come affermano invece i liberisti, bensì stabili, vale a dire che erano comunità, come ammette lo stesso Polanyi, nelle quali il mutamento si manifestava sopratutto nell'ambito della religione, in quello della politica, nonché nella espressione artistica e nel pensiero) equivale a conoscere come sia possibile superare definitivamente la società capitalistica. Tuttavia, una critica del capitalismo su basi antropologiche ed incentrata su una "diversa" ontologia sociale, come quella difesa da Karl Polanyi, dovrebbe essere, perlomeno per gli europei continentali, la necessaria premessa per una ridefinizone dell'Economico e del Politico (il cui ruolo è, comunque la si pensi, essenziale per qualunque sistema sociale, perché - anche se le "idee" sono fondamentali per il "con-senso" e possono dare origine ai conflitti sociali - solo il Politico ha la possibilità di trasformarle in "azione" e di favorire o di impedire un mutamento sociale in senso non capitalistico), secondo la propria identità culturale, che, sebbene sia tutt'altro che un monolito, affonda pur sempre le proprie radici in ciò che "c'era una volta" in Europa. In un "passato" che, se non può ovviamente ripetersi in quanto tale, è pur sempre "attuale" sotto il profilo del "senso e del valore", per ciò che concerne le aspirazioni e i problemi  che guidano ed orientano il pensiero e l'agire degli uomini; e che, a ben guardare, non è mai scomparso, se la storia del Novecento è da mettere in relazione con quel che Nietzsche chiama il "contraccolpo dell'Europa". Un contraccolpo che -  dopo il tramonto delle ideologie anticapitaliste di "destra" e di "sinistra", e in una nuova fase geopolitica - potrebbe forse esprimersi in forma più matura e complessa, lasciandosi dietro obsolete contrapposizioni, per fare posto alla consapevolezza che l'unico vero oppio dei popoli non è certo la religione, ma l'ideologia dell'homo oeconomicus, alimentata dal "mostruoso" potere del denaro che muta i popoli in una massa informe di consumatori e di sudditi.