Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Hai 1 prodotto nel carrello Carrello
Home / Articoli / Desertificazione: anche l’Italia ne è colpita. La tradizione ci può aiutare

Desertificazione: anche l’Italia ne è colpita. La tradizione ci può aiutare

di Simonetta Lombardo - 18/06/2010

 

 

 

LA SITUAZIONE. La desertificazione è un fenomeno che colpisce anche il Belpaese: un terzo del nostro territorio è a rischio. Dieci milioni di ettari di suoli sono in via di progressivo e veloce inaridimento.

Un terzo del nostro paese è a rischio desertificazione: 10 milioni di ettari di suoli in via di progressivo e veloce inaridimento. Clima che cambia, cementificazione e agricoltura industriale stanno esasperando la caratteristica principale della penisola, quella di essere un vero e proprio ponte tra la sponda africana e quella europea del Mediterraneo. Terra di confine climatico, insomma, tradizionalmente sottoposta a ondate di caldo e siccità, ma oggi soprattutto assediata da usi esasperati del territorio e da condizioni meteorologiche sempre più estreme. Questo il ritratto in rapido cambiamento della questione desertificazione, una delle meno dibattute tra i temi di allarme ambientale.
 
Secondo le ultime ricerche, la graduatoria di vulnerabilità del nostro territorio all’inaridimento dei suoli vede in prima e poco felice posizione la Sicilia, con il 50 per cento del territorio a rischio. All’altro estremo della scala, il Trentino Alto Adige, con porzioni minime di suoli degradati. Sono nella parte alta della classifica della desertificazione italiana per ampiezza di aree coinvolte anche il Molise, la Puglia, la Basilicata e la Sardegna, mentre vanno sotto la denominazione di “media vulnerabilità” territori ben più settentrionali, come la Maremma tosco-laziale e la parte orientale della Pianura padana.
 
In tutta la penisola, secondo gli studi nazionali, il fenomeno è in continuo peggioramento. Il picco si registra nelle aree costiere, a causa della “diminuzione delle precipitazioni e dell’aumento generalizzato delle temperature, responsabile dell’espansione delle aree aride e semi-aride”, ma anche grazie “all’aumento della pressione antropica, nonché al landscape change (inteso soprattutto come sigillamento dei suoli) accompagnato da processi di intensificazione agricola e salinizzazione”, come si legge nel documento “La desertificazione in Italia. Processi, indicatori e vulnerabilità del territorio”, elaborato per il Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla desertificazione.
 
Questo non significa che il nostro paese si stia muovendo per far fronte al fenomeno di degrado generalizzato. A oggi Sardegna, Sicilia, Calabria e Puglia si sono attrezzati con progetti pilota per il contenimento e la lotta alla desertificazione, mentre esistono solo due i piani di azione locale elaborati su scala regionale, quelli di Emilia Romagna e Puglia. L’Abruzzo, la Sardegna, la Calabria e la Basilicata hanno invece avviato degli studi di area.
 
Qualcuna, tra le Regioni più colpite, ha anche avviato dei progetti di collaborazione e gemellaggio con regioni del continente africano, affrontando tra l’altro il primo e più evidente dei risultati dell’avanzare della infertilità dei suoli, ossia l’abbandono di grandi aree tradizionalmente coltivate, con conseguenti spostamenti di enormi masse di migranti verso le aree urbane e verso i paesi del nord del mondo. Un esodo di massa è in corso, mentre alle nostre latitudini avviene spesso un rovesciamento del rapporto causa ed effetto ed è l’abbandono dei suoli agricolo marginali a produrre un più alto rischio di desertificazione.

In Italia ci sono migliaia di tecniche, conoscenze, accorgimenti che possono esser utilizzati per far fronte al fenomeno: basta avere il coraggio di non essere schiavi dell’illusione tecnologica. «In Toscana sono arrivate le locuste. So che può suonare strano, ma anche questo è un segnale della desertificazione in atto nel nostro paese e del suo progressivo aumentare». Pietro Laureano è abituato a lavorare nel Sahara, da dove è appena tornato dopo la preparazione di un progetto da 5 milioni di euro per il recupero delle foggara, le antiche gallerie drenanti delle oasi nella regione algerina dell’Adrar. L’Istituto per le tecniche tradizionali, di cui è presidente, è nato qualche settimana fa sotto l’egida dell’Unesco: obiettivo, quello di salvare e utilizzare milioni di conoscenze locali antiche per la protezione del suolo, dell’acqua, dell’energia. Un obiettivo ambizioso che, attingendo al passato, guarda molto avanti, superando il secolo della omologazione coatta.
 
«In Italia ci sono migliaia di tecniche, conoscenze, accorgimenti che possono esser utilizzati: basta avere il coraggio di non essere schiavi dell’illusione tecnologica a ogni costo. Penso ad esempio a tecniche come la semina sul sodo, che numerose aziende agricole hanno adottato in Basilicata. Le arature profonde dell’agricoltura industriale hanno una loro efficacia ma sono distruttive perché espongono i suoli all’erosione. Soprattutto con l’avanzare dei cambiamenti climatici, in molte aree diventa vantaggioso seminare senza l’aratura profonda: in questo modo si autoselezionano piante con radici più forti e più profonde, maggiormente capaci di resistere allo stress climatico. E i rendimenti sui cereali, proprio in queste condizioni di siccità che stanno diventando la norma nel nostro Sud, sono spesso superiori a quelli delle semine industriali».
 
Così, prosegue Laureano, «l’agricoltura meridionale potrebbe trarre incredibili vantaggi dalla tecnica delle ‘tasche’ di pietra per gli olivi: una trincea riempita di pietre che in qualche modo circonda la pianta e permette l’assorbimento e il mantenimento dell’umidità necessaria perché l’ulivo cresca». «In Italia due sono le aree di maggiore desertificazione fuori dalle città: i pendii in cui la terra viene dilavata per ruscellamento e le pianure costiere sottoposte alla salinizzazione con l’abbassarsi della falda. Nell’agricoltura delle zone collinose è sempre più necessario reinstaurare particelle più piccole, alberature e siepi, cisterne per l’acqua al posto dei grandi sbarramenti».
 
Ma c’è una sensibilità della pubblica amministrazione a queste necessità? «La sensibilità è soprattutto delle amministrazioni locali. Temo che a livello nazionale non si sia nemmeno colto il fatto che la situazione sta precipitando, in primo luogo a livello climatico. Questi fenomeni non hanno un andamento lineare. Ci si crogiola sul picco favorevole, senza capire che anche quello è parte della sindrome critica».