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La chiacchiera ci difende dall’angoscia della morte o è, essa stessa, una morte dell’anima?

di Francesco Lamendola - 22/06/2010




Molte persone passano gran parte della loro vita sociale a parlare di cose insignificanti o, peggio, a sentenziare intorno a cose estremamente serie, ma senza alcuna serietà: così, solo per sentire il proprio della propria voce e per essere confortate dal consenso, almeno apparente, altrui; non che esse lo domandino; esso è dato per acquisito già per il solo fatto di condividere la stessa pigrizia intellettuale, la stessa noia esistenziale che spinge il chiacchierone a cercare la compagnia di individui altrettanto superficiali di lui.
E, quando una cosa è detta, o approvata, da molti, incomincia ad acquistare un caratteristico sentore di verità; un po’ come accade con i mass-medi: una cosa detta in televisione,per quanto destituita di ogni fondamento e perfino di ogni senso logico, è pur sempre una cosa AUTOREVOLE: per lo meno agli occhi dell’uomo-massa, del telespettatore abulico e passivo, che a malapena distingue la pubblicità dal programma vero e proprio (on che la cosa sia proprio facilissima: quanta pubblicità camuffata ci viene ammannita nel corso del telegiornale, tanto per fare un esempio tra i più comuni…).
Non è cosa difficile rendersi conto che, dove più i rapporti sociali si fanno in autentici, lì la chiacchiera imperversa; e che tanto più volentieri si parla di tutto un po’, quanto più si fa in modo di eludere l’essenziale…
Ora, per l’uomo moderno e post-moderno, è fuori di dubbio che l’essenziale sia la mortalità: la condizione umana votata alla morte. La cultura materialista e meccanicista nata con la Rivoluzione industriale del XVIII secolo e rafforzatasi, poi, con la Rivoluzione industriale, ha eretto alla dignità di dogma la convinzione che dal nulla veniamo, del resto per puro caso, e che al nulla ritorniamo, altrettanto  a caso. Difficile, quindi, se non impossibile, avere di fronte alla consapevolezza della propria mortalità quell’atteggiamento di serena accettazione che avevano le società pre-moderne, fondate sulla convinzione che veniamo dall’Essere ed all’Essere ritorniamo, dopo una vita terrena in cui siamo stati chiamati per uno scopo preciso.
Di fronte alla morte, l’uomo moderno è pieno di angoscia, di rimpianti, di incertezze: non l’accetta veramente, perché gli sembra una tragica beffa, una autentica ironia: dover morire, proprio ora che la scienza e la tecnica gli hanno permesso di volare così in alto, di concepire sogni così grandi e di incominciare a pensare che potrà realizzarli. E sconfiggere la morte è sicuramente, da sempre (si pensi all’epopea di Gilgamesh) il più audace sogno dell’uomo. Questo, almeno, è ciò che l’uomo moderno crede, ciò che egli vorrebbe fermamente credere…
Lucrezio, nel proemio del II libro del «De rerum natura», denuncia la vanità delle chiacchiere umane, là dove esse pretendono di poter fare a meno della filosofia, davanti al timore delle malattie, del disonore e della morte e irride a quegli stressi chiacchieroni che poi, messi alla priva dalla vita stessa, mostrano di che misera stoffa siano fatti (41-47 e 55-58).

«Nam quod saepe nomine morbos magis esse timendos
infamemque ferunt vitam quam Tartara leti,
et se scire animi naturam sanguinis esse,
aut etiam venti, si fert ita forte voluntas,
nec prosum quicquam nostrae rationis egere,
hinc licet advertas animum magis omnia laudis
iactari causa, quam quod res ipsa probetur. […]
Quo magis in dubiis hominem spectare periclis
convenit, adversisque in rebus noscere qui sit;
nam verae voces tum demum pectore ab imo
eliciuntur, <et> eripitur persona, manet res.»

Traduzione di Balilla Pinchetti (Lucrezio, «La natura», Milano, Rizzoli, 1953, 1983):ù

«Perché, se gli uomini affermano spesso che le malattie
E il disonore si debbono temere più che la morte,
e che l’essenza dell’animo è, lo si sa, quella stessa
del sangue, od anche dell’aria, secondo come ci aggrada,
e non v’è quindi bisogno di questa nostra dottrina,
potrai capire, da quanto segue, che queste son tutte
millanterie: nell’effetto la realtà le smentisce. […]
                                                              Conviene
dunque che l’uomo si studi quando pericola, incerto,
e lo si giudichi nelle avversità, perché allora
la vera voce una buona volta prorompe dal fondo
del cuore, cade la maschera, e il volto resta qual è.»

A proposito di questo passo del grande poeta latino, Guido Milanese osserva (in: «Lucrezio, antologia», Torino, Paravia, 1996, pp. 161-62):

«Il testo di Lucrezio insiste sul fatto che il cianciare a vuoto della gente non regge al contatto con la realtà: si mete alla prova l’uomo “in dubiis periclis” e “adversis in rebus”, lì si rivelerà “qui sit”. La tematica della “chiacchiera”, del discorso che non dice le cose ma che in fin dei conti si risolve in parole prive di referenzialità, è importante ne pensiero di Martin Heidegger, la cui opera “Essere e tempo” dedica una importante analisi alla chiacchiera, uno degli atteggiamenti che caratterizzano l’”esistenza in autentica”.
“Più che di comprendere l’ente di cui si discorre [scrive Heidegger in «Essere e tempo»], ci si preoccupa di ascoltare ciò che il discorso dice come tale. L’oggetto della comprensione diviene il discorso, il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e superficialmente. Si intendono le MEDESIME COSE, perché ciò che è detto è compreso da tutti nella MEDESIMA medietà.”
Il quadro delineato da Lucrezio pone in luce il valore di “rassicurazione reciproca” di quei vuoti discorsi sull’anima e sulla morte: la gente chiacchiera su queste cose terribili , e dichiara di non avere bisogno di filosofia – un auto-riconoscimento di una condizione di “sanità” che non ha bisogno di cure. L’interessante è appunto il valore illusoriamente auto-fondante del linguaggio adoperato in questa maniera: un’esistenza radicalmente falsa, che si costruisce un proprio mondo, fasullo ma rassicurante, fino allo scontro con la realtà (“eripitur persona”…). Leggiamo ancora Heidegger:
“La comunicazione non ‘partecipa’ il rapporto originario dell’essere dell’ente di cui si discorre; l’essere-assieme si realizza nel discorrere-assieme e nel prendersi cura di ciò che il discorso dice. Ciò che conta è che si discorra. L’esser-stato-detto, l’enunciato, la parola, si fanno garanti dell’esattezza e della conformità alle cose del discorso e della sua comprensione. E poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso partecipa non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la DIFFUSIONE e la RIPETIZIONE del discorso. Ciò-che-è-stato-detto si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché così si dice. La chiacchiera si costituisce in questa diffusione e in questa ripetizione del discorso nelle quali la certezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza.”
Chiacchierare per non “dire” la realtà –cioè, in fin dei conti, per “censurare” la morte. In Lucrezio come in Heidegger, anche se, ovviamente, in modi diversissimi, lo scontro con la ineludibilità della morte è infatti la via per vivere l’esistenza. Il problema della morte, dunque: accolta come costitutiva della vita, nella filosofia del maestro del nostro secolo, espulsa come non pertinente alla vita, nella filosofia di Epicuro e Lucrezio; soluzioni opposte, che rivelano “mondi” mentali remoti e incomunicanti, uniti, però, da una fondamentale necessità: affrontare il problema della morte  è condizione necessaria per vivere veramente una vita autentica. Heidegger scriveva nella Germania degli anni ‘20; oggi si può osservare che l’ideologia televisiva censura la morte  e la malattia, cioè le condizioni in cui “eripitur persona, manet res”: il tema della morte presenta la capacità di rivelare l’inanità di operazioni di falsificazione ideologica anche molto ben recepite dal corpo sociale.»

In altre parole, per Heidegger la gente non parla delle cose, ma parla delle proprie parole intorno alle cose. Le cose sono solamente un pretesto; le parole che ne parlano non sfiorano nemmeno la loro essenza, restano staccate da esse e chiuse nella loro autoreferenzialità. L’importate non è dire qualcosa che permetta di meglio comprendere la realtà, ma dire e basta, semplicemente: dire per sentirsi rassicurati dalla propria voce.
Per Heidegger, è proprio la consapevolezza della morte che, attraverso l’angoscia, spinge l’uomo ad una vita più autentica: non già, come in Kierkgaard e, in genere, nel cristianesimo, nella prospettiva di una vita oltre la morte, ma proprio nella prospettiva che la morte sia la fine di tutto. Da Platone (e da Dante) egli riprende l’idea che la vita del saggio sia un prepararsi a morire; ma ciò in un’ottica puramente laica e immanente, al di fuori di qualunque soluzione religiosa.
Ora, ciò che rende la vita autentica è, per Heidegger, la capacità di compiere delle scelte; mentre una vita fatta di non-scelte è una vita totalmente inautentica. Già Kierkegaard aveva affermato che è più autentica la vita di colui che crede fermamente e sinceramente in qualcosa di sbagliato, che non quella di colui che crede in qualcosa di giusto, ma in maniera conformistica e passiva. Heidegger fa notare che la parola “autentico” racchiude la radice  che significa se stesso: dunque una cosa è autentica quando è conforme a se stessa, quando realizza la propria natura: in breve: quando è originaria.
La vita della maggior parte delle persone, però, non è originaria, e ciò appare nella “quotidianità media”, nella vita di tutti i giorni: dominata, appunto, dalla chiacchiera. Per Heidegger, l’uomo è un essere-nel-mondo: il mondo (kantianamente; ma, si direbbe, anche seguendo le orme di Berkeley) non è anteriore all’uomo: ossia, per l’uomo esiste solo quel mondo nel quale egli è situato. Che poi esista un altro mondo, al di fuori di noi, questo per il filosofo tedesco ha poca importanza, perché non è nulla per noi né potremo mai conoscerlo, proprio come il “noumeno” di Kant. È per questo che Heidegger scrive “essere-nel-mondo” con i trattini: per evidenziare che il mondo di cui si parla non è il mondo in se stesso, il mondo “oggettivo”, ma il mondo nel quale noi ci troviamo, inseparabilmente uniti ad esso (ed esso a noi).
Diversamente da Fichte e da Hegel, però, Heidegger non pensa che sia la coscienza a produrre il mondo in sé; ma che il mondo sia l’insieme delle cose da noi utilizzabili. Da ciò scaturisce il concetto di “cura”: se il mondo è l’insieme delle cose che noi possiamo utilizzare, allora dobbiamo anche prendercene cura, vale a dire dobbiamo prestarvi attenzione e non limitarci a discorrere di esse, come avviene, appunto, nella categoria della chiacchiera.
Diversamente da Aristotele, che pone la facoltà conoscitiva alla base della natura umana, Heidegger ritiene che il conoscere sia uno dei modi in cui si possono utilizzare le cose, ma sempre nella prospettiva di una vita autentica. Se si scivola, invece, nella vita inautentica, allora si verifica il fenomeno della “deiezione”: ci si trasforma in cose, regredendo al livello di ciò che è chiuso in se stesso; mentre l’esser-ci dell’uomo (ossia il suo essere nel mondo) è sempre affacciato sul futuro. Pertanto, l’uomo che vive in maniera in autentica rinuncia alla propria progettualità e, come il Don Giovanni di Kierkegaard, rinuncia a pensare la propria vita come progetto aperto sul futuro, e si rinchiude in una sorta di morte precoce dell’anima.
Questa vita inautentica è caratterizzata dal “si” riflessivo, tipico di chi non vive la propria vita conforme a se stesso, ma conforme alle cose e alla chiacchiera: per esempio, “si dice” che le cose stiano in un certo modo; “si crede che”, “si pensa” che; e così via.
Lucrezio condivide con Heidegger l’idea che il discorrere superficialmente delle cose sia una forma di auto-rassicurazione nei confronti dell’idea della morte; un eludere, dunque, il nodo fondamentale della nostra vita. Ma, diversamente da Heidegger, l’epicureo Lucrezio mette l’evento della morte fra parentesi: fino a quando noi ci siamo, la morte non c’è; viceversa, quando c’è la morte, non ci siamo più noi: essa, pertanto, è come se fosse nulla per quel che ci riguarda.
Come si vede, la “soluzione” degli epicurei al problema dell’angoscia di morte è puramente materialistica e meccanicistica: si riduce ad un fatto psicologico, che può e deve essere rimosso nella consapevolezza che, quando gli atomi di cui è costituita l’anima si dissolveranno con l’evento della morte, la nostra coscienza cesserà totalmente e definitivamente di esistere.
La “soluzione” di Heidegger, esistenzialista e personalista, è figlia del platonismo e anche, nonostante la sua dichiarata irreligiosità, del cristianesimo: il senso che noi possiamo dare alla nostra vita, e quindi anche il suo grado di autenticità, è direttamente proporzionale alla nostra capacità di assumere pienamente e lucidamente la nostra condizione di esseri mortali.
Entrambi i pensatori, tuttavia - Heidegger e Lucrezio -, ci ricordano che vi sono due modi di morire: il morire risolutivo della morte ed il morire lento, sordo, grigio, della chiacchiera insulsa e della vita inautentica, cioè non originaria, non conforme a se stessa.
Ma come deve essere la vita umana, per essere originaria e conforme a se stessa?
Per essere originaria, a nostro avviso, la vita umana deve conformarsi alla propria natura: vale a dire che deve mirare a realizzare il progetto per il quale essa è stata tratta all’esistenza dall’Essere, è stata chiamata, è stata invitata e le sono stati dati gli strumenti per mezzo dei quali essa può divenire conforme a se stessa, cioè autentica.
Nella prospettiva materialista e riduzionista della società contemporanea, una persona si realizza quando segue il proprio estro e percorre la propria strada, senza lasciarsi condizionare minimamente dai fattori esterni. In una prospettiva spiritualista ed olistica, invece - quale è quella cui noi ci riferiamo - riesce a realizzare il senso della propria vita colui che mette in armonia le esigenze della auto-realizzazione con quelle del mondo in cui è situato, prendendosi cura degli enti ed aprendosi, con stupore e gratitudine infiniti, alla bellezza del disegno cosmico cui è stato chiamato a partecipare.
In questa “serietà” della vita non c’è posto per la chiacchiera, evidentemente.
Ogni parola è una parola sacra, parte del poema cosmico della vita universale, e va pronunciata con rispetto, devozione e amore.
Altrimenti, è meglio il silenzio: ma il silenzio dell’ascolto, della lode e del ringraziamento; non certo il silenzio dell’indifferenza, della noia o della cupa rassegnazione.