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Torture e massacri silenziosi

di Carlo Musilli - 26/10/2010



Incidenti causati dalla polizia locale, stragi ai posti di blocco americani, torture disumane nelle carceri. Più di 109 mila morti, di cui oltre 66 mila civili. Uno scempio consumato fra il 2004 e il 2009. Fino a venerdì scorso, il mondo non ne sapeva nulla. A tre mesi dalla pubblicazione dei file segreti sull’Afghanistan, torna a farsi sentire la voce di Wikileaks. Il sito internet creato dall’australiano Julian Assange stavolta punta il dito contro l’altra guerra degli Stati Uniti, quella in Iraq.

Nei 400 mila nuovi documenti sottratti al segreto militare si ricostruiscono operazioni sconosciute e incidenti insabbiati, con tanto di date e coordinate geografiche. Soprattutto, si dà l’elenco completo delle vittime. Nomi e cognomi dei morti, anche di quelli buttati nelle fosse comuni. Gli Stati Uniti avevano sempre negato di tenere un registro dei civili uccisi. Mentivano, ora quel registro è su internet.

Il nuovo materiale pubblicato è frutto del lavoro coordinato di Wikileaks, New York Times, Washington Post e associazioni di attivisti come “Iraq Body Count”. Alcune rivelazioni del dossier sono state anticipate dalla tv araba al-Jazeera, che ha costretto Assange ad organizzare di corsa una conferenza stampa a Londra. “Vogliamo correggere la verità - ha detto il fondatore di Wikileaks - questi documenti rivelano sei anni di guerra in Iraq con dettagli dal terreno. Le truppe sul territorio, ciò che vedevano, facevano e dicevano”. Parliamo di “un numero di vittime cinque volte superiore all’Afghanistan”.

Fra le atrocità rivelate, le più impressionanti sono quelle sulle torture inflitte ai prigionieri. Uomini frustati, appesi a ganci, fulminati da scariche elettriche, violentati sessualmente. Gli abusi sono confermati dai referti sanitari. Almeno sei persone sono morte in questo modo per mano dei soldati iracheni. Sevizie che continuarono indisturbate anche dopo lo scandalo di Abu Ghraib, nel 2004.

Migliaia poi le vittime di esecuzioni sommarie. Gli Stati Uniti sapevano, ma hanno scelto il silenzio. Anche quando hanno appreso che i poliziotti loro alleati avevano amputato tutte le dita a un prigioniero, per poi scioglierle nell’acido davanti ai suoi occhi. Secondo il New York Times, su alcuni episodi gli americani hanno svolto delle indagini, ma la maggior parte delle segnalazioni è stata semplicemente ignorata.

Il dossier degli orrori rivela anche che i soldati americani erano soliti usare civili iracheni come “apripista”. Vale a dire, li mandavano avanti sulle strade e sui campi infestati dalle mine antiuomo. Tra i casi specifici, quello dell’elicottero Apache: lo stesso mezzo da guerra coinvolto nell’uccisione di due giornalisti della Reuters, documentata da Wikileaks in estate, avrebbe ucciso con raffiche di mitragliatrice due miliziani iracheni che si erano già arresi.

Il sito di Assange svela alcuni particolari perfino sulla morte di Nicola Calipari, l’agente italiano del Sismi ucciso nel 2005 da un soldato americano ad un checkpoint vicino Bagdad. In macchina con lui c’era Giuliana Sgrena, la giornalista del Manifesto sequestrata e da poco tornata in libertà. Nei file di Wikileaks è riportato l’interrogatorio cui i servizi segreti giordani hanno sottoposto Sheik Husain, ex leader della cellula di Al Qaeda a Bagdad. Husain avrebbe rivelato che per la liberazione di Sgrena sarebbe stato pagato un riscatto di 500 mila dollari.

Lui stesso, dopo aver incassato il denaro, avrebbe telefonato al ministero dell’Interno iracheno, dicendo che la macchina su cui la giornalista e Calipari viaggiavano verso l’aeroporto era imbottita d’esplosivo. Un motivo sufficiente a far premere il grilletto di un marine. Ma un particolare non torna ed è quello del colore della macchina: nei nuovi documenti si parla di una Chevrolet blu, ma Calipari è morto in una Toyota Corolla bianca.

Quali reazioni ha suscitato tutto questo? Le più prevedibili in assoluto. “Nessuna sorpresa - secondo il ministro dei Diritti Umani di Bagdad - avevamo già dato notizia di molte cose che sono accadute”. Anche il Pentagono sceglie il low profile, cercando di minimizzare: “Molti episodi - si legge in una nota - erano stati a suo tempo ampiamente riportati in servizi di cronaca”.

Il segretario di stato Hilary Clinton, invece, opta  per la seconda soluzione retorica normalmente usata contro il giornalismo di guerra, condannando “la divulgazione di documenti che mettono a rischio la vita di soldati e cittadini americani”. Forse non si sono accorti della contraddizione. Se non è uno scoop, perché dovrebbe mettere in pericolo qualcuno?