Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Realdo, una metafora della montagna

Realdo, una metafora della montagna

di Alessandro Pugno - 19/11/2010

 http://www.terraligure.it/blog/realdo_casa.jpg


L’esposizione che segue è frutto di un’osservazione diretta dei luoghi e della gente di Realdo avvenuta nel corso dell’estate 2007 durante le riprese del film “La culla delle aquile”, prodotto da Papaverofilms, di cui ho curato la regia. (Maggiori informazioni per chi volesse, sono disponibili all’indirizzo www.papaverofilms.com)

Ragioni di uno spopolamento

Realdo è una piccola frazione di Triora, in provincia di Imperia, dell’alta valle Argentina.

Nonostante la relativa vicinanza al comune capoluogo, le differenze antropologiche tra Triora e Realdo sono sensibili. L’origine di queste differenze è da ricercare nelle diverse radici storiche dei due paesi. Realdo è da sempre appartenuto ai Savoia (poi Piemonte), Triora alla Repubblica di Genova prima e alla Liguria poi. Infatti fino al 1945 Realdo era frazione di Briga Marittima e contava più di cinquecento abitanti. Negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale venne invasa dall’esercito francese nel tentativo di annettersi alcuni territori italiani di confine. Ma ci fu bisogno di aspettare la Conferenza di Pace di Parigi perché venisse ratificato il passaggio. Il danno più grosso non fu il cambiamento di Stato quanto lo smembramento al quale assistette il territorio del comune di Briga che si estendeva sulle tre valli che scendono il monte Saccarello: Briga passò alla Francia, le frazioni di Viozene, Upega e Carnino rimasero in Piemonte, mentre Realdo passò alla vicina Triora (Liguria). Tutto ciò venne effettuato a tavolino senza alcuna criterio di fondo. Fu l’inizio dello spopolamento, un grande colpo per l’economia locale.

Realdo paese di pastori perdeva i suoi pascoli d’alpeggio che si trovavano oramai oltre il confine ed il ciclo stagionale di transumanza che in Realdo aveva la tappa autunnale era bruscamente interrotto. Presto molti pastori scesero la valle andando a vivere sulla costa sanremese.

Un’insieme di politiche nazionali e locali sbagliate, che non si accorgevano del patrimonio montano e dell’importanza idrogeologica che queste zone hanno per le pianure, hanno accelerato il processo: nel 2007 oramai c’erano più solo due abitanti fissi tutto l’anno: Guido e Giuliana, una coppia di pensionati.

 

 

Guido e Giuliana

 

Le vite solitarie di chi vive in alta quota lontano quarantatré chilometri dal primo supermercato, hanno già di per sé qualcosa di intrinsecamente eroico. Guido faceva da operaio comunale aggiustando fontane, staccionate, stradine e tutto ciò che richiedesse manutenzione. Spalava anche la neve dato che il Comune di Triora non provvedeva mai a queste necessità.

Tutto ciò è fatica, spirito di sacrificio, ma soprattutto volontà. Nella vita di Guido non scorreva solo la linfa di una tradizione atavica e la determinazione inconscia a preservarla e tramandarla: c’era qualcosa che sapeva di ribellione e speranza.

Più di una persona, familiari compresi, hanno più volte tentato di convincere la reticente coppia a spostarsi “laggiù”, ovvero sulla costa, luogo che nel loro parlare, aveva assunto anche un significato simbolico: quello di “terra delle comodità”. Ma l’eden della comodità Guido e Giuliana l’han sempre rifiutato snobbandolo. Nella loro cultura semplice ma per niente elementare, come si potrebbe pensare, la parola comodità non significava nulla.

La TV (regalo delle figlie) era un vero e proprio soprammobile in casa loro, c’era un centrino di pizzo sopra che ricadeva sul lato dello schermo tanto da occultarlo, e sopra un vaso di fiori. La lavatrice, altro recente regalo delle figlie, Giuliana la usava solo per le lenzuola, per gli altri capi c’era il lavatoio, e non tanto perché c’era abituata, o per inutili manie anti-confort, ma perché si lavava meglio.

A loro insaputa Guido e Giuliana erano dei profondi ecologisti, ma non nel banale senso moderno, quanto perché avevano una consapevolezza più acuta delle azioni e dei loro effetti, e un rapporto diretto, rispettoso ed equilibrato con l’ambiente circostante. Guido infatti mi diceva sempre che lottava silenziosamente attraverso il proprio lavoro, non solo contro le istituzioni assenti, ma anche contro il bosco, contro una natura che non è “buona” come dicono, che dopo aver divorato nel tempo i campi di grano stava raggiungendo le case. Guido operava in una dimensione di “cura” costante e attraverso questa filosofia pratica, conservava intatto il paesino affinché non sembrasse vuoto. Nei suoi parchi movimenti si sprigionava la forza dell’uomo primordiale: Guido nel falciare l’erba era “il senso del tempo”, un tempo che non c’è nella nostra società, ma che è ugualmente in grado di affascinare la nostra generazione che quel mondo non l’ha conosciuto, forse perché l’essenza ancestrale dell’uomo si tramanda geneticamente e scorre inconsapevolmente nelle nostre vene.

Mi son sempre chiesto che senso avesse curare un paesino destinato presto, a causa dell’età dei suoi due abitanti, ad essere abbandonato a se stesso. E’ allora che mi è venuto alla mente un passaggio delle “Memorie di Adriano” . L’imperatore Adriano era perfettamente cosciente che la civiltà romana non sarebbe durata a lungo ma era giusto e doveroso che si sforzasse perché Roma vivesse il suo ultimo e più abbagliante splendore prima di morire e disgregarsi.

Guido forse non se ne accorgeva, ma nel suo fare, non operava solo la forza del passato, ma anche la visione del futuro: Guido lavorava per custodire una culla per il futuro dell’umanità.

In morte di Guido

Realdo vive una certa forma di ripopolamento temporaneo quando i discendenti degli antichi abitanti del paese vengono a passar l’estate. Sono il cosiddetto popolo villeggiante delle seconde case. Un po’ come noi abitanti delle pianure che da piccoli passavamo l’estate al mare sempre nella stessa spiaggia, così i liguri, stufi del mare la passano in montagna.

Quando arrivano sembrano l’armata Brancaleone alle crociate: un’invasione roboante di macchine, elettrodomestici e provviste. Guido e Giuliana, si chiudono in casa e mettono il cane al guinzaglio per l’unica volta in un anno. I turisti dell’estate sono uomini snaturati nel pensiero e nell’azione rispetto ai loro avi e non lasciano il segno al loro passare: quando se ne vanno lo fanno altrettanto velocemente di quando sono arrivati. Loro si credono un popolo eletto dicendo di discendere da un popolo alpino di tradizioni e sangue occitano, credono di parlare non un semplice dialetto, ma una vera e propria lingua detta “brigasca”, hanno creato una rivista ed un’associazione per difendere le loro peculiarità antropologiche. Ciò di cui difettano, in quanto moderni, è proprio la visione del futuro. Al contrario di Guido che viveva nel solco di una tradizione rinnovata in ogni suo gesto e protesa al futuro, loro si aggrappano al passato, alla memoria, alla cultura del museo e della reliquia, e sanciscono definitivamente la morte di Realdo.

Guido è morto a giugno di quest’anno, un giovane villeggiante qualche mese dopo mi ha detto: “E’ un vero peccato sia morto, adesso che manca il custode, verranno gli extracomunitari a prenderci le case”.

Prospettive

Realdo è un esempio come tanti della situazione attuale delle nostre montagne, e credo che anche da altre parti ci siano ribelli come Guido.

Bisogna però essere consci del fatto che “quel” mondo sta morendo e quando non ci saranno più gli anziani sarà definitivamente scomparso. E’ importante che noi giovani viviamo con il ricordo vivo e presente di quel mondo (per chi come me ha avuto la fortuna di conoscerlo anche per poco tempo), ma non dobbiamo illuderci di poterlo riesumare: quel mondo se ne andrà con loro ed il tempo non tornerà indietro.

Noi potremo riabitare quei posti, riabitare la Terra in senso genuino, ma lo potremo fare solo in maniera diversa da come era per i nostri avi, e questo perché l’umanità ha reciso i legami della tradizione.

Per uscire dal nichilismo presente dobbiamo fare lo sforzo di riscoprire quell’atavico senso della terra che scorre dentro di noi, dobbiamo farlo affiorare in superficie e iniziare a viverlo. Dobbiamo riscoprire nel mondo tecnolocizzato e virtuale che stiamo vivendo cos’è veramente reale. Solo da una ridefinizione in chiave post-nichilista della realtà, una ridefinizione che usi inevitabilmente il linguaggio del nostro tempo, potremo ancora scorgere la meraviglia che abita il mondo e ritornare protagonisti di un destino umano che ci sembra ad un vicolo cieco. Le montagne allora saranno davvero isole di speranza, rifugi per ribelli e culle per il futuro dell’umanità.