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La felicità oltre il Pil

di Vittorio Prodi* - 19/11/2010




Caro Direttore,
ho letto con piacere l’articolo pubblicato su La Stampa Web, sezione Esteri, del 15 novembre 2010 dal titolo «L’indice per misurare la felicità» ( http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/375550/ ). Ritengo mio dovere intervenire per informare che anche il Parlamento europeo ha, dal 2007, iniziato un dibattito definito «Oltre il Pil», perché, come già Bob Kennedy faceva presente, il Pil dà conto della produzione materiale, ma non di quello che in sostanza «ci dà l’orgoglio di essere americani», ed aggiungerei, europei. Ora ci si sta rendendo conto che questo indicatore, che si presume debba sempre crescere, è in contrasto con due evidenze: il limite nella disponibilità delle risorse naturali e il limite nella capacità della Terra di accogliere i nostri scarti.

La commissione Stiglitz, costituita dal presidente Sarkozy, ha proposto e definito alcuni nuovi indicatori che comprendono anche la modalità di rilevazione statistica.

Su questa base dobbiamo ora, facendo tesoro anche delle esortazioni di Papa Benedetto XVI nella «Caritas in Veritate» e ai fedeli di Piazza S. Pietro, tradurre queste esigenze in alta politica, cioè in dispositivi per la convivenza che non possono non avere una rilevanza globale. Il limite delle risorse ci rende interdipendenti e dobbiamo quindi cercare assieme una modalità consensuale di gestire questo limite, diversamente si verificheranno situazioni di scarsità che, la storia insegna, conducono sempre a conflitti.

L’alternativa viene indicata nel seguire «diversi stili di vita», definizione evidentemente ancora troppo vaga perché credo che l’esigenza sia prima di tutto culturale, di rendere desiderabili beni legati alla qualità della vita (informazione, istruzione, consapevolezza, inclusione nelle decisioni, solidarietà e relazioni interpersonali, salute, qualità e accesso ai servizi sanitari, aspettativa di vita, passaggio dal concetto di rifiuto a quello di risorsa), che complessivamente ci mettano in grado di valutare il bene comune che viene prodotto sia a livello globale che locale. Questi beni vengono definiti «immateriali» perché implicano un impiego minimo, rispetto agli attuali consumi, di energia e materia. Questo cambiamento rappresenterebbe prima di tutto un salto in avanti dell’intera civiltà, che a sua volta diminuirebbe la pressione sul consumo di risorse naturali e quindi renderebbe possibile il passaggio da un concetto di benessere puramente materiale ad un sistema di sviluppo davvero sostenibile, in grado di assicurare un accesso equo alle risorse naturali per la presente e le future generazioni.

*(Parlamentare europeo del Pd)