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Qualunquemente, molto più di un film

di Annalisa Terranova - 20/01/2011



Nel 1991 quel film di Daniele Luchetti, Il portaborse, interpretato da Nanni Moretti nei panni dell'onorevole Cesare Botero, anticipò lo scandalo di Tangentopoli che di lì a poco avrebbe trascinato nel fango l'oligarchia partitocratica della Prima Repubblica. Metteva a nudo il linguaggio vuoto della politica, un velo brumoso che allora copriva brogli elettorali e corruzione.
Quest'anno il personaggio di Antonio Albanese, il Cetto del film Qualunquemente che venerdì uscirà nelle sale, pur privilegiando il registro comico, appare ancora una volta come lo specchio in cui il paese vede riflessi i suoi vizi peggiori.
Vizi che in politica si traducono nell'allergia alle regole e in un'irreferenabile propensione alla corruzione. Se poi aggiungiamo che il mezzo e il fine della politica stessa si riassume nel motto di Cetto La Qualunque candidato sindaco, «più pilu per tutti», è facile capire quanto il film di Giulio Manfredonia parli il linguaggio dell'attualità e della denuncia condotta con ironia. Albanese ha ragione quando dice che ci salveremo dai politici alla Cetto rendendoli ridicoli, ma quando i politici, senza bisogno della satira, si rendono ridicoli da soli, il cinema può fare di più, può ingenerare consapevolezza, soprattutto alla luce di una conclusione narrativa che certo non è assimilabile a un "lieto fine".
Il viaggio che lo spettatore compie con Cetto La Qualunque, tornato nella sua Marina di Sopra dopo quattro anni di latitanza, riabbracciando i compari dinanzi a un mare devastato dall'abusivismo (anche grazie a lui) per poi trionfare come un piccolo imperatore cafonal dinanzi a concittadini ammaliati da ballerine e buoni benzina regalati, non riguarda solo una regione del Sud ma coinvolge l'Italia indifferente alla legalità e alla perenne ricerca dell'aiutino. Un'Italia che è quella di chi getta i mozziconi di sigaretta tra le sterpaglie, di chi parcheggia il suv con arroganza, di chi non paga le tasse e non fa la ricevuta fiscale, ma anche l'Italia dei politici che confondono la libertà con l'inerzia delle indagini e che spacciano per nuovo il familismo più sfrenato (nella lista di Cetto ci sono, non a caso, solo candidati che si chiamano La Qualunque). Lui stesso anticipa al figlio Melo le virtù dinastiche della politica: «Io sarò sindaco e tu, per legge, vicesindaco». Quella di Cetto è la politica dell'ipocrisia dettata dai consulenti d'immagine che sembrano improbabili personal trainer (come il Jerry Salerno del film interpretato da Sergio Rubino, un barese che si finge milanese e che esegue esercizi di tai chi per concentrarsi salvo piegarsi alla fine anche lui alla "legge del pilu"): farsi vedere in piazza solo con la moglie legittima, assistere alla messa, visitare ospedali e ospizi, tenersi buoni i conduttori di talk show. Mezzucci rispetto alla propaganda più animalescamente sincera di Cetto che al giornalista che gli chiede lumi sul programma elettorale risponde: «Quello è un dettaglio, magnate una pizzetta va'...».
Ma attenzione: la politica delle promesse iperboliche è solo una delle tante maschere del personaggio, non la sua vera essenza, riconducibile a una mentalità, a una sottocultura di luoghi comuni, a una certa idea delle donne divise in categorie dai confini determinati. L'amante sudamericana si chiama "Cosa", la moglie può pregiarsi di un nome vero, Carmen. Ma quando la consorte legittima protesta per l'arrivo in casa dell'intrusa Cetto la mette a tacere con un ordine: «Carmen, porta il caffè». La filosofia del "pilu", insomma, si declina in vari atteggiamenti, è forzata in aspetti caricaturali ma credibili per i rimandi al maschio all'antica che porta il figlio da una prostituta per la sua iniziazione sessuale dopo averlo rimproverato perché la fidanzatina che si è trovato non è abbastanza formosa: «È piatta, non ha le minne... Dimmi, dove ho sbagliato?». Se non siamo tutti, per fortuna, come Cetto, di certo abbiamo avuto a che fare con i tanti Cetto che popolano il nostro mondo quotidiano e, purtroppo, istituzionale. «Si partiva - spiega il regista - da una certezza consolidata. Un personaggio nato per il teatro e il piccolo schermo è diventato in pochi anni una grande maschera italiana, degna della miglior tradizione del nostro paese, e penso non solo alla commedia dell'arte e alla tradizione lontana, ma anche a personaggi più recenti, su tutti a Fantozzi. Anche lui è nato in tv ed è felicemente traslocato poco dopo al cinema. Anche noi, come si fece con lui allora, avevamo l'arduo compito di dar vita al mondo di Cetto, costruire cioè attorno a lui quell'acquario fantastico nel quale potesse nuotare a suo agio, in armonia. Per far questo abbiamo tentato di usare le armi proprie del cinema».
Il mondo di Cetto è l'apoteosi del cattivo gusto, dove domina l'opulenza volgare dell'oro e delle tappezzerie in rosso. L'autocelebrazione del suo ego narcisistico, celebrata tra busti di imperatori romani e false statue egizie, tra decine di suoi ritratti, vasche idromassaggio e icone di santi, recita con la complicità di una corte compiacente il conseguente "meno male che Cetto c'è" (che nel film diventa «se c'è pilu non ci manca proprio niente»). Un mondo dove ogni elemento ha una sua coerenza con l'insieme e guardando il quale si ride, certo, ma si prendono anche salutari distanze. Si consolidano differenze. È soprattutto per questo, alla fine, che Albanese merita più di un applauso.