Il gong salva Israele (e USA) dal KO, il match continua
di Salvo Ardizzone - 06/07/2025
Fonte: Italicum
Premessa
È un fatto che le guerre si stiano moltiplicando nel mondo, col rischio serio che i focolai si dilatino fino a un conflitto generale che investirebbe – direttamente o indirettamente – l’intera umanità o giù di lì. Ed è un fatto pure che i due principali focolai – i principali, perché nel mondo oggi ve ne sono a iosa – siano figli della medesima dinamica: il fallimento del sistema unipolare e il sorgere di quello policentrico che rigetta l’altro. In entrambe le crisi, a un’aggressività scomposta dell’antico sistema che vuole mantenersi, si contrappone visione chiara e pazienza strategica di chi lo rifiuta.
In Europa, all’avventurismo aggressivo di Ucraina, NATO e “volenterosi” vari, spalleggiati dai Neocon americani, si oppone la Russia, attore politico responsabile, perfettamente in grado di leggere la situazione e modulare la propria azione per ottenere i propri scopi (sottolineo, i propri, perché, diversamente da quanto ritenuto da taluni, non v’è - ovviamente – nelle intenzioni del Cremlino alcuna crociata per salvare il mondo o altri che non sia se stesso). In Medio Oriente, a Israele, entità irrazionale che non si pone limiti, con dietro gli USA che lo sostengono a prescindere, si contrappongono soggetti dotati di lucida strategia a cui s’attengono in progetti di lungo respiro da cui non si fanno distogliere.
Tuttavia, a dispetto da quanto ritenuto da molti, delle due, la crisi più pericolosa è quella mediorientale, e ciò perché Israele è, come detto, un attore che per definizione pensa che tutto gli sia concesso, e perché, per un insieme di ragioni, è capace di manipolare gli Usa condizionandoli, fino a indurli a comportamenti del tutto contrari ai loro interessi. E, per aggravante, c’è il fatto che ha un arsenale nucleare di cui non ha reso conto a nessuno, e di cui nessuno – Occidente in testa – chiede conto.
Israele da pilastro del sistema a suo problema
Al Aqsa Flood è stato spartiacque netto per le vicende dell’intero Medio Oriente, catalizzatore d’un precipitare d’eventi che non s’è arrestato, e non s’arresterà fin quando gli assetti precedenti non saranno del tutto collassati e nuovi equilibri emergeranno e si consolideranno in tutta la regione. Non c’è da stupirsi: l’occhio di chi vive gli eventi nella contemporaneità stenta a cogliere i sintomi d’un passaggio d’epoca, a distinguerli dalla cronaca seppur da prima pagina; i meccanismi della Storia no. Occorre tempo perché le chiavi di volta d’un sistema vengano superate ma, quando ciò accade, quando esse entrano in crisi e si spezzano, gli eventi accelerano all’improvviso in cerca di nuovo accomodamento e non si fermano finché non lo trovano. Esattamente ciò che sta accadendo. A dire il vero, non solo in Medio Oriente ma in tutto il mondo.
Da Al Aqsa Flood, da oltre venti mesi, Israele è in guerra; ha aperto sette fronti senza riuscire a chiuderne uno. Da ultimo, ha attaccato l’Iran, nel tentativo di colpire al cuore il suo avversario prima di logorarsi del tutto e implodere. In altre occasioni ho parlato lungamente delle ragioni del conflitto, qui sintetizzo ripetendo che Israele è l’ultima entità coloniale esistente al mondo e che la sua attuale dirigenza politica, peraltro in linea con vasta parte della popolazione, è portatrice di una visione suprematista, razzista e ipernazionalista, che l’ha posto in una messianica dinamica distruttiva e autodistruttiva, del tutto distonica dal contesto mediorientale odierno.
Oggi, anche gli stati che non hanno avuto problemi a riconoscere l’entità sionista, dopo i tanti sconquassi che hanno sconvolto la regione, vedono in essa il macigno che sbarra il passo alla distensione perché, in questo mondo multipolare, si sono resi conto che convivere è assai più conveniente che contrapporsi, meno che mai farsi la guerra. E la situazione è aggravata da un’Amministrazione USA del tutto inadeguata a governare la crisi strutturale che attraversa, che tratta le questioni internazionali più delicate al pari di business fra palazzinari, con ciò disintegrando la propria credibilità che è l’essenza delle relazioni fra stati. Ma andiamo con ordine.
Gli stati dell’area, che a vario titolo hanno partecipato all’antico sistema di potere, mostrano crescente insofferenza verso le a-strategiche iniziative israeliane. Non è fatto ideologico, tutt’altro, per alcune famiglie regnanti e gruppi di potere regionali, gli sconvolgimenti conseguenti all’aggressività sionista rappresentano minacce per i propri affari; per altri, come Giordania o Egitto, mettono a rischio la propria già precaria stabilità e dunque la sopravvivenza. Per tutti, l’esigenza è una distensione, ma è l’esatto opposto cui tende Israele.
Il punto è che con esso non è pensabile razionale accordo perché le sue azioni non sono dettate da strategia coerente con cui trovare convergenza e duraturo accomodamento. La sua deriva odierna, intrisa di messianica onnipotenza, è del tutto distruttiva e prevaricatrice, e non si pone problema alcuno dell’altro da sé che trova naturale calpestare. In questo contesto, basato esclusivamente sulla violenza, da pilastro del sistema che ha retto l’area s’è volto a problema, a ostacolo all’adeguamento della regione al mutamento epocale che è in corso. Ovvero: è danno agli interessi di tutti.
Di recente The Telegraph, sentite le indiscrezioni di alti funzionari e diplomatici degli stati arabi del Golfo Persico, ha concluso che “l’incoscienza di Netanyahu minaccia di annullare gli Accordi di Abramo”. Stando alle sue fonti, il proditorio bombardamento israeliano degli impianti nucleari iraniani è stato considerato “atto imperdonabile e sconsiderato” e Netanyahu è ritenuto “fuori controllo”, “un peso”. Secondo Mohammed Baharoum, direttore di un think-thank assai vicino al governo degli emirati, “Israele non è più un partner ma una minaccia diretta alla stabilità”. Parole impensabili in bocca ai vertici degli stati del Golfo, fino a qualche tempo fa disposti a ignorare tutto in nome degli affari, a trincerarsi dietro parole di circostanza dinanzi al massacro dei palestinesi, ma ora preoccupati – e furiosi – per l’irresponsabilità israeliana.
Attacco all’Iran per chiudere la partita prima di crollare
E qui veniamo ai fatti: Israele ha attaccato l’Iran con il pretesto di un fantomatico programma nucleare militare; il mantra universalmente ripetuto è stato che Teheran fosse lì lì per realizzarsi la “bomba”, una bufala che Netanyahu ripete da oltre vent’anni senza aver mai fornito uno straccio di riscontro, smentita anche dall’Intelligence USA, oggi obbligata da Trump a cambiare narrazione per assecondare la sua azione (del tutto surreale la ritrattazione di Tulsi Gabbard, costretta a contraddire se stessa per evitare il licenziamento). E smentita anche dal direttore generale dell’AIEA Raphael Grossi che, spaventato dalle possibili conseguenze, dopo essersi prestato alle manovre israeliane (come è emerso dai documenti trafugati dai Servizi iraniani e poi pubblicati poco prima che Israele attaccasse), che hanno condotto alla condanna di Teheran da parte dell’Assemblea dei governatori dell’AIEA, ha dichiarato che non vi era alcuna evidenza, nessuna prova di un programma nucleare militare iraniano.
La ragione vera è che Israele era in un vicolo cieco; per quanti massacri facesse, più fronti apriva e meno ne veniva a capo; si profilava un’umiliante sconfitta e, con essa, la fine di Netanyahu e del blocco di potere attorno a lui. Approfittando delle trattative in corso fra USA e Iran, e con l’assenso dell’Amministrazione americana che ha fornito l’indispensabile Intelligence satellitare, Sigint ed Elint, sostegno logistico e copertura, Israele ha attaccato l’Iran con l’obiettivo di provocare un regime-change che chiudesse definitivamente la partita. Lo stesso Netanyahu l’ha dichiarato da subito, imitato da Trump che ha vaneggiato di un “MIGA” (Make Iran Great Again) dopo un cambio di regime. Grazie al gioco di sponda americano (era in programma una tornata di negoziati in Oman strumentalmente definita decisiva), la sorpresa c’è stata (Trump avrebbe preferito un accordo - beninteso, alle sue condizioni - ma ha pensato che la pressione militare avrebbe costretto Teheran a cedere), ma le cose sono andate diversamente.
L’Iran s’è dimostrato un obiettivo troppo grosso, fuori scala per Israele che, non a caso, da subito, ha richiesto ufficialmente l’intervento diretto americano. Il tentato blitz s’è volto in guerra di logoramento, esattamente quello che gli israeliani non erano in grado di reggere dinanzi alle risorse e alla pazienza strategica iraniana. Le munizioni israeliane si sono esaurite e il loro mitizzato scudo antiaereo è stato sistematicamente bucato fino a divenire evanescente; da indiscrezioni confermate è emerso che fra Patriot, David Sling’s, Iron Dome, Arrow e THAAD, al momento del cessate il fuoco rimanevano cinque giorni d’assai scarsa autonomia; in pratica, ormai provavano a proteggere solo alcuni siti a causa degli arsenali vuoti. Che gli USA non erano né sono in grado di rimpinguare per la drastica diminuzione delle scorte dopo anni di guerre (da ultima, la fallimentare campagna contro Ansarullah nel Mar Rosso).
Del resto, il progetto di un regime-change s’è dimostrato da subito una favola, lo stupefacente abbaglio di chi non riesce a leggere l’altro da sé, di chi scambia i propri desideri per la realtà. Nei fatti, l’attacco ha invece compattato gli iraniani “attorno alla bandiera”, anche gli oppositori (scena singolare vedere un personaggio come Khatami, storico avversario di Khamenei, chiamare gli iraniani a fare fronte comune contro USA e Israele). Reazione ovvia per chi abbia la minima conoscenza di un paese che ha sopportato – superandole – quasi cinquant’anni di aggressioni, non per l’arroganza israeliana né per l’ignoranza dell’attuale classe dirigente americana (memorabile l’intervista di Tucker Carlson a Ted Cruz, in cui il senatore americano, uomo di punta del nuovo corso americano, s’è coperto di ridicolo dimostrando di sconoscere del tutto l’Iran).
In tutto questo Trump s’è dimostrato per quel che è: un rozzo uomo d’affari opportunista incapace di leggere gli eventi, circondato da collaboratori peggio che mediocri e influenzato da fanatici Neocon e Israel Lobby. Inizialmente, a istinto, s’è mostrato dubbioso, poi ha ceduto alle insistenze di Israele lasciandogli campo libero e aiutandolo sottobanco ma, a parole, prendendo le distanze dall’azione; poi, ancora, non ha resistito a intestarsi un’azione che all’inizio pareva vincente, giungendo a invocare la resa incondizionata dell’Iran; alla fine, in capo a pochi giorni, s’è trovato fra le braccia un alleato sul punto di collassare, senza munizioni, e che chiedeva disperatamente aiuto, mentre in casa la base MAGA si spaccava dinanzi alla prospettiva di una nuova guerra. A quel punto è andata in scena la commedia.
La commedia di Midnight Hammer
Qui non mi interessa ricostruire i particolari di Midnight Hammer, chi è interessato può trovare notizie sui siti specializzati (ma attenzione alle bufale di quelli dichiaratamente atlantisti), mi limiterò a sottolineare alcuni aspetti dell’Operazione Martello di Mezzanotte che l’avvicinano assai a una sceneggiata. In primo luogo, la manifestazione d’ostentata potenza militare che, peraltro, non sarebbe stata in alcun modo contrastata.
In Occidente s’è ripetuto alla nausea che i cieli iraniani erano del tutto indifesi perché le sue difese antiaeree di medio e alto livello erano state distrutte: beh, da quanto è emerso, è una delle tante bufale del mainstream al pari di quelle circolate sul conflitto ucraino e, per rendersene conto, a parte i report dei siti specializzati indipendenti, basta notare che tutti i filmati messi in rete per dimostrare il dominio israeliano dei cieli erano ripresi da droni e non da aerei che, a quanto pare, sono stati assai parsimoniosi nel sorvolare l’Iran, operando perlopiù da fuori.
Ma non è questo il punto, mi limito a segnalare alcune “stranezze”: poco prima degli attacchi, dal sito iraniano di Fordow – ritenuto il più critico – sono partiti 18 container, un convoglio finito chissà dove e che nessuno s’è sognato di attaccare; bizzarro, stante il dichiarato dominio dei cieli israeliano che mirava espressamente a quel sito. E, già che ci siamo, che fine hanno fatto gli almeno 408 chili di uranio altamente arricchito? Mistero, ma è un fatto che siano stati spostati e sarebbe plausibile che siano finiti in Russia: Mosca, in passato, si è ufficialmente detta disponibile a prenderli in carico, magari facendosene garante verso gli USA durante la lunga telefonata intercorsa fra i due Presidenti prima dell’attacco.
E poi ancora le bombe, le tanto decantate GBU-57 MOP (a proposito, ne sono state utilizzate 14, peccato che il Pentagono ne avesse in tutto 20; e se dovessero servirne altre nel Pacifico?): gli esperti, quelli che si basano sui fatti, hanno ripetuto alla nausea che quei magnificati ordigni non erano in grado di penetrare fino ai siti dove, altra stranezza, per giorni e giorni c’è stata un’intensa attività iraniana per interrare gli ingressi e i pozzi di areazione. Esattamente dove gli americani avrebbero provato ad attaccare.
E ancora: appena le bombe sono esplose, Trump s’è affrettato a dichiarare con la sua solita enfasi che il programma nucleare iraniano era stato totalmente distrutto, senza aspettare nessuna verifica dei danni, per provvisoria o superficiale che fosse. E per inciso, l’Intelligence americana s’è mostrata quantomeno imbarazzata a certificarlo, e il segretario alla Difesa Hegseth come il CSM Caine assai più cauti nelle dichiarazioni, al pari di J.D. Vance.
C’è poi l’immediata reazione iraniana sulla base aerea di Al-Udeid in Qatar, peraltro già sgombrata e messa in sicurezza al pari di quella della V^ Flotta a Manama, in Bahrain. Un attacco con tanto di preavviso e di ringraziamento di Trump per la delicatezza, cui è seguito un fulmineo cessate il fuoco. Il messaggio è stato anche troppo chiaro: per gli USA, e dunque – gli piacesse o meno - anche per Israele, il programma nucleare iraniano era stato tolto dal tavolo, ufficialmente non esisteva più d’imperio, dunque, non c’era più ragione di proseguire il conflitto. Un modo per chiuderla lì, salvando Israele da una disfatta. Ma si sono registrate altre bizzarrie, dal “permesso” alla Cina di acquistare petrolio dall’Iran, in barba a sanzioni primarie e secondarie che si dicono ancora in piedi verso l’Iran, alle voci ulteriori di colloqui su un programma nucleare iraniano che per gli USA non c’è più, al netto cambiamento di linguaggio verso Teheran.
E qui sono da porsi diverse domande, la prima è perché gli iraniani si siano prestati a quella che appare una commedia e, prima ancora, chi ne siano stati i veri autori. Di certo non gli americani, qui ridotti al massimo a comprimari, meno che mai gli israeliani, in questo gioco spinti sullo sfondo. Per provare a comprendere si deve riflettere sulla vera atomica di Teheran, la chiusura dello Stretto di Hormuz che, per inciso, era stata già richiesta dal Parlamento iraniano. Se il Consiglio Supremo per la sicurezza nazionale, cui spetta la decisione, avesse chiuso quel braccio di mare (una trentina di chilometri di secche e scogli con solo un paio di canali navigabili), per l’economia mondiale sarebbe stato uno shock non paragonabile ad altro.
Da quello stretto passa giornalmente almeno il 20% del petrolio mondiale (ma spesso di più) e altrettanto GNL, ed è vitale per economie del calibro di India e Cina (oltre che per i paesi del Golfo), a non parlare dell’Europa, specie dopo l’abbandono dell’approvvigionamento energetico russo. Anzi. È vitale per tutte le economie del mondo, perché il contraccolpo di una sua chiusura le distruggerebbe. Non è un caso che la speculazione, sempre pronta ad avventarsi sulle occasioni di guadagno, si sia guardata bene dal muoversi lasciando che nel picco della crisi il prezzo salisse, sì, ma non oltre i 75 $ al barile (salvo scendere rapidamente subito dopo). Salato, ma sostenibile. Il timore, estremamente diffuso negli ambienti della finanza, è stato che nelle precarie condizioni del momento, fra guerre guerreggiate e commerciali, dazi e bolle speculative sul punto di esplodere, un dollaro sempre meno bene rifugio e un debito americano fuori controllo, un simile scossone mandasse tutto in pezzi. America, con i suoi guai, per prima.
In questo contesto, a muoversi pare sia stata la Cina, che vanta ottime leve con l’Iran. Ma non gratis. A parte il fatto che da Hormuz passa il 50% delle importazioni cinesi di petrolio, ottimo motivo in sé per attivarsi, il rasserenamento della guerra commerciale mossa da Washington e la tacita approvazione americana agli acquisti di greggio iraniano sono ulteriori segnali (per inciso: in questi giorni Pechino sta acquistando dall’Iran quantitativi record di petrolio). E poi c’è Mosca, che da una sponda discreta con Washington ha molto da guadagnare, in Ucraina come nei tanti accordi di cui discutono da quando alla Casa Bianca s’è insediata la nuova Amministrazione. Ma a reggere il gioco, pare, siano state anche le Monarchie del Golfo Persico, che da una chiusura di Hormuz sarebbero state devastate (vedi l’accomodante reazione del Qatar al bombardamento iraniano sul Al-Udeid e la conciliante posizione di Arabia Saudita ed Emirati nel conflitto). Insomma: tanti attori accomunati dall’interesse nel mettere ai margini la scomposta aggressività israeliana e spegnere le tensioni nell’area.
Nel frattempo, l’Iran ha deciso di sospendere la collaborazione con l’AIEA, ma senza porre in discussione la sua adesione al TNP (il Trattato di non proliferazione nucleare). In altre parole, continuerà il suo programma nucleare – che per l’Amministrazione Trump non esiste più – al riparo dell’occhiuta e partigiana presenza dell’AIEA. Intendiamoci, lo ripeto ancora come ho fatto in molte altre sedi: l’Iran non intendeva farsi la “bomba”, sia per motivi religiosi che politici.
A parte la fatwa di Khomeini, reiterata da Khamenei, che definiva gli ordigni nucleari armi di Satana perché potenzialmente capaci di distruggere l’umanità, è quantomeno assai difficile che li lanci su quelli che definisce i “territori occupati”, ovvero la Palestina. Una testata convenzionale, per quanto potente, ha un raggio d’azione limitato, un’arma atomica no. Ed è impensabile che l’Iran possa usarla sui Luoghi Santi dell’Islam, o che finisca per massacrare – direttamente o indirettamente per l’inevitabile fallout – i palestinesi. Per la dirigenza iraniana sarebbe rinnegare se stessa, la causa portata aventi per quasi cinquant’anni, il proprio stare nel mondo, pagando anche un costo politico inimmaginabile non tanto nei riguardi dell’Occidente, ormai da tempo visto come irrecuperabile, ma verso l’Islam e quel Sud del mondo a cui ormai si è volta.
È pur vero che in Iran si sono alzate voci, anche autorevoli, a chiedere che il paese si dotasse di una deterrenza nucleare per la sua difesa; del resto, gli esempi della Libia e dell’Iraq, dopo che Gheddafi e Saddam rinunciarono ai loro programmi e, per converso, della Corea del Nord, che nessuno ha più disturbato dopo che si è dotata dell’atomica, son lì a dimostrare quanto sia rischioso fidarsi dell’Occidente. Per ora, sono voci ancora minoritarie, ma hanno avuto forte spinta dall’aggressione subita. A dire il vero, è stato l’intero concetto di non proliferazione nucleare ad essere stato colpito seriamente dalle irresponsabili azioni israeliane e americane; un invito a tutte le potenze che son capaci di realizzarla (o acquistarla in qualsiasi modo, vedi Arabia Saudita) a dotarsi della “bomba” per garantirsi tranquillità.
Fine del round non del match: le difficoltà di Israele e USA
Al momento, il conflitto Israele – Iran s’è quietato, ma niente affatto cessato: è finito il round non il match, e il round Israele l’ha perso, salvato dal gong da un KO. A quanti stentano a comprenderlo ricordo che la vittoria non dipende dalla conta dei morti o delle distruzioni - fosse così, gli USA avrebbero vinto tutte le guerre dal 1945 in poi invece di perderle regolarmente – ma dal raggiungimento degli obiettivi del conflitto, e Israele non ne ha raggiunto nessuno. In venti mesi ha massacrato e distrutto senza porsi alcun limite, ma senza giungere a nulla. Anzi, alcune cose ha fatto: logorarsi e frantumarsi al proprio interno come non mai, e buttare al vento l’enorme capitale politico su cui contava prima, così segando il ramo su cui è seduto.
Adesso sono ancora aperti gli altri fronti, che sanguinano consumandogli uomini e risorse. Del resto, Eyal Zamir, il nuovo CSM di Tsahal, ha detto chiaro al governo che è impensabile controllare Gaza. Con i reparti logorati e gli arsenali vuoti (le perdite di uomini e materiali continuano e, malgrado la strettissima censura, alle volte emergono dolorose anche sui suoi media), per Israele s’avvicina il momento della verità, che la fallita avventura contro l’Iran ha avvicinato. Neanche la sua economia regge. Nel solo 2024 la guerra è costata all’Entità 67,5 Mrd, tanto per un PIL che supera appena i 500 Mrd. E con l’attacco all’Iran, che ha finito di consumare le già provate riserve israeliane, è andata molto peggio: si calcola una spesa di 750 milioni al giorno per difesa missilistica, missioni degli aerei e ordigni vari. Restano poi da conteggiare i danni, sia quelli materiali (si parla di miliardi), sia quelli a un’economia già assai ferita e oggi del tutto bloccata.
Finora Israele ha retto con emissioni di bond per coprire un bilancio dissestato e di bond war per finanziare il conflitto. Emissioni sottoscritte da consorzi di banche fra cui spicca Goldman Sachs. Ma non è scontato che ciò possa durare. Il timore delle grandi istituzioni finanziarie è che la follia di Israele possa mandare in pezzi i mercati; ovvero, che il loro mondo sia a rischio più che concreto. Di qui possibili pressioni per quietare il conflitto da chi ha in mano i cordoni della borsa.
E, al di là della retorica di Trump, gli USA non stanno granché meglio; in altri tempi, quando la situazione internazionale volgeva al brutto, i capitali in giro per il mondo affluivano in America per trovare rifugio; oggi è l’opposto, oggi fuggono spaventati da un’economia svuotata e una finanza costellata da bolle speculative pronte a esplodere. Per questo s’assiste all’inedita accoppiata di tassi alti e dollaro sempre più debole, e sempre per questo le aste del Tesoro americano sono divenute un calvario per la Federal Reserve e per il consorzio di banche statunitensi costrette a sottoscrivere ciò che non viene aggiudicato dai compratori, oggi divenuto la stragrande parte delle emissioni. Come faranno gli USA in queste condizioni a collocare 9000 Miliardi di bond in scadenza nel 2025 è un mistero.
È per questa profonda crisi del capitalismo americano, una crisi che viene da lontano, almeno dagli inizi dell’Unipolarismo rampante, che Trump non può prendere rischi, non può tentare azzardi malgrado il suo istinto opportunista di speculatore lo spinga. Non può usare la forza come i suoi predecessori, perché potrebbe saltargli il banco. E perché la sua base politica si frantumerebbe. Non avrebbe reti di protezione. Ed è per questo che ha tutto l’interesse di chiudere la crisi mediorientale, che succhia risorse ormai limitate e lo distrae dal teatro principale, il Pacifico.
Si parla già di fine della guerra a Gaza: Netanyahu, inchiodato dai suoi processi malgrado canti una vittoria inesistente (i tribunali hanno rigettato le sue tattiche dilatorie, e gli hanno offerto di concentrarsi su un unico procedimento, il Caso 1000, il più lieve, purché si dimetta: figurarsi che accetti; piuttosto riproverà ancora a salvarsi dai processi, ora anche con l’aperto aiuto di Trump) non vuole chiudere un conflitto che gli assicura sopravvivenza. E un braccio di ferro con la Casa Bianca – di parere opposto - che lo ha salvato e vanta ora un credito difficilmente trascurabile.
Da definire è piuttosto il destino della Striscia e dei gazawi; si parla di un’amministrazione a quattro, con dentro Egitto, Emirati e altri due stati, e si parla ancora di favorire il “trasferimento” dei palestinesi altrove (leggi: in qualsiasi posto che sia lontano, Somaliland o Sud Sudan fa lo stesso), di esilio per i militanti di Hamas, del Jihad e delle altre formazioni della Resistenza. Peccato che, piaccia o no, Israele non controlli la Striscia; malgrado tutti gli sforzi, in oltre venti mesi non c’è riuscito. E ancora piaccia o no, non abbia eliminato uno solo dei suoi tanti nemici, mentre la Resistenza è ancora lì, tenace.
Certo, nella regione c’è voglia di pace, di distensione; per governi e gruppi di potere del sistema di cui l’Entità era organico pilastro l’obiettivo – come già detto – è tornare a fare affari più di prima; per la gente comune, finirla con le guerre. L’ostacolo, ancora e sempre, è Israele. E ora è più debole che mai.