L’anti-americanismo come dovere
di Alessio Mannino - 06/07/2025
Fonte: Il nemico
Il paradigma statunitense è riassumibile così: l’individuo è un pollo d’allevamento da ingozzare alla nausea con spazzatura obsolescente, così da fargli credere di essere libero in quanto, titillato nel suo delirio di onnipotenza infantile, sceglie fra venticinque marche della stessa merda di pseudo-artista.
Dio stramaledica l’America. Gli Stati Uniti d’America. L’America interiore. Quella poltiglia tossica che ci portiamo dentro nell’inconscio. L’orizzonte da mangiaciambelle e aspirazuccheri che si sentono, come si dice a Palermo, un cazzo e mezzo. Psicologia dell’americano medio: un bambinone di cinque anni che frigna e pesta i piedi quando, dopo aver bombardato, spianato, asservito mezzo mondo per trasformarlo nel giocattolo del complesso militar-industrial-finanziario, l’unica volta che gli hanno fatto la bua sul suo territorio, nel 2001 a New York, ha imposto ai suoi servi, che saremmo noi, l’imperativo “siamo tutti americani”. Giulietto Chiesa e un’altra buona dozzina di teorici, anche Usa, sostenevano che le due Torri furono auto-abbattute. In ogni caso, l’effetto fu il rilancio in grande stile dell’arroganza culturale a stelle e strisce, travestita da esportazione universale della democrazia. Come un detersivo, che corrode chimicamente le identità ancora non del tutto allineate. Sia sempre gloria agli straccioni talebani, raccapriccianti ma con attributi grossi come missili Stinger, che cacciarono a pedate la soldataglia del marketing occidentale. Sconfitta storica dei truci neoconservatori alla Bush, ma anche dei loro successori Democratici con sorrisetto obamiano.
L’antiamericanismo non è un diritto: è un dovere. Minoritario, di nicchia, inattuale, perdente, romantico, quello che volete, ma un dovere. La sudditanza la paghiamo ogni giorno, per una serie di sterminate ragioni che ad elencarle tutte potrebbe uscirne una confessione degna di seppuku. Sì, meriteremmo il suicidio per disonore, visto quanto ci siamo assuefatti al fentanyl sociale iniettatoci nelle vene dal 1945 in poi. Per la verità, si stava insinuando anche prima la psico-trappola del comfort, ispirata a quel “diritto alla ricerca della felicità” suprema idiozia inscritta nella Costituzione di Giorgio Washington. Quel che Huxley chiamò “Nuovo mondo orgoglioso”, Toynbee “Occidente”, Pasolini “fascismo consumista” e la Nouvelle Droite “americanismo”, è la stessa pappa ipercalorica che vince e ingloba tutto, perché composta di una sostanza che abbatte ogni difesa: godere e fottersene delle conseguenze. Non casualmente il più grande e profondo diagnosticatore della malattia americana fu un americano, l’apostata Christopher Lasch: cavia fra le cavie, centrò perfettamente l’analisi quando descrisse il “narcisismo di massa”, l’“io minimo” e la “ribellione delle élites”, blocco unico che cementa nel marmo della Casa Bianca il paradigma statunitense. Riassumibile così: l’individuo è un pollo d’allevamento da ingozzare alla nausea con spazzatura obsolescente, così da fargli credere di essere libero in quanto, titillato nel suo delirio di onnipotenza infantile, sceglie fra venticinque marche della stessa merda di pseudo-artista. Nel frattempo, lassù al vertice, come è sempre stato ovunque, un pugno di potenti, con nomi e cognomi, nient’affatto oscuri, gestisce il potere con l’astuzia di farselo ratificare ogni tot anni in quel gioco delle parti che sono le elezioni. Il tutto è definito “democrazia liberale”, non plus ultra planetario, termine ultimo della politica umana, e guai a dire il contrario.
Basterebbe recuperare un po’ di senso storico, della realtà e della logica, oltre che informarsi un minimo, per sapere quello che ormai tutti sanno e hanno capito, fatta eccezione per la fanbase del living in America: trattasi di banale imperialismo. Appena un po’ meno imbellettato e un po’ più mirato di prima, con Trump. Fondato sempre e comunque su una moneta usata da clava (il dollaro), su un debito stratosferico (affinché il cittadino Usa possa continuare a sgasare con il macchinone e produrre la sua personale discarica di rifiuti), su un esercito abnorme a capo della Nato (che d’ora in avanti, grazie a san Trump protettore dei destro-terminali, pagheremo fior di miliardi in più), su un primato tecnologico oggi in vetta anche nella cosiddetta intelligenza artificiale (che renderà superflui milioni di esseri umani, i quali probabilmente se lo meritano, specialmente quelli che si trastullano su ChatGPT come prima con i porno), sul solito, vecchio, caro immondo strapotere della finanza (che, porco d’un Capitale, non è un’invenzione, è un fatto: la crisi del 2008 ha prodotto un’iper-concentrazione di fondi dalle disponibilità pressoché illimitate, la sola Blackrock ha in pancia 11 mila miliardi di dollari, che cosa contano i nostri governicchi appecoronati allo Studio Ovale, di fronte a tali colossi?), su un’industria dello spettacolo ancora egemonica (e che sforna pure creazioni di pregio, sia ad Hollywood che nell’underground, ma il cui orizzonte è sempre, ineluttabilmente, noiosamente, inevitabilmente americanocentrico) e, in definitiva, sulla potenza, unica volontà che muove il cosmo.
In combutta con l’alleato Israele, ben incistato nelle pieghe dell’apparato americano con una lobby, anche questa, alla luce del sole (Public Affair Committee-Aipac, Conferenza delle Organizzazioni ebraiche, Jewish Institute for National Security Affairs, Washington Institute for Near Easterns Policy, Christian Zionists), gli Iusséi si impancano a padroni, gendarmi, maestrini della Terra. Il trait d’union è religioso: le sette protestanti evangeliche benedicenti il Donald affarista e speculatore di criptovalute leggono il Vangelo a partire dal Dio geloso e vendicativo dell’Antico Testamento, più che dalla novella tendenzialmente pacifista del Nazareno, maggiormente nelle corde dei cattolici speranzosi nel papa di Chicago. Gaza è un lager che reca idealmente al suo ingresso una formula, strumentale sì ma non fantasiosa, che gli ipocriti vorrebbero avvolgere come un sudario intorno all’identità dell’Europa: “radici giudaico-cristiane”.
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Di quali doni all’umanità possiamo ringraziare gli yankee? Una manciata: la filosofia vitalista di Ralph Waldo Emerson, la lampadina elettrica, una pattuglia di scrittori (Pound, Bukowski, Forster Wallace), il rock’n roll, Jack Nicholson e un paio di programmi televisivi, di cui uno sono i primi Simpson. Già sull’invenzione dei fratelli Wright, l’aeroplano, ci viene qualche dubbio. È vero: dal mitico Noam Chomsky al neo-comunitarista Micheal Sandel, nelle accademie d’oltreoceano non sono mancate e non mancano le menti pensanti. Non di rado femminili: basti pensare, giusto per fare due nomi, a Shoshana Zuboff, arcicritica dell’ipnosi digitale (“Il capitalismo della sorveglianza”), o a Camille Paglia, nemica del postmodernismo fuffarolo (“Sexual Personae”). Ma di riffa o di raffa, la tabe genetica rimane: l’idea liberal-anglosassone di incarnare il Bene morale, assoluto. Nella variante di destra (MAGA, libertarian, tecno-ottimista), e nella variante di sinistra (liberal, come si dice là, intersezionalista e woke). L’unica attenuante di cui va dato atto, all’anima sovranara e hillbilly del trumpismo, è di non voler più imporre le istituzioni con sopra appiccicato il brand americano fuori dai confini dell’America. “Negli ultimi anni – ha detto il 14 maggio in un discorso in Arabia Saudita – troppi presidenti americani sono stati afflitti dall’idea che sia nostro compito guardare nell’anima dei leader stranieri e usare la politica statunitense per dispensare giustizia per i loro peccati…”. Peccato solo che questa sua saviezza non sia dovuta ad apertura mentale e larghezza di vedute, ma a pura aritmetica di costi-benefici. Il solo culto, gratta gratta, va allo stesso idolo di sempre: il denaro. Per il resto, il buon Donald rimane dell’idea che sia suo diritto attaccare regimi rei di non umiliarsi proni e in ginocchio (vedi Iran).
“Non c’è popolo più stupido degli americani”, diceva Giorgio Gaber. Nel brano L’America (“Libertà obbligatoria”, 1976), cantava: “Ed eccoci qui anche noi, liberi, liberali, liberisti, siamo per la rivoluzione liberale, ma con la solidarietà, siamo liberistici e per il liberalismo, siamo liberaloidi, libertari, libertini, libertinotti. Liberi tutti! No, a me l’America non mi fa per niente bene. Troppa libertà, non c’è niente che appiattisca l’individuo come quella libertà lì. Nemmeno una malattia ti mangia così bene dal di dentro. Come sono geniali gli americani, te la mettono lì, la libertà è alla portata di tutti, come la chitarra. Ognuno suona come vuole, e tutti suonano come vuole, e tutti suonano come vuole la libertà”. Eccola, la libertà ammeregana, progenie di quella albionica. La libertà-da che non sa essere libertà-per. La libertà vuota di fini, di valori, di ideali. La libertà involucro legittimante dell’oligarchia. La libertà alibi per farsi un po’ tutti i cazzi propri. Libertà generatrice, giù per li rami, di quel vittimismo che è cifra esistenziale tanto delle minoranze proliferanti che delle maggioranze piagnone.
Problema: come si fa a combattere il vuoto e accusare chi fa la vittima? Questo è il colpo di genio del liberalismo: far leva sugli istinti più degradanti della psiche umana. E come ci è riuscito? Grazie all’americanismo, che ha fornito l’immaginario da “lieto fine” hollywoodiano con annessa cinica apologia di quell’associazione a delinquere che è Wall Street. Il virus liberale ha infettato il senso comune monetizzando la qualunque. Tu non sei un umano, sei un reddito d’acquisto con obbligo di spesa. “Spendere è molto più americano di pensare” (Andy Warhol). Di qui il destino di irrilevanza a cui sono condannati gli sparuti pazzi che al di là dell’Atlantico osano definirsi socialisti (equivalente, da noi, a poco meno di bolscevichi). Ora: si può essere liberali e onesti, ma in tal caso non si è intelligenti. Si può essere liberali e intelligenti, ma in tal caso non si è onesti. Si può essere intelligenti e onesti, ma in questo rarissimo caso non si è liberali. Il liberale antropologico, questo ex sapiens che suda mentre contabilizza e artificializza tutto, prima che un regredito politico è un deficiente umanamente tarato.