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La nuova città per essere davvero moderna deve ridiventare medievale

di Paolo Masciocchi, Pietro Pagliardini e Nikos A. Salìngaros - 08/02/2011

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Il dibattito di questa stagione politica, teso tra città da ricostruire e incentivi a rideterminare periferie e aree urbane sterili, mostra che l’Italia si sta preparando a un’importante revisione del pensiero urbanistico delle città. Per meglio contribuire a questo cambiamento radicale, desideriamo esporre la nostra proposta.
La ragione per la quale si realizza una città è la costruzione e la crescita della comunità dei cittadini che la abitano. E la comunità urbana non riesce a svilupparsi al di fuori di proprietà geometriche molto precise dell’abitato. “Città” significa una rete di spazi pubblici definiti dal tessuto edilizio urbano, da realizzare con dimensioni in scala umana, secondo proporzioni e rapporti matematici che possono risultare facilmente sensibili all’intervento umano. Su questa struttura geometrica, che richiede l’attività degli esperti e non può essere demandata alla politica, va a sovrapporsi lo sviluppo di una maglia connettiva che permette l’interazione di singole reti molto diverse tra loro, come quella pedonale, del trasporto pubblico, la rete automobilistica e la rete industriale degli autotrasporti e delle ferrovie. In forza di questa visione, è possibile creare una città compatta nella dimensione orizzontale, che costituisce il punto di partenza per uno sviluppo corretto dello spazio civico. È uno sbaglio credere di ottenere la densità giusta attraverso una crescita verticale della città, perché tale dimensione alimenta un processo di scollegamento tra gli èlementi urbani e tra le persone. La nostra soluzione vuole spazzare via la debolezza delle posizioni circolanti con alcune indicazioni precise.
Riteniamo occorra una progettazione delle piazze pubbliche in situ, senza preconfezionate geometrie standard (tipiche quelle a semicerchio), perché ogni luogo genera la propria geometria urbana come conseguenza naturale dell’applicazione di codici generativi.
La nuova città va concepita come una rete di connessioni a cui case ed edifici si devono adattare. [Il tessuto urbano vive di questa simbiosi, e i manufatti architettonici devono trovare collocazione nella sfera della geometria connettiva degli spazi della città. E ancora, desideriamo allontanarci dai prodotti abitativi mirati e dedicati ad una specifica funzione: i quartieri solo residenziali, le aree solo commerciali, o industriali, o di servizi, nonché le soluzioni urbanistiche rivolte ad un target determinato]. La nuova città costruita secondo il nostro modello assomiglia più al tessuto urbano medioevale che a quello tipico della pianificazione di stampo moderno.
La natura è inclusa in modo intimo, su piccola scala, e strettamente collegata alle strutture artificiali, con la stessa logica dei frattali. Se dunque la matrice centrale è l’individuo, tutto ciò che straborda dalle dimensioni umane è da eliminare alla radice.
Lo studio della biofilia urbanistica ha dimostrato che l’uomo ha bisogno d’uno stretto contatto con la natura, cioè la città umana deve mescolarsi con piante e verde alla scala più intima dell’ambito cittadino, quella del diretto contatto. Tuttavia non basta unire edifici e verde senza criterio, specie se la natura diviene un elemento addolcente e giustificativo di orrori architettonici.
Operare secondo il gusto compositivo individuale dell’urbanista, può condurre facilmente a far smarrire alla natura la sua stessa funzione integrante l’abitato, come è accaduto nelle città intrise del modernismo di Le Corbusier, dei palazzi fluttuanti tra prati sterili e non vissuti.
Gli esempi migliori di aggregazione di edificato e natura sono da ricercare in ciò che rimane dei piccoli giardini della città tradizionale ottocentesca, e ancora nei centri storici delle città europee che sono gli unici a favorire lo scambio sociale. È invece fuori da ogni logica scientifica di vivibilità il miscuglio delle tipologie urbane verticaliste con il verde a corollario, anche inserito a dosi massicce. Tutte le soluzioni così prospettate sono dei non-luoghi utopici, validi solo a suscitare le attenzioni del marketing e un fracasso sensoriale. Infatti, queste tipologie artificiali di abitato non definiscono comunità di esseri umani a causa della loro geometria, che risulta ostativa per sua natura a tale sviluppo.
Dunque, occorre capire cosa si nasconda dietro l’espressione “città-giardino”, perché il nome in sé esercita fascino su molti, inducendo una visione semplice e immediata fatta di un sentimento di ritorno alla natura e di una reazione al caos e al disordine della città contemporanea. Il movimento d’opinione e l’eco mediatico indirizzato a proporre nuovi orizzonti di urbanità ci spinge a consigliare ai politici di non seguire modelli già risultati fallimentari. Tra gli slogan della sinistra pseudo-ambientalista e la visione decisionista della destra, che nelle amministrazioni locali fanno il gioco delle archistar e degli immobiliaristi, occorre che si faccia largo un’opzione innovativa e culturalmente valida, da cui chi governa può attingere senza pregiudizi.
L’urbanistica è una scienza giovane, che risulta essere ancora incompleta, perché dominata da uno spirito fondato su dogmi autoreferenziali. È tempo che la politica e i cittadini se ne accorgano, e contribuiscano a favorire una visione più corretta del rapporto tra il costruire e il vivere bene.