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Se non siamo capaci d’una piena trasparenza, puntiamo almeno a una coerenza dignitosa

di Francesco Lamendola - 27/04/2011




Abbiamo più volte sostenuto che il più grande ostacolo sulla via della realizzazione spirituale, ma anche nello stabilire rapporti armoniosi con l’altro, è la mancanza di lealtà verso la propria verità interiore, ossia l’incapacità di vivere con piena trasparenza i propri sentimenti, i propri pensieri, le proprie aspirazioni più profonde.
Abbiamo anche sostenuto che, se viene a mancare questa fondamentale lealtà di noi con noi stessi, questa capacità di dialogo fra l’io e il Sé, allora diventa estremamente difficile anche stabilire relazioni soddisfacenti con il prossimo e, in particolare, dialogare con esso, perché tutto ciò che diciamo e che facciamo è viziato all’origine da questa infedeltà nei confronti della nostra natura più autentica.
Pure, bisogna riconoscere che, molto spesso, noi mentiamo a noi stessi non tanto per apparire più belli ai nostri stessi occhi, quanto perché, diversamente, non riusciremmo a sopportare il peso della nostra verità: non tutti sono capaci di reggere la verità, specialmente quando essa presenta aspetti che configgono con i nostri ideali o con il nostro senso del dovere; e così, per sopravvivere nella battaglia quotidiana dell’esistenza, ci adattiamo a mentire, tutto sommato a fin di bene, o, per lo meno, non deliberatamente a fin di male.
Come siamo bravi a raccontarci mille storie per scusarci, per giustificarci, per non doverci assumere la responsabilità delle nostre debolezze!
Messa così, sembra quasi che la mancanza di lealtà verso se stessi sia una inevitabile necessità, se non, addirittura, una pia frode, che, in fondo, praticano più o meno tutti quanti e della quale, pertanto, non c’è proprio nulla di cui vergognarsi, proprio nulla che non faccia parte, a pieno titolo, delle giuste esigenze della natura umana.
Proviamo, invece, a guardare le cose con un po’ più di onestà intellettuale, con una minore fretta di autoassoluzione e con maggiore senso dell’oggettività.
Tanto per cominciare, il fatto che moltissime persone agiscano in questo modo non vuol dire nulla: così come il furto non diventerebbe una cosa normale se pure tutti quanti si mettessero a rubare a più non posso; in queste cose, non è la quantità l’elemento che decide della giustezza o della liceità di un comportamento, non è l’orientamento della massa.
In secondo luogo, la mancanza di trasparenza con se stessi non può che portare con sé un triste codazzo di esperienze negative con gli altri, perché senza trasparenza non si costruisce nulla di durevole e, soprattutto, nulla di soddisfacente.
Non stiamo dicendo che, nei rapporti con l’altro, dobbiamo essere perfetti; stiamo dicendo, semplicemente, che, se non siamo capaci di trasparenza, viene a mancare il requisito minimo per essere soddisfatti di noi stessi e, inevitabilmente, perché gli altri siano soddisfatti di noi: la trasparenza non è la perfezione, è il livello minimo di accettabilità delle nostre relazioni con noi stessi e con gli altri.
Talvolta ci si difende da questo imperativo sostenendo che, se è vero che noi siamo poco sinceri con gli altri, anche gli altri lo sono poco con noi e che, pertanto, alla fine non c’è niente di male nel giocare a recitare quel che non siamo, visto che lo fanno tutti e che tutti sono preparati a non prendere sul serio le dichiarazioni del prossimo.
A prescindere dal fatto che si tratta di un maniera ben meschina di difendersi, bisogna innanzitutto capire che ogni cosa in cui manchiamo di trasparenza, si ritorce inevitabilmente contro di noi; e che, quindi, non è una “difesa” intelligente quella di cercare delle scappatoie e delle giustificazioni morali per essere poco leali e poco sinceri, dal momento che la difesa intelligente ha lo scopo di proteggere colui che si difende, mentre, in questo caso, si tratterebbe di una difesa estremamente stupida, poiché avrebbe il solo risultato di danneggiare colui che la adottasse.
In terzo luogo, la trasparenza verso noi stessi (e quindi verso gli altri) è il risultato di un processo di realizzazione del proprio Sé e, simultaneamente, di depotenziamento di quell’io ipertrofico che, troppo spesso, guida tirannicamente le nostre vite, imponendo loro i suoi ritmi disordinati e infantili, il suo narcisismo sfrenato che, talvolta, si manifesta nel suo contrario, l’odio e il disprezzo di sé, la disistima radicale di quel che siamo.
Di conseguenza, si tratta di un obiettivo fondamentale per qualunque progetto di vita e non di un elemento accessorio, che sarebbe magari teoricamente desiderabile sviluppare, ma di cui, insomma, si può benissimo fare anche a meno; questo, beninteso, se si pensa alla propria vita come a un disegno intenzionale, a una creazione consapevole e, più precisamente, come una risposta alla chiamata dell’Essere e non come a un caos informe ed estemporaneo di situazioni, di nodi, di impulsi e di tensioni discordanti e disarmonici.
Resta il fatto che non è facile e che molti non vi riescono, sia che poco s’impegnino in tal senso, sia che nemmeno arrivino alla piena consapevolezza di quanto la trasparenza con se stessi sia necessaria ad una vita degna; che cosa rimane da fare, dunque, a tutti coloro che non vogliono o non si sentono in grado di porsi un tale obiettivo?
A nostro avviso, la risposta non può essere che una: se non si può puntare al raggiungimento di una piena trasparenza, bisogna almeno puntare ad un livello dignitoso di coerenza e di franchezza, con sé e con gli altri; bisogna almeno astenersi, in altre parole, dalle bugie più grossolane, dai sotterfugi più meschini, dalle strategie più furbesche di nascondimento.
Non sarà il massimo, ma è già qualcosa; è già un modo di innalzarsi al di sopra del livello più infimo dell’esistenza, quello basato sull’astuzia sistematica, sulla menzogna spudorata e sul bisogno di attribuire agli altri le proprie bassezze, le proprie incoerenze, le proprie viltà.
Sembra impossibile, eppure vi sono moltissime persone che vivono a questi livelli infimi dell’esistenza: sono così sprofondate nella inautenticità, che nemmeno si rendono conto di quanto stiano ingannando gli altri e perfino se stesse, di quanto sia svergognata l’operazione mediante la quale si fabbricano continuamente degli alibi, allo scopo di poter manipolare gli altri a tutto spiano, senza dover poi fare i conti con spiacevoli sensi di colpa.
Si può paragonare l’esistenza ad un alto palazzo, i cui inquilini scelgono di vivere nel piano che corrisponde al livello di consapevolezza di ciascuno; beninteso, tutti, o almeno la maggior parte, sono convinti di essersi scelti gli appartamenti migliori, quelli dei piani alti, ma una cosa è quel che si crede, e un’altra e ben diversa, quello che realmente è.
Di fatto, la maggioranza degli abitanti del palazzo ha scelto di vivere nelle cantine umide e buie, invase dalla sporcizia e percorse da frotte di topi, là dove si respira aria malsana e non si vede mai un raggio di sole, né si respira un soffio di aria pura; mentre i piani più alti sono via via sempre meno abitati e, forse, negli splendidi attici, dai quali si può godere una vista d’una bellezza da togliere il fiato, non abita proprio nessuno.
Come accade, allora, che gli abitatori delle cantine non si rendono conto del proprio errore, non si accorgono dell’infima qualità degli appartamenti che hanno occupato e li scambiano, anzi, per delle regge, dalle quali non vorrebbero andarsene nemmeno se qualcuno tentasse di allontanarli a suon di cannonate?
La ragione è piuttosto semplice: ciascuno vede le cose secondo il proprio livello di consapevolezza; per il maiale, sguazzare e rotolarsi nel fango è il massimo della soddisfazione, così come per il cane idrofobo la cosa migliore è mordere il primo malcapitato che gli si presenta a portata di mascelle e riversare su di lui tutta la sua rabbia e la sua disperazione.
Così, per rendersi conto che si è degli abitatori del buio, bisogna almeno sapere che cosa sia la luce; ma se non si è mai visto neppure un raggio di sole, si finisce per adattarsi alle tenebre e magari per trovarle, se non proprio confortevoli, quanto meno accettabili.
Tale è la triste condizione in cui vive l’umanità inconsapevole; in cui vive, cioè, la grande maggioranza degli esseri umani: i loro occhi sono talmente assuefatti alle tenebre, che la piena luce del giorno li renderebbe completamente ciechi.
Possiamo formulare una specie di legge in questi termini: nella vita, ciascuno riesce a vedere ciò che corrisponde al livello della propria evoluzione spirituale.
Le persone egoiche, meschine, bassamente astute, riescono a vedere solo cose e persone che corrispondono a questo infimo livello di consapevolezza e le vedono solo e unicamente nella prospettiva della menzogna, del dominio e dello sfruttamento; anche se si imbattessero in cose e persone di altissimo valore spirituale, esse non le riconoscerebbero e non attribuirebbero loro il benché minimo valore.
Per una persona che pensa sempre e solo al profitto individuale, un bosco non è un meraviglioso organismo vivente, ma una possibile fonte di utili per il legname da ricavare e da vendere, per la costruzione di impianti alberghieri e così via; essa non apprezza né la bellezza, né l’armonia, né la pace che promanano da simili luoghi; a mala pena si rende conto che gli alberi sono creature viventi e, quanto ai caprioli, gli piacciono solo nel piatto, con la polenta.
Le persone più evolute, al contrario, sanno scorgere la bellezza, il dono e sanno provare gratitudine anche davanti alle cose più piccole o, per meglio dire, alle cose apparentemente piccole, che la vita generosamente ci offre ad ogni momento: ma bisogna avere uno sguardo capace di riconoscerle e un cuore nuovo, di carne, come dice Ezechiele, al posto del vecchio cuore di pietra (36, 24-26): operazione, quest’ultima, che il profeta biblico attribuiva a Dio, non all’uomo.
Di fatto, qui siamo in presenza del nucleo di una grande verità: noi non posiamo elevarci da soli, con le sole nostre forze, e magari con tutto il bagaglio del nostro orgoglio, dai piani inferiori a quelli superiori del palazzo; è già tanto se riusciamo a renderci conto, ad un certo punto, che le stanze in cui viviamo sono umide e buie e se cominciamo a provare insoddisfazione per lo squallido contesto di sporcizia e oscurità in cui siamo immersi.
Ed è già tanto perché allora, e solamente allora, si dischiude, per noi, la possibilità di effettuare un salto di qualità e di portarci dalle cantine ai piani soprastanti, e sia pure, per il momento, a quelli più bassi: benedetta sia quella insoddisfazione, benedetto sia quel sentimento di profondo disagio, di profondo scontento, di profondo disgusto. Se lo avvertiamo, ciò significa che siamo ancora vivi: perché quando smettessimo di provarlo, allora vorrebbe dire che saremmo spiritualmente morti e che niente ci potrebbe più riportare in vita,.
Non basta, tuttavia, avvertire il disagio e il disgusto: quello è solo il primo passo e potrebbe anche risolversi in uno sterile rimpianto, in un inutile sconforto. Ci vuole di più, molto di più: ci vuole l’umiltà di capire che, da soli, non potremo mai fare nulla, ma che molto possiamo se decidiamo di affidarci alla forza dell’Essere, alla corrente dell’Essere, di cui, peraltro, siamo già parte fin dall’inizio, fin da prima che il mondo materiale cominciasse ad esistere.
Affidarsi alla corrente dell’Essere significa seguire il flusso della vita, così come essa deve procedere, ma con un nuovo spirito di consapevolezza; e incominciare a vedere realmente tutte le cose che, prima, guardavamo soltanto, distratti da pensieri insulsi, da appetiti disordinati, da timori irragionevoli.
Questo vuol dire ricevere un cuore nuovo, di carne, in luogo del nostro vecchio cuore di pietra: questo vuol dire aprirsi ad una nuova vita, che si colloca su un piano molto più elevato di consapevolezza e, quindi, di gioia, di bellezza e di amore.
Certo, nella vita ci sono anche delle cose che non sono belle: non è bella la sofferenza, non è bella la delusione, non è bella la crudeltà; ma la persona divenuta consapevole incomincia a comprendere che tutto, nella vita, ha un significato, e che tutto è in relazione con il proprio livello di consapevolezza: così, quella esperienza dolorosa che, nell’uno, produce soltanto amarezza e, magari, cattiveria gratuita, nell’altro fruttifica e lo rende più aperto, più generoso, più sensibile alla infinita ricchezza del reale.
Vi sono più cose fra la terra e il cielo di quante ne possa sognare tutta la nostra filosofia, diceva Amleto; forse, la cima del palazzo non esiste nemmeno, perché s’immerge direttamente nel Cielo.