Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il naturalismo criminale di Sade è figlio dell’ideologia illuminista del progresso illimitato

Il naturalismo criminale di Sade è figlio dell’ideologia illuminista del progresso illimitato

di Francesco Lamendola - 02/05/2011




Da dove viene la filosofia di Donatien-Alphonse-François de Sade, il “divino Marchese”?
In primo luogo dai libertini e dagli illuministi, quelli - ovviamente - di tendenza materialista, meccanicista e atea, in particolare D’Holbach e La Mettrie.
Questo, però, non basta a rendere ragione del suo furioso anti-teismo, della sua foga iconoclasta e antireligiosa.
Il materialismo nega l’esistenza di Dio o, quanto meno, nega l’idea di un Dio provvidente, che si fa carico del destino dei viventi: è praticamente ateo, anche se non necessariamente lo è anche in senso teorico, come avviene nel caso d Epicuro che non nega affatto l’esistenza degli dèi, ma sostiene che essi vivono beati negli “intermundia” e sono del tutto indifferenti alle preghiere o alle maledizioni degli umani.
Inoltre, la maggior parte degli illuministi di orientamento ateo, così come molti libertini, non avevano sostenuto che l’inesistenza di Dio implichi un orientamento dell’uomo verso il male; al contrario: avevano sostenuto che la felicità è il premio della virtù in questa vita, e non solo la propria felicità, ma anche quella altrui.
In Sade non c’è ateismo, almeno nel secondo Sade, a partire dalla metà degli anni ’70 del 1700; bensì un impeto anti-divino che sembra, ed è, più un teismo rovesciato nel suo contrario che un ateismo correttamente inteso.
Non solo: a partire da quegli anni, in Sade il naturalismo ateistico cede il passo ad un naturalismo criminale, ossia a una teorizzazione esplicita della ricerca della massima voluttà nell’esercizio  deliberato e scientemente perseguito del male morale, beninteso del male altrui: anche questo non è ateismo nel senso classico del termine, ma, semmai, satanismo.
Per il secondo Sade, tutto quello che conta è prolungare al massimo il godimento del piacere; e, dal momento che il piacere consiste nella contemplazione estasiata del dolore altrui, sia esso fisico o morale, o entrambe le cose insieme, ne consegue che tutta la filosofia di Sade si riassume nel massimo prolungamento del male altrui.
Il male viene perpetrato da una minoranza aristocratica che si elegge da se stessa arbitra della vita e della morte, oltre che, naturalmente, della manipolazione del corpo altrui; e a questa filosofia, che viene portata alle sue estreme conseguenze in «Le centoventi giornate di Sodoma», il “divino Marchese” resterà poi sempre fedele.
Da ciò si vede bene quanto assurda sia la posizione di coloro che hanno voluto fare di Sade un rivoluzionario e quasi, niente di meno, un precorritore del crollo della Bastiglia e della Rivoluzione francese; egli pensa, sente, vive da perfetto aristocratico e il “diritto” di disporre del corpo e della vita altrui parte da una motivazione esclusivamente individualistica, non mai da ragioni di ordine collettivo e men che meno statale.
Per Sade, il dispotismo non è il risultato di una degenerazione del teismo; al contrario: il suo ateismo si lega indissolubilmente al dispotismo, il dispotismo del singolo individuo che elegge il proprio piacere a norma suprema di vita e che, in nome di essa, calpesta senz’ombra di scrupolo ogni diritto altrui.
Sade è un despota che odia il dispotismo politico soltanto perché pone dei limiti all’arbitrio della sua volontà e della sua privata ricerca del piacere: e qualcosa ne sapeva bene, avendo vissuto tanti anni della sua vita nelle carceri dell’Ancien Régime.
L’individualismo di Sade è così rabbioso, così esigente, così imperioso, che mai da esso potrebbe scaturire una filosofia politica basata sull’idea dell’unione contro un nemico comune; se la vita è lotta, tale lotta si svolge sempre e unicamente fra coloro che osano e coloro che non osano, fra coloro che calpestano la morale corrente e coloro che la seguono.
È evidente, pertanto, che in Sade vi sono più elementi in comune con la filosofia del Superuomo nietzschiano che non con il giacobinismo; il religioso Robespierre, col suo deismo virtuoso, aveva semplicemente in orrore posizioni filosofiche come quelle di Sade: nessun dialogo, nessun ponte era ammissibile fra le loro rispettive concezioni del mondo.
Resta da spiegare il passaggio dal primo al secondo Sade; dal Sade naturalista virtuoso al Sade naturalista criminale, teorico del crimine (non solo sessuale).
Eppure, il problema del passaggio dal primo al secondo Sade è destinato a rimanere aperto: non esiste alcun documento che testimoni un passaggio ragionato dall’uno al’altro; il che significa, come giustamente osserva Gianni Nicoletti, che non dovette esservi alcun passaggio, quanto piuttosto un salto, un salto fideista dai “lumi” della ragione ateista al torbido ribollire di una sfrenata passionalità misticheggiante, in questo caso di un misticismo all’incontrario.
Scrive G. Nicoletti nella sua introduzione alle «Opere complete» di Sade (Roma, Newton & Compton, 1993, «Aline e Valcour», pp. 11-12):

«… Nel suo pensiero (pensiero?) vi fu, certo, una evoluzione o per meglio dire una involuzione, dal materialismo naturalistico virtuoso a un materialismo naturalistico criminale tra il 1782 e il 1787 (“Les 120 Journées de Sodome” furono finite il 28 novembre 1785), ma per procedere a questa inversione del tutto immotivata e immotivabile, aprioristica se non gratuita, bisognava pure che fosse almeno latente, in Sade, una tendenza a personalizzare il divino, in un viscerale impulso di malintesa religiosità. Se così stanno le cose, la scrittura di Sade è inseribile, come altri indizi confermano, in posizione protoromantica  e non razionalistica soltanto - o è ignoranza della storia – quindi con una apertura verso problematiche differenti.
La matrice del sadismo, come conferma Antoine Adam, sta nelle dottrine di Lamettrie e di d’Holbach, nell’”Homme machine” e nel “Système de la Nature2 (1748 e 1770), il cui materialismo deterministico e corretto dai concetti di umana simpatia e virtù generatrice di felicità - essere felice consiste nel procurare felicità agli altri - che sono totalmente estranei al sistema sadista. Se nel “Discours sur le bonheur” dubitava già che la virtù sia sempre fonte del “bonheur”, la natura era comunque “feconde, source de vie et de joie”, la Mater panspermia di Toland, mentre nel sadismo è crudele, vorace, distruttiva.  Come si diceva, siccome non c’è alcuna spiegazione nel processo ragionativo di Sade che giustifichi il salto, nessuna mediazione fra natura buona e natura cattiva che indichi una svolta del pensiero,  né astrattamente si può in qualche modo immaginarla,  è inevitabile concludere che si trattò di una irruzione dogmatica, di un impulso irrefrenabile, connessi a un sentimento teofobico anomalo secondo qualsiasi corretto atteggiamento ateista. La questione diventa biscornuta: fu l’esperienza esistenziale di Sade  a provocare lo scarto ragionativo, o questo ad alimentarne l’esperienza? Ma non solo le due ipotesi sono intercambiabili sul piano logico  se non cronologico (almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze  della biografia) bensì risultano dialetticamente unificate dalla connessione teoretico-pratica, per cui data quella premessa solo questa poteva essere la conseguenza, e viceversa. In tutti i suoi scritti, con precisa volontà di fare scrittura fin dal 1758 come risulta dalle “Oeuvres diverses”, Sade cercò di formulare un organismo coerente, impeccabile e monolitico, della prospettiva pessimista e fino a raggiungere un nihilismo, il che non può non apparire contraddittorio e inaccettabile per la intrinseca difficoltà di dare ordine a un disordine. Bisogna quindi ammettere che il sadismo fu naturalismo ateistico, dogmatico e rovesciato, a priori ovvero uno speciale atto di fede, in certa misura nuovo, rispetto al razionalismo illuminista, in quanto scandalo della ragione.
Infatti, se non bisogna dilatare il concetto fino a travestirlo di satanismo, connotazione ottocentesca improntata  a un insidioso rimpianto del paradiso perduto, Sade tuttavia non fu caso isolato nella ricerca di un supplente  della divinità cattolica, e l’essere supremo di Robespierre, anche se assai lontano dal sadismo e desunto da Rousseau, fu per esempio un altro modo di risolvere il vicolo cieco, almeno politicamente parlando, dell’ateismo. La natura ateista diventò sadista quando il “philosophe” fece intervenire un coagulo di qualificazioni negative ma non per questo meno organizzate, o forzate a organizzarsi, in formazione autonoma. Ciò permette una indagine altrettanto organica della invenzione ma non del sistema, poiché non vi è sistema le cui parti siano prive di ponti logici, ovvero di connessioni comunicanti. Il mondo di Sade è bolgia gratuitamente ermetica almeno quanto lo fu lo scrittore…»

Sarebbe interessante domandarsi da dove venga l’estrema tensione della filosofia di Sade: termine, quest’ultimo, che adoperiamo senza le virgolette, poiché le vanno riconosciute una certa sistematicità ed una estrema chiarezza, anche se non sempre accompagnate da intima coerenza.
La filosofia di Sade, infatti, non sembra mai veramente paga di sé, ma sembra annaspare continuamente alla ricerca di un piacere più intenso e più prolungato: il che, fra l’altro, ingenera l’impressione, per dirla col Nicoletti, di un orgasmo perennemente difficile, mentre invece, forse, si tratta soltanto dello sforzo inesausto di protrarre e, quindi, posticipare oltre ogni limite “ragionevole”, il soddisfacimento del piacere.
A nostro avviso, tutto questo ha a che fare con la filosofia illuminista del progresso illimitato, vera e propria novità nel panorama speculativo del XVIII secolo; poiché, anche se le sue premesse concettuali sono già implicite nella Rivoluzione scientifica del secolo precedente, nessuna corrente di pensiero, mai fino ad allora, si era posta in termini così radicalmente alternativi rispetto alle filosofie del passato; nel senso che nessuna aveva osato proclamato essere il progresso continuo, incessante, rapido, di generazione in generazione, il motore della storia e la sola possibile origine del concetto di “felicità” collettiva.
Fino all’Illuminismo, nessuno aveva mai pensato, come cosa ovvia, che la prossima generazione avrebbe avuto il DIRITTO di attendersi più beni, più dominio sulla natura, più felicità della generazione precedente; nessuno, ad esempio, aveva mai visto uno scandalo nella mortalità infantile o nella mortalità dovuta alle malattie, mentre ora la morte comincia ad apparire come una intrusa e una ladra e la felicità come un “diritto” naturale e inalienabile.
Ora, se il progresso è illimitato, anche il benessere che ne deriva dovrà essere del pari illimitato; da qui all’idea di un edonismo radicale, inteso in senso quantitativo e, particolarmente, come durata nel tempo, il passo è breve.
Sade non fa altro che raccogliere questo schema, farlo proprio e rielaborarlo alla luce del suo naturalismo criminale: se la felicità è un diritto e se è un elemento quantitativo e temporale, allora nulla vieta che chi se ne sente in grado, la persegua in ogni modo, al di sopra degli altri e contro gli altri e che la persegua come massima durata nel tempo.
Questa, e non altra, è la ragione degli “orgasmi difficili” del mondo allucinato del “divino Marchese”: perché, infatti, consumare in fretta un bene così prezioso, così unico, come l’esercizio del piacere, quando lo si può centellinare e ritardare in mille maniere deliziose?
Come si sarà visto, abbiamo cercato di ragionare pacatamente della filosofia di Sade, del suo materialismo naturalista; perché, se si vuole comprendere il segreto della presa che questa filosofia non ha cessato di esercitare sull’immaginario della modernità, allora bisogna sgombrare il campo da inutili moralismi e trattare Sade esattamente come qualunque altro pensatore; allo stesso modo che, se si vuol capire qualcosa del fenomeno hitleriano, bisogna smetterla di farne il luogo delle esecrazioni morali e delle esercitazioni psicanalitiche a buon mercato e riportare la riflessione sul piano strettamente storiografico.
Se Sade continua a signoreggiare incontrastato nella cultura e, più ancora, nei sogni proibiti dell’Occidente, allora vale la pena di domandarsi da dove gli venga un così grande potere, invece di deprecare che esso si sia storicamente manifestato nelle opere del “divino Marchese”: il quale, dopo tutto, non ha fatto che dare visibilità a una poderosa forza latente, che già esisteva e non aspettava che l’occasione per manifestarsi.
Ebbene, un tentativo di risposta lo abbiamo suggerito, mettendo Sade in relazione con la filosofia illuminista del progresso illimitato: filosofia solo apparentemente innocente e solo apparentemente disinteressata.
Come ben sappiamo, i suoi cultori non si sono trattenuti dal desiderio di divulgarla ed imporla con il massimo vigore, magari sterminando un milione di contadini della Vandea che non ne volevano sapere: il filo rosso che lega il binomio giacobino Virtù-Terrore è lo stesso che passa per i gulag staliniani e per le stragi sistematiche di Pol Pot in Cambogia.
Non c’è nulla di più terribile della pretesa illuminista di portare la felicità nel mondo, mediante l’asservimento della natura e l’eliminazione del dissenso ideologico.
Del resto, perché scandalizzarsi?
Se la felicità è un diritto e se essa è essenzialmente quantità e durata, allora come si potrebbe biasimare chi la pretende con ogni mezzo e cerca di prolungarla in ogni modo, ignorando qualsiasi obiezione e manipolando il prossimo a volontà, fino a ridurlo ad una semplice cosa nelle nostre mani?