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Periferia

di Alain de Benoist - 21/12/2011

http://www.comune.frascati.rm.it/images/Vespignani%20-%20Periferia%20al%20Tuscolano-%201960_1.jpg


«Banlieues, banlieues / le paradis des gens heureux» (“Periferia, periferia/
paradiso d’allegria”), intonava negli anni Cinquanta Robert Lamoureux. Periferia
popolare, quasi sobborgo: la cantavano Jacques Prévert e René Fallet, la
fotografavano Edouard Boubat e Robert Doisneau. Era quella del mutuo soccorso
e della solidarietà fra «gente da poco». Mezzo secolo dopo, periferia è inferno per
diseredati, ostaggi e testimoni impotenti, perché ridotta a discarica di rifiuti
urbani e «uomini di troppo» di metropoli rese dormitori per quadri superiori e
nuovi piccolo-borghesi «introdotti».
Per via degli immigrati, oggi il problema della periferia francese è, per la destra,
problema etnico; per la sinistra, problema sociale. Ma sono aspetti indissociabili
e soprattutto il fenomeno della periferia va ben oltre, né lo si risolve attenendosi,
da un lato, agli incubi sull’«islamizzazione», dall’altra alla «cultura della scusa».
Infatti comunità in senso sociologico e in senso politico non vanno confuse. La
periferia non si compone tanto di «comunità» organizzate, quanto di un
caravanserraglio di varie popolazioni, artificialmente giustapposte. Né esse si
dividono fra discriminanti e discriminate, abbienti e non abbienti. E non c’è solo
la questione sorveglianza-controllo, come quando le «classi pericolose» erano
sorvegliate e l’habitat era una forma di disciplina sociale.
I «giovani di città» non discutono il sistema che li esclude. Cercano meno il
riconoscimento che la scorciatoia al denaro. Nulla di meno contestatore della
violenza di periferia – violenza bruta, frutto di un malumore convulsivo senza
discorso politico o rivendicazione. Nessuna rivolta nel senso di: «Non siamo
niente, vogliamo tutto!». Regnando con lo spaccio, la violenza e il terrore sui
quartieri «sensibili», i delinquenti evocano il lumpenproletariat di Marx. “Feccia
di corrotti d’ogni classe, con quartier generale nelle metropoli, esso è - scrive
Engels - l’alleato peggiore». I suoi modelli non sono l’Islam o la rivoluzione,
Lenin o Maometto, ma Al Capone e Bernard Madoff (del resto la delinquenza dei
grossi predatori finanziari è più nociva delle plebaglie di periferia). Mentre
l’economia criminale è ormai un sotto-prodotto dell’economia globale, i criminali
vogliono solo adattare alla base, brutalmente, pratiche verticistiche. Per divenire -
dice Jean-Claude Michéa - «golden boys dei bassifondi».
Da questo punto di vista, i «ragazzi della periferia», dei quali si denunciano
ovunque rifiuto o incapacità d’integrazione nella società, sono perfetamente
integrati nel sistema. Credere la delinquenza «giovanile» esito meccanico di
miseria e disoccupazione non fa capire ciò che, nella logica d’accumulazione del
capitale, legittima quell’atteggiamento: valori diretti solo al profitto e al successo
materiale, lo spettacolo del denaro facile, il cui esempio viene dall’alto. E
contemporaneamente significa camuffare la violenza nei rapporti sociali del
sistema capitalista – ritorno a un capitalismo selvaggio, cui corrisponde la nuova,
selvaggia conflittualità sociale.
La disintegrazione della periferia riassume la decomposizione del mondo
occidentale. Esse sono sintomo di una dissociazione generale. La sconfitta
dell’«integrazione» non risulta solo dall’assenza di volontà d’integrarsi, ma anche
dalla scomparsa di ogni modello che spieghi perché integrarsi. E integrarsi in che
cosa, poi? In un Paese, una società, un sistema di valori, un supermercato? Per
Jean Baudrillard, «disintegrandosi, una società non può integrare gli immigrati,
perché essi sono sia il risultato, sia l’analista selvaggio della disintegrazione». Gli
immigrati soffrono d’una crisi d’identità in una società che non sa più che cos’è,
da dove viene, dove va. Ci si stupisce che disprezzino il Paese dove vivono, ma il
Paese è incapace di definirsi. I «giovani» dovrebbero amare una Francia che,
oltre a non amarli, non ama se stessa.
Con più del 50 per cento della popolazione mondiale che vive nelle città e più
di un terzo degli abitanti delle città che vive nelle baraccopoli, si può parlare di
«periferizzazione» del mondo. Infatti ovunque ci sono le stesse tendenze
all’urbanesimo antisociale che hanno condotto all’attuale periferia.
Oggi si capisce la «periferia» solo nella consapevolezza di una profonda
mutazione che, nell’epoca della tarda modernità, ha colpito la città. La metropoli
non è più entità spaziale ben determinata, luogo differenziato, è un
«agglomerato», una zona le cui metastasi («unità abitative», « grandi insiemi» e
«infrastrutture») s’estendono all’infinito, proliferando in modo anarchico in
periferie che scivolano lentamente nel nulla. Henri Lefebvre parlava d’un
necessario «diritto alla città». Ma la grande città non è più un luogo. E’ uno
spazio che si dispiega distruggendo il sito e sopprimendo il luogo. E’ dis-misura
e il-limitazione. E’ pura estensione, cioè de-localizzazione in senso proprio. In tal
senso essa realizza l’ideale dell’urbanismo come tecnica storicamente associata
all’invenzione della prospettiva - che rende integralmente geometrico lo spazio -
e del razionalismo funzionale - igienismo applicato all’architettura -, che porta a
dispiegare uno spazio sistematizzato.
Urbanizzare - scrive Jean Vioulac - «non è più installare l’uomo nel sito della
città, cioè in un centro, in un polo dal quale il mondo si dispieghi e si dia un
senso. E’ l’assenza di un polo a definire periferia […]. Ban-lieue è essere bandito
(banni) da ogni luogo (lieu)”. Banlieue è un non-luogo. Ci si vive (o sopravvive),
non ci si abita. Il dramma è che oggi la società denuncia mali (urbanesimo
selvaggio e immigrazione incontrollata) da lei stessa causati, deplorandone gli
esiti.