Benyamin Netanyahu e i risvolti del conflitto israelo-iraniano
di Nicolas Gauthier - 18/06/2025
Fonte: Diorama letterario
Attaccando l’Ucraina, il 22 febbraio 2022, Vladimir Putin non sapeva forse a che punto quella
avventura disordinata, che si sarebbe dovuta concludere in poche settimane, avrebbe sconvolto la
geopolitica mondiale. Gli attacchi israeliani contro l’Iran scatenati lo scorso 13 giugno ne sono oggi
la logica conseguenza.
Concentrando tutti i suoi sforzi su Kiev, Mosca lascia campo libero ad altre iniziative, tutte
altrettanto azzardate, fra cui quella di Hamas del 7 ottobre 2023 che ha comportato i noti massacri.
Da allora in poi la concatenazione è ineluttabile e la risposta dello Stato ebraico tanto prevedibile
quanto spietata: Tel Aviv può allora scatenarsi sullo Hezbollah libanese cominciando al contempo a
minacciare l’Iran. Spinto dal principio di opportunità, quel che resta dell’Isis in Siria ne approfitta
per far crollare il regime di Bashar el-Assad. In quel caso non in due settimane, ma in solo pochi
giorni. Infatti Hezbollah non è più in grado di venirgli in aiuto, e neppure il Cremlino, troppo
occupato in Ucraina.
Risultato? L’arco sciita che andava da Teheran a Beirut passando da Damasco non esiste più,
privando la Repubblica islamica dell’Iran di ogni profondità strategica. Per sistemare le cose,
Donald Trump negozia direttamente con gli Houthi yemeniti, ultimo alleato dell’ayatollah
Khamenei. Di quel principio di opportunità di cui hanno approfittato i siriani dell’Isis, Israele si
appropria a sua volta attaccando l’Iran in un momento particolarmente idoneo, dato che l’inquilino
di ritorno alla Casa Bianca, malgrado i dinieghi, non ha niente da rifiutare a Benyamin Netanyahu.
Ne sono prova queste rivelazioni di Adrien Jaulmes, corrispondente di «Le Figaro» a Washington,
il 14 giugno: «I negoziati fra gli Stati Uniti e l’Iran, riaperti da Trump a sorpresa generale lo scorso
aprile, erano parsi in un primo momento sventare i piani di Netanyahu, da molto tempo favorevole
a un’azione militare contro il programma nucleare iraniano». Ma, sempre secondo la stessa fonte,
«Donald Trump e i suoi consiglieri avrebbero fatto finta di opporsi pubblicamente a
bombardamenti israeliani. L’obiettivo era convincere Israele che l’attacco non era imminente ed
assicurarsi che i militari e gli scienziati iraniani inclusi nelle liste dei bersagli di Israele non
prendessero particolari precauzioni. Per completare la copertura, alcuni collaboratori di Netanyahu
avevano addirittura dichiarato ai giornalisti israeliani che Trump aveva tentato di ritardare un
attacco israeliano con una telefonata, lunedì 10 giugno». Citando l’International Crisis Group, think
tank statunitense, Adrien Jaulmes nota però: «Ciò non era conforme alla strategia del presidente
americano. Netanyahu ha chiaramente forzato la mano a Trump». Insomma, non si saprà mai
davvero chi tiene le redini della pariglia americano-israeliana, chi è il padrone e chi il cane.
Da un punto di vista strettamente militare, l’operazione israeliana è un innegabile successo.
Eppure, una decina d’anni fa, un diplomatico iraniano assicurava all’autore di queste righe: «Con i
missili S-300 forniti dai russi, l’Iran è santuarizzato. Se cento aerei israeliani vengono ad attaccarci,
solo una ventina ne usciranno intatti». È il 2010. Un anno prima Gérard de Villiers, ne La bataille
des S-300, un giallo della serie SAS estremamente ben documentato, scrive praticamente la stessa
cosa. Solo, ecco, era quindici anni fa e da allora in poi la tecnologia ha fatto progressi e, in questo
ambito, la schiacciante superiorità israeliana è indiscutibile. Così, i duecento caccia che sono partiti
per bombardare l’antica Persia venerdì 13 giugno sono tutti rientrati intatti alle rispettive basi.
Certo, la risposta iraniana non è esile, ma rimane puramente incidentale, se paragonata ai danni
causati della parte avversa.
Per certi aspetti, questa guerra non è comparabile agli altri conflitti che hanno insanguinato il
vicino e il medio Oriente, poiché i due belligeranti non hanno alcuna frontiera in comune. Il
vantaggio arride quindi più a chi padroneggia meglio i progressi scientifici che consentono di
colpire da lontano che a chi è in grado di mettere sul terreno più soldati per andare a battersi da
vicino. Come se non bastasse, quel po’ di aviazione che rimane a Teheran è risibile. Nel campo della
guerra del futuro, lo Stato ebraico ha già segnato punti decisivi. L’operazione dei telefoni portatili
manomessi, preparata per dieci lunghi anni dai maestri dello spionaggio del Mossad, che ha
decapitato un gran numero di militanti di Hezbollah, ha segnato le menti in modo duraturo. Quella
che ha ingannato l’élite militare dell’esercito iraniano per spingerla a radunarsi in un luogo e in una
data evidentemente noti al Mossad, per poterla meglio annientare, lo stesso venerdì 13 giugno, è
un’altra operazione manipolativa notevole.
In definitiva, quali sono i motivi di questa guerra? Israele ovviamente fa valere la propria
“sopravvivenza”, facendo della Repubblica islamica dell’Iran una «minaccia esistenziale»,
soprattutto quando fosse sul punto di acquisire l’arma nucleare. All’epoca dei missili S-300 citati,
non si tratta tuttavia di una priorità per l’ayatollah Khamenei, né il presidente di allora, Mahmoud
Ahmadinejad, intende «cancellare Israele dalla carta geografica», come si dice che avesse sostenuto
in una conferenza pronunciata il 25 ottobre 2005. C’è da supporre che tutto ciò abbia fatto parte di
un’altra manipolazione, in questo caso mediatica; cosa che sembrava credere all’epoca «Le Point»,
che pure non ha la fama di essere un settimanale furiosamente antisionista.
Così, il 26 aprile 2012, si può leggere a firma del giornalista Armin Arefi: «Il vento sta girando
sull’Iran? Il rischio di attacchi israeliani – e addirittura di una guerra regionale –, presentato come
inevitabile ancora poche settimane fa, sembra inesorabilmente allontanarsi. La svolta data dal
giorno che ha visto due responsabili israeliani in attività – il ministro della difesa Ehud Barak e il
capo di stato maggiore Benny Gantz – annunciare pubblicamente che la Repubblica islamica non
ha deciso di dotarsi della bomba atomica. Un’informazione in realtà nota da parecchi anni ai vari
servizi d’informazione americani, ma anche israeliani». Diamine. Ciò significa che, se gli accordi
irano-americani sul nucleare iraniano avessero seguito il loro corso, forse quella Repubblica
islamica non cercherebbe, oggi, di dotarsi veramente dell’arma fatale in questione…
D’altronde, ciò sarebbe stato così grave per la pace nel mondo? Dopotutto, nel secolo sorso, anche
lo Stato ebraico si è dotato dell’arma nucleare, del tutto illegalmente e nel più grande segreto. Che
l’Iran rimediasse a quello squilibrio forse non sarebbe stato un pericolo neanche per la regione. Lo
pensava comunque Jacques Chirac, citato da «Le Monde», il 29 gennaio 2007: «Direi che non sia
particolarmente pericoloso […] Ciò vuol dire che, se l’Iran prosegue sulla sua strada e padroneggia
completamente la tecnica elettronucleare, il pericolo non è nella bomba che avrà e che non gli
servirà a niente. La spedirà dove, quella bomba? Su Israele? Non avrà fatto duecento metri
nell’atmosfera e Teheran sarà cancellata dalla carta geografica».
Cosa che Tel Aviv non doveva temere, giacché «Le Point» rendeva ufficiale, il 26 aprile 2012, quel
che si scriveva in redazioni meno in vista: le dichiarazioni di Mahmoud Ahmadinejad erano state
deformate da un errore della traduzione in inglese, non si sa se volontario o meno. Da ciò la tardiva
messa a punto del settimanale: «In un’intervista a Al Jazeera, ripresa dal New York Times, Dan
Meridor, ministro israeliano dei servizi d’informazione e dell’energia atomica, ha ammesso che i,
presidente iraniano non aveva mai pronunciato la frase “Israele deve essere cancellato dalla carta
geografica”. E ha aggiunto al contempo: “Mahmoud Ahmadinejad e l’ayatollah Khamenei hanno
ripetuto a più riprese che Israele era una creatura artificiale e non sarebbe sopravvissuta”». Nel
registro delle «creature artificiali» il presidente iraniano includeva peraltro l’Urss, di cui diceva:
«Chi pensava che un giorno avremmo potuto essere testimoni del suo crollo?». E «Le Point»
ricordava: «Eppure, è quella prima citazione errata che è stata ripresa di continuo dai media di
tutto il mondo, attizzando ulteriormente i sospetti sul programma nucleare iraniano».
L’attuale retorica escatologica di Benyamin Netanyahu si baserebbe quindi su chiacchiere, così
come i sempiterni appelli a un «diritto internazionale» tanto fumoso quanto paradossalmente fra i
più solidi sin dal tempo in cui tante nazioni ci si sono regolarmente sedute sopra. E il seguito degli
eventi? Che dire di un’eventuale soluzione politica? Il primo ministro israeliano sembra non averne
né a Teheran né a Gaza. Certo, può contare sull’apatia degli Stati sunniti vicini, in definitiva non
scontenti di vedere il loro concorrente sciita in mezzo alla tormenta. La Russia, malgrado le
proteste, dovrebbe limitarsi ad un atteggiamento verbale, anche se la Cina potrebbe eventualmente
alzare il tono, essendo in gran parte dipendente dal petrolio importato dall’Iran.
E poi c’è il sogno sempre meno inconfessato che consiste nel rovesciare dall’interno il regime dei
mullah. Su questo punto c’è distanza fra il dire e il fare, come ha sottolineato Delphine Minoui,
giornalista franco-iraniana e specialista indiscussa del suo paese natale, su «Le Figaro» del 16
giugno: «La società è divisa in tre gruppi. Il primo, minoritario, applaude i bombardamenti
israeliani. Il secondo resta fedele al regime, per ragioni ideologiche o di interesse economico. Il
terzo, maggioritario, non sostiene né la Repubblica islamica né i bombardamenti israeliani. Si
rallegra della morte dei comandanti corrotti dei guardiani della rivoluzione, ma respinge ogni
forma di aggressione contro il territorio e ogni tentativo di imporre un sistema politico venuto
dall’esterno». Sembra mancare qualcosa per sovvertire il regime dall’interno…
Dal canto suo Régis Le Sommer, ne «Le Journal du dimanche», scrive in fondo la stessa cosa:
«L’era del carpet-bombing è finita, ma Netanyahu ci crede ancora per soddisfare una parte della
sua opinione pubblica». E soprattutto giocare con l’orologio, allo scopo di rinviare l’inevitabile
comparizione dinanzi alla commissione d’inchiesta che lo attende, per le negligenze dimostrate di
fronte al massacro commesso da una Hams che è riuscita a spazzar via Tsahal, esercito tuttavia
ritenuto onnipotente, il 7 ottobre 2023.
Possedere l’egemonia tecnologica sul breve periodo è una cosa. Avere una visione politica sui tempi
lunghi è un’altra. Prima o poi, Benyamin Netanyahu potrebbe impararlo, anche se a sue spese.
www.revue-elements.com , 17.6.2025