Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La geografia tolemaica ha fornito per 1.200 anni la più completa descrizione dell’ecumene

La geografia tolemaica ha fornito per 1.200 anni la più completa descrizione dell’ecumene

di Francesco Lamendola - 02/01/2012






Fino alla vigilia dei grandi viaggi di esplorazione dei navigatori portoghesi, dapprima nell’Oceano Atlantico, lungo le coste occidentali dell’Africa, e poi, alla svolta del XVI secolo, nell’Oceano Indiano, verso il quale era stato trovato il sospirato passaggio, la base delle conoscenze geografiche degli Europei e degli stessi Arabi era stata, per oltre dodici secoli, la «Geografia» di Claudio Tolomeo; così come la sua «Astronomia» era stata, all’incirca per il medesimo periodo, la base della conoscenza della sfera celeste.
O, per essere più esatti, la descrizione contenuta nelle carte geografiche di Tolomeo fu, per tutto quel tempo, ritenuta la migliore esistente dell’ecumene, della Terra effettivamente abitata, cioè di quella porzione della superficie terrestre non sottoposta all’azione micidiale del gelo polare e del tremendo calore equatoriale, paragonato quest’ultimo a una cintura di fuoco. 
Si riteneva peraltro, sia nella tarda antichità, sia nel Medioevo, che l’ecumene fosse non solo la parte centrale, ma anche la porzione maggiore della superficie terrestre; fuori di essa, al di là delle Colonne d’Ercole e al di là della foce del Gange, si estendeva il dantesco «mondo sanza gente», circondato dall’immenso fiume dell’Oceano, al di là del quale doveva esistere una «Terra necdum cognita» o «Terra nondum cognita», ossia un vasto continente tuttora sconosciuto, capace di fare da contrappeso meccanico alla massa dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia.
Non vi sono quasi altri esempi di una rappresentazione scientifica del reale che abbia mostrato una tale longevità e una tale capacità di persuadere popoli e culture diverse, dalla tarda romanità e grecità, al cristianesimo medievale, all’islamismo, fino allo stesso Umanesimo e al Rinascimento, e ciò è tanto notevole da meritare qualche riflessione.
Si suol dire e ripetere che, nella tarda antichità e nel Medioevo, vi fu un crollo dell’arte del viaggiare e del navigare, dovuto sia all’abbandono delle grandi strade consolari di Roma, sia al venir meno dei commerci terrestri e marittimi; e questo, riducendo di molto gli orizzonti geografici della società di quei secoli, potrebbe aver favorito la lunga durata della descrizione tolemaica del mondo, che nessuno aveva gli strumenti per ampliare o rettificare.
Ma è proprio vero che vi era stato quel tale crollo nell’arte del viaggiare e del navigare? Certo, per alcuni secoli erano venute meno, o si erano sensibilmente ridotte, le esigenze del grande commercio, oltre che quelle dell’espansione militare: le due fonti principali del meccanismo di ampliamento e di arricchimento  degli orizzonti geografici nell’età antica.
Ma che dire degli straordinari viaggi marittimi dei monaci irlandesi nell’Atlantico settentrionale, alla ricerca di terre da evangelizzare e di popoli da convertire, o anche, semplicemente, di luoghi di eremitaggio in cui rifugiarsi a pregare e dedicarsi totalmente a Dio? Essi raggiunsero non solo le Shetland, le Faroer, l’Islanda, ma, probabilmente, anche la Groenlandia e le coste del Nord America, a bordo di minuscoli battelli dalle eccezionali qualità nautiche.
La loro meta ultima, comunque, non era di natura geografica: essi cercavano niente di meno che il Paradiso Terrestre; tale era lo scopo della navigazione di San Brandano e dei suoi compagni; e un’eco di quella ricerca sopravvisse a lungo, almeno fino alle soglie dell’era moderna e del viaggio di Cristoforo Colombo nell’ignoto oceano occidentale.
E che dire, poi, dei viaggi terrestri di Giovanni da Pian del Carpine, Odorico da Pordenone, Guglielmo di Rubruck e dello stesso Marco Polo, attraverso tutta l’immensa estensione dell’Asia, fino ai deserti del Turkestan Orientale, alla Mongolia, alla Cina, presso la corte del Gran Khan?
Se la descrizione geografica generale di Tolomeo ha resistito così a lungo nel corso dei secoli, ciò non si deve soltanto, o principalmente, al fatto che le conoscenze geografiche cessarono realmente di ampliarsi, quanto piuttosto alla sua accuratezza, alla sua bellezza sul piano estetico (P. K. Feyerabend ha ben messo in luce l’importanza della dimensione estetica nell’accettazione di una nuova teoria scientifica), nonché al prestigio di cui lo stesso Tolomeo, ma soprattutto Aristotele, ai cui studi egli si rifaceva, godettero per secoli, sia nell’ambito della cultura araba, sia in quella europea, nel cui seno la «Geografia» tolemaica ritornò dopo essere passata, appunto, attraverso la mediazione dell’islamismo.
Un altro elemento che giocò a favore della lunga durata della geografia tolemaica fu l’autorità di cui godette l’altra grande opera dello scienziato alessandrino, e sempre per merito della mediazione della cultura araba, ossia l’«Almagesto» (come gli Arabi avevano tradotto la sua «Astronomia», o meglio, come gli Europei avevano recepito, storpiandola, la traduzione araba «Al magisti» del titolo originale greco, «Grande trattato»); anch’essa prendeva le mosse dalla cosmologia aristotelica, di cui rappresentava una risistemazione complessiva: di suo, Tolomeo ci mise poco più che la teoria degli epicicli, degli equanti e degli eccentrici, per spiegare l’apparente moto retrogrado dei pianeti rispetto al cielo delle stelle fisse.
Come suole accadere, la celebrità dell’opera maggiore, universalmente riconosciuta e apprezzata come la più completa e perfetta nell’ambito specifico, portò con sé, per così dire a rimorchio, il rispetto e la considerazione anche per l’opera minore; e, se anche questo fattore di successo di una concezione scientifica è, di per sé stesso, molto poco scientifico, poiché scaturisce da un fenomeno psicologico soggettivo, tanto peggio per l’idea di scienza rigorosamente oggettiva che la cultura neoilluminista e neopositivista hanno veicolato e continuano tuttora a diffondere.
Ha scritto John H. Parry (in: «Le grandi scoperte geografiche», Il Saggiatore, Milano, 1963):

«Claudio Tolomeo era un egiziano ellenizzato, vissuto nel II secolo dell’era cristiana. Al tempo della massima estensione territoriale dell’Impero Romano era logico sentire l’esigenza di una completa descrizione dell’impero stesso e della “oikoumene” di cui esso sembrava la parte più importante. Tolomeo si propose di are un compendio di tutta la dottrina geografica e cosmografica del suo temo: fu dunque un compilatore solerte, non un pensatore originale o un vero scopritore. Egli fece tesoro di tutta una serie di opere di geografi, astronomi e matematici greci, parecchi dei quali erano vissuti ad Alessandria, sua città natale. La sua fama riposa su due opere: la “Geografia” e l’”Astronomia”, quest’ultima solitamente conosciuta con il titolo arabo di Almagesto”, “il massimo”. Questi due lavori erano tenuti in somma considerazione agli studiosi arabi, eredi diretti del sapere greco. Essi dedicarono maggior attenzione all’”Almagesto”, che era un libro per uomini dotti in quello specifico campo, utile agli scopi esoterici dell’astrologia anziché a quelli della curiosità scientifica generica, o al compito pratico di trovare le rotte sui mari. Lo studio di quest’opera li condusse in tutt’altra direzione. Qui Tolomeo si attardava a descrivere l’austera bellezza del mondo aristotelico, con le sue sfere concentriche che ruotano intorno alla terra, coinvolgendo nel loro moto il sole e le stelle; aggiungeva anche un ingegnoso ed elaborato sistema di cerchi ed “epicicli” con il quale egli tentava di spiegare il movimento dei pineti e degli altri corpi celesti in relazione alla terra. Nel XII secolo Gerardo da Cremona, uno studioso appassionato di cultura araba vissuto a Toledo, tradusse l’opera in latino: nel corso del secolo seguente, l’”Almagesto” fu introdotto nell’Europa occidentale, dove i dotti lo accettarono con deferenza, pur capendolo ed onorandolo meno di opere più spiccatamente aristoteliche penetrate in Europa press’a poco alla stessa epoca e con gli stessi intermediari. Il sistema aristotelico-tolemaico, con le sue celesti sfere e i suoi epicicli, rimase - sia pure con alcune varianti - il modello della tipica rappresentazione accademica dell’universo nel secolo XVI, finché Copernico, diffidando della sua eccessiva complessità, ne cominciò la confutazione.
L’influenza indiretta dell’”Almagesto” non fu limitata al mondo erudito. Verso la metà del duecento John Holywood, o Sacrobosco, eseguì un sommario della traduzione di Gerardo da Cremiona e lo intitolò “De sphaera mundi”. Il libro di Sacrobosco (un dotto inglese che insegnò a Parigi e che, tra l’altro, compose uno ei primi manuali di aritmetica elementare, di poco posteriore a quello di Leonardo da Pisa) divenne il testo più famoso al riguardo e tale restò per quasi tre secoli. Non si trattava, naturalmente, di un compendio di arte nautica, anche se più tardi esso venne allegato ai manuali di navigazione veri e propri. La sua importanza è dovuta è dovuta alla larga diffusione che ebbe: se ne conservano più di trenta “incunaboli”, oltre a parecchie copie manoscritte. Ogni studente universitario dell’epoca doveva certamente conoscere quest’opera che tanto screditò la dottrina dei fondamentalisti: essi erano convinti che la terra fosse piatta, come sosteneva ad esempio Cosma Indicopleuste che per sette secoli aveva esercitato un’enorme influenza sul pensiero geografico, anche se le sue teorie erano state sovente minacciate dappresso. Grazie a Sacrobosco divenne finalmente opinione comune che la terra fosse una rotonda.
La “Geografia” di Tolomeo fece il suo ingresso nel mondo della cultura europea solo più tardi ed in modo assai diverso; ed è invero assai strano che un libro tanto famoso rimanesse sconosciuto così a lungo. Edrisi, un arabo nativo di Ceuta, dotato di brillante ingegno, visse alla corte di Ruggero II di Sicilia e vi scrisse il celebre “Libro di Ruggero” ispirandosi largamente all’opera di Tolomeo; ma siccome l’influenza di Edrisi fu minore di quanto la sua opera meritasse, nessuno cercò di scoprirne le fonti. Il libro di Tolomeo fu tradotto in latino non dal manoscritto arabo, ma da uno greco, proveniente da Costantinopoli. La traduzione fu eseguita da Jacobus Angelus, discepolo del famoso Crisolora, e completata solo nel 1406 o poco dopo. La sua comparsa costituì uno dei maggiori avvenimenti nella stria dell’evoluzione della geografia.
La pare più importante di quest’opera è costituita da un esauriente dizionario di luoghi, riuniti per regione, ai quali è assegnata la latitudine e la longitudine. Il globo risulta diviso in trecentosessanta gradi di longitudine e di latitudine, calcolando la lunghezza di un grado dell’equatore o di un meridiano in base alla valutazione della dimensione della terra. In aggiunta è dato anche un metodo per adattare la lunghezza di un grado di longitudine relativamente a una qualsiasi latitudine e si insegna come costruire una quadrettatura di meridiani e paralleli su cui disegnare una carta geografica basata sulle proiezioni coniche. L’idea di usare e coordinate di latitudine e longitudine  per definire la posizione dei punti sulla superficie della terra non era del tutto nuova per il mondo medievale. Le “Ephemerides” degli astrologhi erano eseguite con riferimento alle posizioni nello Zodiaco e preventivate differenze di longitudine si rendevano necessarie per “rettificare” queste tavole se dovevano servire per luoghi diversi da quelli in cui erano state compilate. Ruggero Bacone aveva già tentato di costruire una mappa con il sistema delle coordinate e l’aveva poi inviata a papa Clemente IV: disgraziatamente essa oggi è andata perduta e Bacone - all’avanguardia anche in questo campo - non esercitò nessuna influenza e non ebbe alcun imitatore. Nel quattrocento l’uso delle coordinate, base e rapporto strutturale dell’esecuzione di carte geografiche, apparve un’invenzione affatto nuova e rivoluzionaria. La seconda sezione della “Geografia” di Tolomeo è, infatti, una collezione di mappe, con una mappa mondiale  e mappe regionali.  Se, per corredare la sua opera, le abbia disegnate proprio Tolomeo, non è cosa facile a stabilire: egli lascia intendere che qualsiasi lettore intelligente potrebbe eseguirne una sulla scorta delle istruzioni da lui fornite. Le carte geografiche che arrivarono in Europa con questa presentazione, chiunque ne sia stato l’artefice e da qualsiasi luogo esse provengano, sono effettivamente basate tutte su coordinate e proiezioni tolemaiche. In esse, oltre al Mediterraneo (rappresentato dettagliatamente anche se di forma un po’ allungata), troviamo l’Europa, l’Asia e l’Africa, che appare assai vasta e di forma tronca. Ancor più tronca è la forma dell’India, mentre Ceylon risulta assolutamente esagerata nelle proporzioni. All’est dell’India è raffigurata un’altra penisola maggiore, quella del Chersoneso d’Oro e ad est di quest’ultima un grande braccio di mare, il Gran Golfo; e infine, al’estremo est della mappa, il paese di Sinae. Nell’interno dell’Asia sono segnati paesi e sistemi fluviali che non si possono facilmente identificare con luoghi e fiumi effettivamente esistenti. Anche l’Africa è studiata con qualche tentativo di dettaglio e mostra non solo le Montane della Luna, ma anche le sorgenti lacustri del Nilo e di altri fiumi. Però il Sud-Africa è unito alla terra di Sinae e ciò rende l’Oceano Indiano simile a un mare chiuso. Tutto intorno a est e a ovest è segnata la terra ferma, o Terra Incognita.»

Riassumendo.
La descrizione geografica della Terra delineata da Claudio Tolomeo si è imposta a partire dalla metà II secolo dopo Cristo e ha tenuto il campo per almeno dodici secoli, fino alla vigilia delle grandi scoperte geografiche di Diaz, Cabral, Gama, Colombo e Magellano, e delle successive rappresentazioni del globo terrestre ad opera dei grandi cartografi del tardo Rinascimento: Mercatore, Ortelio, Oronzio Fineo.
La sua lunghissima durata rappresenta un “unicum” nella storia della scienza e non può essere spiegata soltanto con la caduta dei traffici, dei viaggi, delle spedizioni militari ad ampio raggio, che si verificò in Europa nel più che millenario intervallo di tempo compreso fra l’età degli Antonini alle soglie del XVI secolo.
Tale “caduta” non fu così univoca e così totale come la storiografia di matrice illuminista, sempre intesa a svalutare ogni aspetto della civiltà medievale e a sottolinearne gli aspetti regressivi rispetto all’antichità classica, ha preteso di sostenere (e ci ripromettiamo di tornare presto sull’argomento, occupandoci specificamente dei grandi viaggi in età medievale).
Ad ogni modo, se anche tale “caduta” vi fosse stata, è molto più importante sottolineare la differenza psicologica, culturale, spirituale e morale che caratterizza l’idea medievale del viaggio e del viaggiare e che la distingue nettamente dall’idea umanistico-rinascimentale e, ancor più, da quella propriamente moderna.
L’uomo medievale non antepone mai la “curiositas” alla “virtus”; e ciò vale per ogni aspetto della vita e della cultura; quello dei viaggi non è che un caso particolare. Per l’uomo medievale, la ricerca e l’esplorazione di nuove terre e di nuovi mari non doveva scaturire da semplice curiosità intellettuale, ma dall’accordo di essa con la virtù cristiana, mediante la subordinazione della prima alla seconda: è il paradigma dantesco del XXVI canto dell’«Inferno» (cfr. anche il nostro recente articolo «L’ultimo viaggio di Ulisse termina in tragedia perché nato da “curiositas” e non da “virtus”»), apparso sul sito di Arianna Editrice in data 14/12/2011). 
E Petrarca, che sale fino alla vetta del Mont Ventoux, in Provenza, senza alcuna necessità pratica e senza una vera motivazione spirituale (anche se tenta di reintrodurla “post rem”, con la scena in cui apre le «Confessioni» di Sant’Agostino al termine della scalata), ma al solo scopo di ammirare il paesaggio e di fare ciò che nessun altro aveva fatto prima di lui, affermando il suo io, è veramente il primo uomo “moderno”, di contro all’uomo medievale che delle montagne ha un sacro timore, perché simbolo della potenza e della maestà divine, dunque espressione di una paesaggio sacro che non dev’essere turbato per inseguire scopi profani.
Fra le cause più immediate e dirette della lunga signoria della geografia tolemaica nella cultura occidentale (comprendendo in quest’ultima espressione, almeno in questo caso, anche quella araba, che allora andava dai confini dell’India all’estremo occidente, ossia alla Spagna e al Portogallo) possiamo evidenziare le seguenti cinque.
Prima, la sua scrupolosa esattezza rispetto alla mole dei dati empirici allora disponibili e il suo pieno accordo con le premesse cosmologiche (e teologiche) aristoteliche e, più tardi, tomiste.
Seconda, la sua bellezza estetica: con l’ecumene al centro del mondo ed una armoniosa ripartizione di “pieni” e “vuoti”, ossia di terre  e mari, sulla superficie del pianeta.
Terza, il prestigio indiscusso di Tolomeo come scienziato e, alle sue spalle, il prestigio, anzi, la venerazione nei confronti di Aristotele, il «maestro di color che sanno».
Quarta, l’azione di riflesso svolta dall’«Almagesto» sulla «Geografia», ossia il prestigio indiretto che venne a quest’ultima opera dal prestigio immenso goduto dalla prima.
Quinta, la concezione medievale che condannava come vana e arrogante una scienza (geografica, in questo caso) che muovesse in maniera tale «che virtù non la guidi», ossia che non si ponesse in armonia con una superiore istanza morale e religiosa; e che, in particolare, pretendesse di misurare la realtà in maniera puramente umana e razionale, prescindendo completamente dalla grazia e dal progetto divino riguardo al creato.
Si noterà che, di queste cinque cause, solo la prima e solo in parte ha a che fare con dei criteri di valutazione strettamente scientifici; tutte le altre nascono da fattori ben diversi…