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All’origine del movimento dei forconi

di Marco Petrelli - 20/01/2012


Questo articolo fu pubblicato qui, su Il Fondo, il 23 novembre 2010. Oggi, Martino Morsello è alla guida del Movimento dei Forconi.

La redazione

Se queste righe fossero scritte da Carlo Lucarelli allora l’articolo dovrebbe cominciare così: “Questa è una storia di Mafia e come tutte le storie di Mafia è fatta di intrighi, omertà, violenza e fragorosi silenzi”.

Omertà e fragorosi silenzi sono i termini giusti per delineare la vicenda che vede protagonista Martino Morsello [nella foto], imprenditore di Marsala, titolare della (fu)Ittica Mediterranea Srl, di Petrosino.

Già, Petrosino. Ironia della sorte lo stesso nome del capo della Italian Squad della Polizia di New York Joe, talmente determinato a raggiungere i vertici della Cupola da essere ammazzato, sotto un salice a Palermo, ad un passo dal suo obiettivo.

Un’altra storia di Mafia, dunque, ma almeno quella terminò con onori e glorie per il detective italo americano;  Martino Morsello non ha avuto onori, tantomeno glorie.

Nei primissimi anni Novanta, collaborando con Paolo Borsellino, Martino riesce a far sciogliere la giunta comunale di Marsala per infiltrazioni mafiose. Ciò che accadde dopo è facilmente intuibile: la Ittica Meditarranea Srl, azienda agricola e di piscicoltura, è bersaglio delle ingerenze di criminalità e di rami “deviati” delle istituzioni.

Un’impresa ben avviata, che rispetta le regole di produzione e ben piazzata sul mercato, va in sfacelo. I tempi burocratici troppo lunghi e l’impossibilità di curare la struttura portano ad una moria degli animali e a perdite economiche ingenti. La famiglia Morsello si ritrova sola e in piena crisi.

Antonella, figlia di Martino, parla con orgoglio di un padre che non si arrende. Stare soli non significa essere impotenti, quello è uno stato mentale come la depressione. Il fatto è che, per Martino e per la sua famiglia, non esiste il tempo, tantomeno la volontà, per pensare o accettare una resa incondizionata Dopo lavoro e sacrifici, dopo avere fatto il tuo dovere di cittadino aiutando lo Stato a far emergere intrecci tra potere politico e criminalità, non ce la fai proprio a dichiararti sconfitto, perché sarebbe come ammettere che il torto è tuo poiché non hai avuto abbastanza forza per andare avanti.

L’arte denigratoria, in Sicilia come sul continente, nella Mafia come nella politica, è ormai prassi diffusa (e quasi obbligatoria) per eliminare definitivamente l’avversario.

Più economica delle bombe (artificiere e materia prima d’altronde costano), meno “rumorosa” di una raffica di kalashnikov, più moderna del cemento e dell’acido, la diffamazione è strumento economico e poco rischioso, soprattutto per chi detiene un potere reale.

Ricorderete tutti il caso di Beppe Alfano, il coraggioso giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto (ME), sparito una notte di quasi vent’anni, in seguito ad articoli ed inchieste sviluppate sulla cosca locale. Ebbene, durante il processo (ve lo può confermare la figlia Sonia) fu chiesto ai familiari se Alfano avesse comportamenti “ambigui”, poiché alcune sue studentesse (Alfano insegnava in un Istituto tecnico) avevano lamentato ‘particolari attenzioni’. Nulla di più falso e deplorevole. Tuttavia, seppure per poco tempo, l’immagine del defunto era stata intaccata, mettendo la sua preziosa opera in secondo piano agli occhi della gente. E la gente, da nord a sud, lo si sia, chiacchiera. Troppo e a sproposito.

Durante l’estate scorsa, nell’ufficio turistico in cui lavoravo, si presenta un cliente di Marsala. Mentre sbrigo le mie funzioni si scambiano due parole e faccio saltare fuori la Ittica Mediterranea.

Manco a dirlo, il tipo cambia espressione e parla di “sbagli e manovre errate compiute dall’imprenditore, che lo hanno portato a ritrovarsi in spiacevoli situazioni”. Ero stato avvisato delle dicerie su Martino e, quel signore di mezza età, me le ha confermate.

Mentre al danno di un’azienda mandata a rotoli si aggiunge il colpo inferto alla credibilità e alla dignità dell’essere umano, lenta ma inesorabile l’opera dei magistrati isolani segna per sempre il destino della Ittica Mediterranea: pur non potendo essere dichiarata fallita, la società finisce all’asta.

Il prezzo di partenza dell’asta, mese dopo mese, seduta dopo seduta, si abbassa sempre più, quasi a sottolineare il desiderio di sbarazzarsi di qualcosa di scomodo.

Antonella continua a parlarmi di suo padre e mi pare di vederlo: è lì, instancabile, che lotta ogni giorno per garantire un futuro alla sua famiglia e nel contempo per evitare che la sua storia cada nel dimenticatoio. Tutt’intorno, come nel teatro dei pupi, una folla silente di volti e comparse lo osserva e lo spia, sbalordita e stupita dal fatto che un uomo abbia potuto sacrificare tutto per “non essersi fatto gli affari suoi”. Una folla che lo evita per non avere grane, che gli nega l’appoggio, non economico intendo, ma umano, che vale molto di più. Una Sicilia che pare rimasta ferma a Verga, solo che Martino non crede nell’ideale dell’ostrica e se la barca carica di lupini finisce alla deriva, prima di affidarsi nelle mani del Fato, si fa tutto il possibile per recuperarla e rimettersi in gioco.

Antonella è fiera (ma anche un po’ preoccupata, è normale)  di questo papà che va avanti e indietro, tra redazioni e palazzi, con la sua cartella di documenti sotto il braccio. Vuole affrontare e guardare in faccia chi gli ha distrutto e continua a distruggergli la vita. Mi permetto di fare un paragone cinematografico, magari azzardato. Antonella sorride quando le dico che Martino mi ricorda Ben Gazzara nei panni di O’Professore. Entrambi vanno avanti e indietro, uno nel cortile di Poggio Reale, l’altro per le strade di Marsala; entrambi contano solo sulle loro forze e non accettano l’autorità di chi vorrebbe sottometterli. Stanno sfidando un despota, cosa non facile. Alzano gli occhi alla finestra, il loro uomo è dentro al sicuro tra servi e scagnozzi. E loro sotto: «Malacarne è nu guapp’e cartone. Malacarne è nu guapp’e cartone».

I silenzi, gli atteggiamenti omertosi, lo sciacallaggio sono bassezze degne di ominicchiquaquaraquà , per citare Sciascia. Paradossalmente, oggi, Martino Morsello è l’uomo più ricco e più fortunato della Sicilia: difende valori profondi che hanno radici antiche e ha una famiglia che lo ama e lo protegge. Questa è ricchezza, l’unica risorsa che fa guardare al domani con maggiore ottimismo.

Parlando di queste cose mi piace ricordare il discorso tra la Volpe e il Piccolo Principe: «Ti svelerò il mio segreto, è molto semplice. Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi». In Sicilia molte cose sono invisibili agli occhi. A noipiemontesi piace raccontare queste piccole storie di coraggio. Per alcuni siciliani sono semplice stupidità o pura follia, per noi esempio di vita e simbolo di speranza e cambiamento. Coraggio Martino, a separarci è solo la distanza. L’Italia onesta ti è vicina più di quanto tu creda.