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Siamo pronti per la "pillola della moralità"?

di Peter Singer e Agata Sagan - 02/02/2012

   
   

Lo scorso ottobre, a Foshan in Cina, una bambina di due anni è stata investita da un furgone. L’autista non si è fermato. Nei sette minuti successivi all’incidente, più di una dozzina di persone sono passate, a piedi o in bicicletta, davanti alla bambina ferita, senza fermarsi. L’ha travolta anche un secondo furgone. Alla fine, una donna l’ha trascinata sul ciglio della strada e poi è arrivata la madre. La bambina è morta in ospedale. La scena dell’incidente è stata filmata e ha destato grande scalpore quando è stata mandata in onda da una rete televisiva e poi mostrata online. Un evento simile è accaduto a Londra nel 2004, come in molti altri posti, lontano dagli occhi delle telecamere.

Eppure la gente può comportarsi in modo diverso e spesso lo fa.

Se lanciamo le parole “Eroe salva” su un motore di ricerca, troveremo sempre nuove storie di passanti che hanno affrontato treni in corsa, forti correnti marine e incendi violenti, per salvare degli sconosciuti. Atti di estrema generosità, responsabilità e compassione sono quasi universali, così come i loro opposti.

Perché certe persone sono pronte a rischiare la propria vita per aiutare degli sconosciuti, mentre altre non si fermano nemmeno per chiamare il pronto intervento?

Per decenni gli scienziati si sono dedicati a questioni del genere. Negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, i famosi esperimenti condotti da Stanley Milgram e Philip Zimbardo suggerirono che la maggior parte di noi, in particolari circostanze, avrebbe volontariamente fatto del male a persone innocenti. Durante lo stesso periodo John Darley e C. Daniel Batson dimostrarono che anche alcuni studenti di seminario, sapendo di essere in ritardo per una conferenza sulla parabola del buon Samaritano, sarebbero passati davanti a uno sconosciuto ansimante sul marciapiede senza fermarsi. Ricerche più recenti ci dicono molte cose su ciò che accade nel cervello, quando le persone devono prendere decisioni morali. Ma siamo davvero vicini a capire cosa influenza il nostro comportamento morale?

Eppure mancava qualcosa in questi tre esperimenti: alcune persone facevano la cosa giusta. Un esperimento recente (sul quale abbiamo delle riserve etiche), condotto presso l’Università di Chicago, sembra gettare una nuova luce sul perché di certi nostri atteggiamenti.

I ricercatori hanno preso due ratti che condividevano la stessa gabbia e hanno intrappolato uno di loro in un tubo che poteva essere aperto solo dall’esterno. Il ratto libero ha provato ad aprire la porta e alla fine ci è riuscito. Anche quando i ratti liberi avevano la possibilità di mangiare una grande quantità di cioccolato, prima di liberare il topo in trappola, hanno quasi sempre preferito aiutare il loro compagno. I ricercatori interpretano queste scoperte come la dimostrazione dell’esistenza dell’empatia. Ma se è così, hanno dimostrato anche che tra i ratti c’è una varietà di comportamenti, dato che solo ventitre ratti su trenta hanno deciso di liberare il proprio compagno.

La causa delle differenze di comportamento giace nei topi stessi. Sembra plausibile che gli umani, così come i ratti, non abbiano tutti lo stesso livello di disponibilità nei confronti del prossimo. Sono stati condotti molti studi anche su particolari tipi di soggetti, come gli psicopatici, ma c’è ancora molto da scoprire sulle differenze relativamente stabili (forse radicate nei nostri geni), presenti nella stragrande maggioranza delle persone.

Indubbiamente, i fattori situazionali possono fare grande differenza e forse anche le convinzioni morali, ma, se gli umani sono semplicemente predisposti in maniera diversa ad agire moralmente, ci sono ancora molte cose da sapere su queste differenze. Solo allora potremo capire appieno il nostro comportamento morale, incluse le ragioni per cui varia così tanto da persona a persona, e se c’è qualcosa che possiamo fare in merito.

Se le continue ricerche sul cervello mostrano delle diversità biochimiche tra i sistemi neurologici di coloro che aiutano il prossimo e quelli di coloro che non lo fanno, ciò potrebbe portarci a creare una “pillola della moralità” una droga che ci spingerebbe ad aiutare di più gli altri? Considerando che molti studi mettono in relazione le condizioni biochimiche con l’umore e il comportamento, e considerando anche la conseguente proliferazione di droghe che li modificano, non sarebbe un’idea tanto incredibile. Se così fosse, la gente sceglierebbe di assumerle? In alternativa alla prigione, ai criminali potrebbe essere data l’opzione di un impianto che, rilasciando una droga, li rendesse meno inclini a fare del male agli altri? I governi potrebbero cominciare a sottoporre le persone a un esame diagnostico, per individuare coloro che hanno più probabilità di commettere dei crimini? Si potrebbe offrire la “pillola della moralità” a coloro che sono più a rischio; se rifiutassero, gli si potrebbe richiedere di indossare un dispositivo di rintracciabilità che mostrerebbe dove si trovavano in un preciso momento, così saprebbero di poter essere individuati, se commettessero un crimine.

Cinquant’anni fa Anthony Burgess scrisse “A Clockwork Orange” [“Arancia meccanica”, ndt], un romanzo futuristico sul capo di una banda di delinquenti che viene sottoposto a una procedura che lo rende incapace di violenza. La versione cinematografica di Stanley Kubrick, del 1971, fece scoppiare un’enorme polemica e molti affermarono che non saremmo mai giustificati se privassimo un individuo del libero arbitrio, anche allo scopo di prevenire la più scabrosa delle violenze. È ovvio che qualunque proposta di creare una pillola della moralità incontrerebbe la stessa obiezione.

Ma se i processi chimici del nostro cervello influenzano il nostro comportamento morale, il fatto che l’equilibrio sia dovuto alla natura o a un intervento medico non inciderebbe sulla nostra libertà di agire. Se tra noi ci sono delle differenze biochimiche che possono essere utilizzate per predire se i nostri comportamenti saranno etici o meno, allora o tali differenze sono compatibili con il libero arbitrio, o sono la prova che, almeno per quanto riguarda alcune delle nostre azioni etiche, nessuno di noi ha mai avuto libertà di scelta. In ogni caso, che il libero arbitrio esista o meno, potremmo presto trovarci faccia a faccia con delle nuove scelte sulle maniere in cui siamo disposti a influenzare il nostro comportamento in meglio.

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Fonte: Are We Ready for a ‘Morality Pill’?

 

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MARILISA POLLASTRO