Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Perché Tacito, nell’«Agricola», parla del «magnum ac memorabile facinus» degli Usipeti?

Perché Tacito, nell’«Agricola», parla del «magnum ac memorabile facinus» degli Usipeti?

di Francesco Lamendola - 28/02/2012


 

 

Gneo Giulio Agricola giunse in Britannia, con il grado di governatore, nel 78 d. C., dopo due precedenti soggiorni sull’isola, uno come tribuno militare sotto Svetonio Paolino, dal 58 al 62, e uno come comandante della XX legione «Valeria Victrix», sotto i governatori Marco Vettio Bolano e Quinto Petilio Ceriale, dal 71 al 75.

La sua campagna contro i Caledoni ebbe inizio nell’estate dell’80, dopo aver sottomesso gli Ordovici del Galles settentrionale e riconquistato l’isola di Mona (Anglesey), rioccupata dai Britanni dopo la spedizione di Svetonio Paolino; in un primo tempo egli si spinse sino al fiume Taus (probabilmente il Solway Firth), dopo di che fece fortificare le posizioni raggiunte, in vista di nuove operazioni verso settentrione.

Il suo obiettivo era quello di mettere definitivamente al riparo la provincia romana dalle scorrerie dei Caledoni; allora non esistevano né il Vallo di Adriano, né quello di Antonino Pio, che sorsero appunto quando i Romani rinunciarono per sempre a sottomettere la parte dell’isola rimasta indipendente, avendo calcolato che sarebbe stato troppo oneroso cercar di annettere la Caledonia, così come, a suo tempo, avevano rinunciato ad annettere la Germania sino all’Elba; l’impero era quasi giunto alla sua massima capacità di espansione e la campagna di Agricola si colloca appunto in quel contesto, quando l’imperialismo romano stava incominciando a rallentare e ben presto avrebbe rinunciato a ulteriori progetti di conquista e di ampliamento dei confini.

Nell’82, forse dopo aver effettuato alcuni sbarchi esplorativi sulle coste dell’Hibernia (Irlanda) per migliorare la propria posizione strategica complessiva - la cosa è ancora oggetto di controversia fra gli storici -, Agricola mosse guerra alle tribù celtiche stanziate nella regione del Taus; dovette però fronteggiare un loro pericoloso contrattacco nell’anno successivo, culminato nell’assalto notturno contro l’accampamento della legione VIII Hispana, che tuttavia riuscì a respingere, sia pure con qualche difficoltà.

Anche la flotta romana di stanza nell’isola fu impiegata da Agricola, non solo a sostegno delle operazioni terrestri, ma anche a scopo politico, per intimorire le popolazioni caledoni, e logistico, onde appurare definitivamente la natura insulare della Britannia, circumnavigandone l’estremità settentrionale: ciò che verrà fatto dopo la vittoria del Monte Graupio, avvistando anche le Isole Orcadi e quella che i Romani chiamavano l’ultima Thule (forse Mainland o Unst nelle Isole Shetland; più difficile pensare all’Islanda, come faranno invece i medievali).

Nello stesso anno, o più probabilmente in quello successivo, l’esercito romano riprese ulteriormente l’avanzata e si spinse fino alla roccaforte nemica del Monte Graupio (una località di non facile identificazione, forse la collina di Bennachie presso Aberdeen, ai piedi delle Higland scozzesi), tagliando ai Caledoni la strada per i propri depositi invernali e obbligandoli, così, ad sostenere una battaglia campale per non dover affrontare l’inverno senza viveri - si tenga presente che non di un esercito si trattava, ma di una intera popolazione, in quanto i guerrieri celti erano accompagnati, secondo il loro uso, dalle loro famiglie al completo; un po’ come faranno i Pellirossa durante le loro guerre difensive contro le “giacche azzurre” della cavalleria americana, fra il Mississippi-Missouri e le Montagne Rocciose, fra gli anni ’60 e ’80 del XIX secolo.

D’altra parte, l‘esercito di Agricola era formato, oltre che dai legionari romani, da numerosi ausiliari “barbari”, specialmente Germani; e anche i legionari erano soldati provenienti da ogni parte dell’Impero, in genere reclutati tra le popolazioni più fiere: solo lo spirito di corpo li teneva insieme e - come fa dire Tacito al capo caledone Calgaco, in  un celebre discorso tenuto ai suoi nell’imminenza della battaglia - la loro smisurata avidità di conquista e di bottino.

Si trattava, dunque, di truppe assai eterogenee, le quali, negli ultimi tempi, avevano mostrato segni allarmanti di irrequietezza, specialmente quelle ausiliarie; anche se Agricola aveva ripristinato una ferrea disciplina, vi era stato, proprio nell’83, un ammutinamento particolarmente grave, che viene riferito da Tacito con un tono intermedio tra il mitico e il favoloso.

Nella «Vita di Agricola» («De vita et morbus Iulii Agricolae»), infatti, lo storico romano racconta un episodio che ha del romanzesco: la rivolta di una coorte di mercenari usipeti, reclutati dai Romani in Germania e trasferiti in Britannia, i quali, per cause imprecisate, si ribellarono, uccisero un centurione e alcuni legionari, si impadronirono di tre navi e tentarono di rientrare in patria, circumnavigando addirittura la Britannia.

Non vi riuscirono; anzi, dopo aver sostenuti numerosi scontri con i Britanni e dopo essere giunti a un tal punto di sfinimento e disperazione da divenire cannibali dei propri compagni, finirono per essere catturati sulle coste del continente e per essere catturati e fatti schiavi dagli Svevi, poi venduti ai Frisoni; alcuni di essi capitarono di nuovo presso i Romani, in Gallia, dove ebbero modo di raccontare le loro mirabolanti e drammatiche avventure.

Ecco come Tacito narra il fatto («Agricola», cap. 28; in Tacito, «Storie, Dialogo degli oratori, Germania, Agricola», a cura di Azelia Arici, Classici Utet, Torino, 1959, 1970, pp.658-60):

 

«Eadem aestate cohors Usipiorum per Germanias conscripta et in Britanniam transmissa  magnum ac memorabile facinus ausa est. Occiso centurione ac militibus, qui ad tradendam disciplinam immixti manipulis exemplum et rectores habebantur, tres liburnicas  adactis per vim gubernatoribus ascendere; et uno remigante, suspectis duobus eoque interfectis, nondum vulgato rumore ut miraculum praevehebantur. Mox (ubi) ad aquam atque ut(ens)ilia rapt(um ex)issent, cum plerisque Britannorum sua defensantium proelio congressi ac saepe victores, aliquando pulsi, eo ad extremum inopiae venere, ut infirmissimos suorum, mox sorte ductos vescerentur. Atque ita circumvecti Britanniam, amissis per inscitiam regendi navibus, pro praedonibus habiti, primum a Suebis, mox a Frisiis intercepti sunt. Ac fuere quos per commercia venumdatos et in nostram usque ripam mutatione ementium adductos indicium tanti casus inlustravit.»

 

Ma perché Tacito ha inserito questo straordinario racconto nella biografia di suo suocero, Giulio Agricola, il vincitore dei Caledoni e il pacificatore della provincia romana della Britannia, un tipico rappresentante del “mos maiorum”, che lo storico latino contrappone esplicitamente alla spregevole figura del detestato imperatore Domiziano?

Esistono varie spiegazioni in proposito, partendo dal fatto che la più logica di tutte, ossia che si tratta di un fatto vero, non soddisfa interamente per almeno due ordini di ragioni: primo, perché l’«Agricola» non è, essenzialmente, un’opera storica, ma una biografia idealizzata del suocero, con scopi encomiastici, politici e morali; secondo, perché esistono fondate ragioni per sospettare della reale, o almeno della totale, veridicità del «magnum ac memorabile facinus» narrato da Tacito riguardo alla coorte degli ausiliari germanici ammutinati e poi fuggiti.

Si aggiunga che il trattatello tacitiano è costruito con sapiente architettura letteraria e nel rispetto di una serie di regole e di corrispondenze ben precisi, sicché, ad onta dell’impressione di freschezza e di spontaneità che potrebbe sorgere da una lettura frettolosa e inconsapevole (ma in ciò appunto sta la grande arte narrativa dell’autore), la verità è che si tratta di una delle opere più sorvegliate, più sapientemente costruite e più severamente strutturate della letteratura latina.

Questo i filologi lo sanno bene, così come sanno, ad esempio, che le «Bucoliche» di Virgilio sono parimenti costruite su uno schema di corrispondenze e di simmetrie estremamente preciso e puntuale, per cui le dieci egloghe si succedono secondo una scansione che non ha assolutamente nulla di “spontaneo” o di casuale, ma rivelano, all’occhio attento del lettore esperto, il segreto ordine geometrico che si cela dietro l’apparente immediatezza poetica.

Ebbene, un discorso analogo si può fare per l’«Agricola» e la «Germania» di Tacito, così come per la «Congiura di Catilina» o per la «Guerra di Giugurta» di Sallustio; il genere della monografia storica, infatti, nella mentalità e nella cultura latina, è un genere letterario come un altro, e risponde a delle regole artistiche chiaramente stabilite; solo quanto al contenuto, è un’opera specificamente storica, ma nel senso che i Romani, e Tacito più di altri, davano all’espressione: ossia qualcosa di molto lontano dalla nostra idea moderna di scienza storica (vera o presunta tale che sia) e di molto vicino all’arte, alla poesia, all’espressione del fatto estetico.

A ciò si aggiunga che l’«Agricola», per complicare il livello della sua interpretazione e della sua fruizione, è un incontro e una mescolanza di generi diversi: l’elegia, la biografia, una «laudatio funebris» e una raccolta di materiale storico, geografico ed etnologico vario, e che perciò risente di modelli stilistici diversi, da Cicerone (per i discorsi) a Sallustio e Tito Livio.

Chi, ad esempio, leggendo il discorso che il capo caledone Calgaco rivolge ai suoi compatrioti alla vigilia della battaglia decisiva, potrebbe seriamente pensare che esso rifletta un dato reale: che Tacito, cioè, sia giunto in possesso di una testimonianza da parte di qualche prigioniero nemico catturato dopo la battaglia; quando è invece evidente che si tratta di una tipica orazione in stile ciceroniano, che, oltretutto, serve all’autore per valorizzare (come anche nella «Germania»), la forza schietta e la semplicità dei costumi dei barbari, per contrapporla alla decadenza romana, dovuta alla smania di ricchezza e all’oblio del sano “mos maiorum”?

Così riassume la questione il filologo classico Francesco Giancotti, già professore presso varie università italiane, nel suo ampio e articolato saggio «Strutture delle monografie di Sallustio e Tacito» (Casa Editrice G. D’Anna, Firenze, 1971, pp. 325-28):

 

«… Arruolati in Germania e trasportati in Britannia a far parte delle truppe ausiliarie di Agricola, gli Usipî si ammutinano e disertano; con tre navi circumnavigano la Britannia, passando per varie peripezie e giungendo perfino a tanta miseria da pascersi, dapprima dei più deboli fa loro, popi di altri, tratti a sorte nel loro stesso gruppo (§ 1 s.). Vengono alfine catturati dai Suebi e dai Frisii; e alcuni, venduti e passati da padrone a padrone, arrivano sino alla riva sinistra del Reno e divengono famosi per il racconto della loro avventura (§ 3). L’ambito del capitolo è chiaramente circoscritto, coincide col racconto del “magnum ac memorabile facinus”. Ma, qual è la funzione di questo racconto nell’insieme della monografia?

Secondo il Gudeman, esso mostra ammirevolmente di quali elementi eterogenei  e indisciplinati fosse composto l’esercito di Agricola e così magnifica il merito del generale capace di fonderli in un efficace strumento di guerra, un fatto successivamente messo in rilievo per implicazione, giacché la battaglia decisiva [ossia quella del Monte Graupio, nell’estate dell’83 o dell’84] fu vinta del tutto dagli ausiliarî romani, di cui gli Usipî avevano fatto parte. D’altronde, se Tacito credette che l’avventura fosse troppo notevole e interessante per essere omessa, essa non avrebbe potuto occupare altro posto senza distruggere  la successione cronologica degli eventi, che è rigidamente osservata dovunque. Alfine, conclude il Gudeman, il passo risponde a un fine “drammatico”. L’autore ha atteso a ordinare tutti i suoi fatti per condurli gradatamente allo scioglimento.  Con le parole conclusive del cap. 27, “atque ita irritatis utrimque animis discessum”, il non meno eccitato lettore sente la calma opprimente che precede la tempesta, sente che la crisi finale è vicina e, come spesso nel dramma greco un mitigante canto corale precede la catastrofe, così Tacito ha introdotto qui il “magnum ac memorabile facinus” a mo’ di diversione, prima di procedere al racconto particolareggiato della battaglia finale, destinata ad essere un disastro per la causa britannica e u trionfo glorioso per il suo eroe. Il Ferrero, commentando ilo cap. 28, afferma: “Il legame di questo episodio con quanto precede è soltanto apparentemente temporale (“eden aestate”), mentre in realtà resta interiormente giustificato dalla somiglianza con l’atteggiamento delle altre  milizie romane dopo la battaglia di cui al cap. precedente, trovandosi pur esso sulla linea direttrice della “incostantia animorum”; fra questa, e quella della “constantia animi” di Agricola, si svolge la trafila degli avvenimenti fino all’atto conclusivo della battaglia al monte Graupio”. E più oltre, in una nota a "inveniemus nostras manus" di 32,3: "Appena il legame coesivo del timore venga meno,  le genti che servono nell'esercito di Agricola  rivoltandosi contro il padrone rivendicheranno l'antica libertà prestando man forte ai nemici dei Romani: "agnoscent... suam causam" etc.; tanto più poi che la defezione degli Usipeti avvenuta di recente aveva loro aperto gli occhi. L'episodio della "coohrs Usiporum", che forse poteva sembrare una intempestiva digressione, non articolata col restante della narrazione, acquista adesso un significato importantissimo nell'economia spirituale di essa, ché nel suo ricordo e nella suggestione dell'esempio derivatone si conchiude il pensiero di Calgaco sulla concordia delle genti e l'unione contro lo straniero". Secondo l'Ogilvie, nel cap. 28 Tacito segue Sallustio e Livio nella consuetudine di contrassegnare e introdurre le sezioni maggiori dell'opera mediante digressioni: come al racconto del governo di Agricola ha premesso l'excursus sulla Britannia (cap. 10-13 [sic]), così qui egli si sofferma a riferire la strana avventura degli Usipi avanti la "climax" del monte Graupio. Il racconto, soggiunge l'Ogilvie, serve anche ad illustrare vivamente le difficoltà contro cui Agricola doveva lottare (cf. cap. 32, 3) e a ricordare ai lettori i risultati da lui conseguiti ordinando la circumnavigazione della Britannia (cap. 10,4; 38, 4).

Queste spiegazioni e osservazioni sono generalmente plausibili. Tra esse spicca quella che addita l'espresso riferimento che alla diserzione degli Usipi fa Calgaco in 32,3. Indubbiamente il racconto del cap. 28 esemplifica un elemento importante della situazione in cui operava Agricola. Un altro rilievo mi sembra fondato e pertinente: quello che vien fatto di avanzare se si riflette sull'espressione "magnum ac memorabile facinus", con cui Tacito stesso definisce l'avventura degli Usipî; ossia, a parte il nesso con la situazione e gli sviluppi successivi, quella espressione suggerisce che quel "facinus" appariva meritevole di menzione già solo in quanto "magnum ac memorabile", tale, insomma, da attrarre la fantasia di uno storico artista, che si era nutrito di Sallustio (cf. "B. Iug.", 79, 1: "... non indignum videtur egregium atque mirabile facinus duorum Carthaginiensium memorare...", e sopra, p. 114, 157 ss., 204 s., 213 s.; e generalmente  "Cat.", 4, 4: "... nam id facinus in primis ego memorabile existumo sceleris atque periculi novitate"; e "B. Iug.", 5, 1: "... primum quia magnum et atrox variaque victoria fuit..."). Per ciò che riguarda la funzione drammatica, ravvisata dal Gudeman, o di preludio rispetto alla "climax" del monte Graupio, secondo l'opinione dell'Ogilvie, mi pare che si possa anche ammetterla - concludendo, così, col supporre una varietà di funzioni - purché non si perda di vista un altro fatto: cioè che, in fondo, anche il cap. 29, anzi soprattutto il cap. 29 costituisce il preludio rispetto alla battaglia finale. »

 

Riassumendo. Noi non possediamo elementi tali da poter decidere se, e fino a che punto, il fatto narrato da Tacito circa la coorte degli Usipeti sia da considerare storicamente certo; che fosse possibile, lo prova il fatto che si trattava di un evento che, sia pure lontano nello spazio, non lo era però nel tempo, e qualche militare romano che avesse prestato servizio nell’esercito di stanza in Britannia avrebbe potuto facilmente smentirlo, se così non fosse stato, cosa che avrebbe compromesso la reputazione dello scrittore. E perché mai Tacito avrebbe dovuto esporsi a correre un rischio del genere, inventandosi qualcosa che non era mai successo?

Questo non significa, d’altra parte, che si debba accogliere la narrazione del «magnum ac memorabile facinus» nella sua totalità e senza alcun beneficio d’inventario: troppi sono gli indizi, sia di contenuto che di forma, i quali inducono a sospettare che Tacito abbia voluto imbandire ai suoi lettori un ricco banchetto di tipo romanzesco, un qualcosa di avvincente ed esotico, capace di immettere nella narrazione quel pizzico di pepe atto a renderla più godibile a quanti non chiedevano all’«Agricola» solo, o principalmente, una rigorosa esattezza storica, ma anche qualche volo di fantasia o, almeno, qualche abbellimento che rendesse la vicenda più interessante.

È stato detto e ripetuto che Tacito, come Tito Livio, è uno storico-poeta, il che certamente è vero; ma sarebbe sbagliato giudicarlo tale secondo le categorie mentali proprie della cultura contemporanea, accostandolo, per esempio, a Ferdinand Gregorovius, a Jakob Burckhardt o a Johann Huizinga. Egli fu storico-poeta, così come Platone fu un filosofo-poeta: vale a dire che la storia, per Tacito, non passava affatto in seconda linea rispetto alla narrazione; ma che giudicava perfettamente lecito (a differenza dei moderni) adornare quest’ultima di abbondanti artifici letterari.

Il che sembra essere avvenuto, in qualche misura, per il capitolo 28 dell’«Agricola».